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L'uso alternativo del diritto. Un episodio paradigmatico della cultura giuridica.

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A mio nonno

Alfredo

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INDICE

Introduzione

CAPITOLO PRIMO: La storia

1. Le origini dell’uso alternativo del diritto e della

“giu-risprudenza alternativa” ………pag. 7

2. La scoperta della “contraddizione” e la contestazione

della “ideologia dell’ordine”………. pag. 19

CAPITOLO SECONDO: Il dibattito

1. Il cammino della scienza giuridica e la crisi d’identità

del giurista………...………...pag. 33

2. Verso la costruzione di una teoria “alternativa”:

l’adozione della prospettiva marxista come strumento

per porre fine alla “ideologia della separazione”

………..……...pag.58

3. Interpretazione e critica del diritto. La scienza del

di-ritto riconosciuta dalla vita come avente autorità sulla

vita………pag. 68

4. Il ruolo principalmente “politico” del giudice

nell’interpretazione e la rilevanza dei principi

costitu-zionali………pag. 76

5. Le critiche e i dissensi all’interno del Convegno a

par-tire dal “paradosso di Lipari”………pag. 90

6. Marx e l’uso alternativo del diritto…………..pag 101

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CAPITOLO TERZO: I casi

1. Ortodossia giuridica e pratica politica a confronto:

in-troduzione all’attività giudiziaria alternativa e

illustra-zione del “caso Grimeca”………pag 113

2. La rivendicazione del diritto alla salute in fabbrica: il

“caso Binda” e la via alternativa alla logica del

profit-to……….…….pag. 121

3. Il “caso Biagioli”: un modello di confronto-scontro tra

pretura e tribunale………pag. 124

CAPITOLO QUARTO: Cosa rimane

1. La crisi della concezione alternativa e lo sviluppo

del-le critiche “esterne”……….pag. 134

2. Giudice Hercules e giudice “alternativo” a confronto:

possibilità e limiti del paragone tra la

metagiurispru-denza dworkiniana e quella alternativa ...…....pag. 148

3. La rilevanza della “soggettività” nell’interpretazione

giuridica: un possibile confronto tra la concezione

“al-ternativa” e la concezione ermeneutica………pag. 162

4. La “stagione” alternativa oltreoceano: i Critical Legal

Studies ……….…pag. 168

5. Conclusioni ……… pag. 180

Bibliografia ………pag. 185

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha lo scopo di ricostruire i momenti salienti del dibattito giuridico che caratterizzò il clima “tormentoso” della fine degli anni sessanta. In particolare, esso ha come oggetto la proposta teorica e pratica dell’«uso alternativo del diritto», che si presentava e si poneva esplicitamente come “alternativa” rispetto all’interpretazione tradizionale del diritto “borghese”, principalmen-te perché aveva l’obiettivo di privilegiare l’utilizzo dei principi co-stituzionali, in particolare del principio di uguaglianza quale princi-pio cardine del sistema. Soprattutto, ed è quello che si è voluto sot-tolineare maggiormente, quella proposta assumeva caratteri “para-digmatici”, in quanto mise in discussione, per la prima volta tutti as-sieme, i postulati teoretici sui quali si fondava la cultura giuridica fino ad allora dominante. Il lavoro è strutturato in quattro capitoli. Il primo è volto a inquadrare il fenomeno in analisi nel contesto stori-co di riferimento, soprattutto stori-con riguardo alla sestori-conda metà degli anni sessanta, anche se non mancano collegamenti col periodo im-mediatamente precedente caratterizzato da quello che è stato chia-mato “congelamento costituzionale”. Segue un capitolo volto ad analizzare la nascita e lo sviluppo dei paradigmi della scienza giuri-dica e della giurisprudenza dominanti, la loro confutazione sulla ba-se delle proposte dei partecipanti al Convegno sull’uso alternativo del diritto e le divergenti opinioni sulle quali si trovarono a discutere i giuristi aderenti al nuovo movimento. Tale capitolo si conclude con un paragrafo dedicato all’analisi dell’utilizzo del marxismo co-me assunto di partenza per un’impostazione alternativa del diritto. Il capitolo terzo rappresenta invece la parte, per così dire, “dinamica” di questo lavoro, in quanto ripropone il contenuto delle decisioni di alcuni casi concreti, mettendone in evidenza la logica “alternativa” seguita, in particolar modo, dai giudici democratici. Infine, il quarto e ultimo capitolo esamina l’infelice epilogo della “parabola” alter-nativa, nonché le aspre critiche con le quali tale esperienza viene ri-cordata; esso tenta peraltro di evidenziare quali siano i contributi teorici che nella situazione odierna rivestono un qualche interesse dal momento che, pur nella particolare declinazione delle proposte, l’uso alternativo del diritto ha rappresentato un capitolo della lunga storia dei rapporti tra formalismo e antiformalismo, che secondo

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Norberto Bobbio costituiscono i due poli entro i quali oscilla costan-temente tutta la storia della cultura giuridica.

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“Non è certo la ricerca di una reciproca rassi-curazione emozionale che ha spinto un gruppo di studiosi a riflettere sui problemi dell’uso al-ternativo del diritto. Né tanto meno gli alletta-menti di una piacevole gita «accademica»: ba-sterebbe ricordare […] che il convegno si è svolto all’insegna della preoccupazione dei possibili turbamenti dell’ordine pubblico. Le ragioni sono diverse e coincidono con le condizioni oggettive e soggettive che hanno concorso a determinare l’attuale fase a livello del dibattito della scienza giuridica e delle scienze sociali. In questo senso il convegno non può essere isolato dal contesto nel quale si è svolto, così come non può essere compreso il significato del discorso, nella sua globalità e complessità di articolazione, senza un conte-stuale e continuo riferimento ai momenti e alle radici del dibattito sulla giustizia e sul diritto che, uscito finalmente dalle accademie, occupa financo le pagine dei quotidiani”

(P. Barcellona, “Introduzione” a L’ uso alterna-tivo del diritto)

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1. Le origini dell’uso alternativo del diritto e della giurispruden-za alternativa

Difficile comprendere appieno il significato di “uso alternati-vo del diritto” se non lo si colloca nel contesto storico di riferimen-to, nel c.d. “decennio operoso”, secondo la definizione degli anni settanta propria di Massimo Severo Giannini1.

In realtà, e più precisamente, il decennio cui occorre far riferimento è ricompreso solo in parte nell’arco temporale previsto da Giannini, in quanto è dalla seconda metà degli anni sessanta che si sviluppa un processo culturale, sociale, giuridico e politico che porterà allo sviluppo di diverse e opposte prospettive, ad un nuovo modello di cultura giuridica e ad un nuovo modo di intendere e, soprattutto, di praticare la giustizia.

Uno degli eventi principali di questo decennio è indubbiamente rap-presentato dalle Giornate di studio promosse dall’Università di Ca-tania, Facoltà di scienze politiche, nel maggio del 1972, sul tema

“Significato e limiti dell’uso alternativo del diritto”, il cui

contenu-to è stacontenu-to riprodotcontenu-to in due volumi, curati da uno dei membri del Comitato Direttivo del convegno stesso, Pietro Barcellona, il quale ha ripreso la formula ivi coniata per intitolarli “L’uso alternativo del diritto”2.

Tale convegno, ha osservato efficacemente Pietro Costa, non ci po-trà apparire come un’improvvisata inaugurazione di una problemati-ca inconsueta, ma un intervento (organizzativamente, culturalmente) più complesso”3. Infatti, per un verso, esso riprende una serie di

aspettative, proposte, tendenze proprie degli anni immediatamente precedenti, di un recente passato, incrementandone l’autorevolezza e le potenzialità persuasive ma, per altro verso, le ripropone in ma-niera “trasformata” e in un contesto sensibilmente diverso dal pre-cedente4. Tra questi, uno dei temi privilegiati di riflessione e

1 M. S. Giannini, “La lentissima fondazione dello Stato repubblicano”, in Regio-ne e governo locale, 1981, n.1, pp. 17 ss.

2 P. Barcellona, L’uso alternativo del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1973.

3 P. Costa, “L’alternativa presa sul serio: manifesti giuridici degli anni settanta”, in Democrazia e diritto, 1987, n.3, p. 18.

4 Per un’analisi del Convegno si veda anche M. Cossutta, Interpretazione ed esperienza giuridica. Sulle declinazioni dell'interpretazione giuridica: a partire dall’uso alternativo del diritto, Trieste, EUT, 2011, vol. I, pp. 15 ss.

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to della cultura giuridica degli anni sessanta è, senza dubbio, la teo-ria dell’interpretazione del diritto.

Nel VII congresso nazionale di filosofia del diritto5, dedicato a tale

tema, emersero una serie di opzioni teoriche sull’interpretazione che andavano ben oltre il senso in cui essa era stata, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, tradizionalmente intesa dalla teoria legalistico-formalistica di stampo liberale e che quindi smentivano la supposi-zione circa l’esistenza di una unitaria e “unanime” tradisupposi-zione a ri-guardo. La peculiarità principale consisteva nel collegamento, e nel-la conversione, del problema dell’interpretazione giuridica nel pro-blema del ruolo (politico) del giudice, dei suoi limiti nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme giuridiche, del rapporto tra potere giudiziario e potere legislativo. Si riproponeva, dunque, la tradizionale alternativa tra formalismo/antiformalismo, ma essa si veniva precisando e determinando in riferimento ai sog-getti interpretanti, ossia ai giuristi e, in primis, ai giudici.

Ed è in tale contesto che si colloca la nascita, nel 1964, di una delle principali associazioni di corrente dell’Associazione Nazionale Ma-gistrati, che avrà un ruolo determinante nella attuazione del progetto di una giurisprudenza alternativa: Magistratura Democratica. «Uno strano animale, davvero difficile da definire e catalogare, e però cer-tamente collocato a pieno titolo nella sinistra italiana». Questa è la definizione di MD, in più occasioni, proposta da Pietro Ingrao e ri-portata da uno dei suoi esponenti, Giovanni Palombarini, nel-la“Premessa” alla sua opera dedicata alla nascita e allo sviluppo di MD6.

Uno “strano animale” perché si trattava certamente di un’organizzazione a “forte politicità generale”7, impegnata in una

battaglia di trasformazione politico-sociale ma, al tempo stesso, in-centrata nella realizzazione di una specifica cultura giuridica, di «un sapere concreto con cui si esercita(va) e si organizza(va) un potere e

5Si allude al VII Congresso nazionale di filosofia del diritto, tenutosi a Roma, il 31 ottobre-4 novembre 1965, cui fa riferimento P. Costa, op. cit., p. 19.

6 G. Palombarini, Giudici a sinistra. I 36 anni della storia di magistratura de-mocratica: una proposta per una nuova politica per la giustizia, Napoli, Edizio-ni Scientifiche Italiane Spa, 2000, p. 17.

7 P. Ingrao, “Una politica per la giustizia”, in Quali garanzie, Bari, De Donato, 1983, p. 489.

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un ruolo»8.Essa si pose come premessa di una piccola ma autentica

“rivoluzione culturale”9, in un contesto, come quello proprio degli

anni ’60-‘70, favorevole ai cambiamenti.

Un’autentica rivoluzione culturale, perché all’obiettivo, da più parti già rivendicato, del rinnovamento dell’ordinamento giudiziario, si affiancò il tentativo più ampio e ambizioso di rottura con la cultura giuridica tradizionale, caratterizzata dal formalismo giudiziario, os-sia da quella teoria interpretativa, così come intesa nell’accezione classica montesquieuiana, del giudice “bocca della legge” e, quindi, quale mero assertore del potere legislativo.

Dalla neutralità e invisibilità del potere giudiziario discendeva una cultura giuridica caratterizzata dalla neutralità e apoliticità del dirit-to, da una pretesa assoluta di completezza e coerenza dell’ordinamento e da una attività meramente tecnico-descrittiva dell’interprete. Conseguenza di tutto ciò era una visione della Costi-tuzione non come una sorta di “diritto sul diritto”, che alterava la struttura formale dell’ordinamento, codificando quei principi assio-logici cui la stessa legislazione era obbligata a uniformarsi, ma co-me una “proco-messa per il futuro”, coco-me un insieco-me di norco-me co- mera-mente programmatiche indirizzate al legislatore e non di diretta ap-plicazione ad opera del giudice10. Si trattava di «una strategia di contenimento della dimensione politica del diritto […] rivolta al congelamento delle norme costituzionali che si tende(va) a relegare nel cielo dei principi»11.

Il lavoro dell’interprete, dunque, si riduceva ad una “scomposizione in frammenti minuti” del testo costituzionale, evitando il ricorso ad una interpretazione sistematica e teleologica12. Tant’è vero che,

co-me efficaceco-mente si osservava, era accaduto alla Costituzione re-pubblicana l’inverso di ciò che si era verificato nei confronti dello Statuto Albertino nei primi decenni del Regno d’Italia, poiché

8Ibidem.

9 L’espressione utilizzata è di Antonella Meniconi, Storia della magistratura ita-liana, Bologna, Il Mulino, 2012, p. 311.

10 La distinzione tra norme programmatiche e precettive è stata elaborata nella sent. Sez. unite Cass. 7 febbraio 1948.

11L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 1999, p.57.

12 G. Tarello, “Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione po-litica del giurista-interprete”, in Popo-litica del diritto, nn. 3-4, 1972, pp. 459-499, pp. 473-474.

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quest’ultima era stata “dimenticata” e interpretata estensivamente,

«dicendo e garantendo meno di ciò che volevano e potevano fare le

forze del Risorgimento», mentre la carta costituzionale della Re-pubblica era stata invece “dimenticata” ma interpretata restrittiva-mente, «dicendo e garantendo più, non già di ciò che volevano, ma di ciò che potevano fare le forze ormai divise della Resistenza»13. La principale preoccupazione dei civilisti e penalisti dell’epoca non era quella di attuare la Costituzione e i principi insiti in essa, ma di affermare il carattere “tecnico” dei codici, epurati solo dal richiamo alle norme corporative fasciste, e di inserirli nel solco della tradizio-ne.

Si trattava, quindi, di una strategia volta a segnare la continuità ri-spetto al vecchio ordinamento, assicurata anche dalla riconferma del personale amministrativo e giudiziario appartenente, negli altri gra-di, a quella generazione formatasi durante il ventennio fascista ed esponente di una giurisprudenza “tecnica”e “avalutativa”, o meglio, che voleva essere riconosciuta come tale. Una organizzazione gerar-chica dell’ordine giudiziario, al cui vertice era posta la Corte di Cas-sazione quale garante dell’uniformità della giurisprudenza. Un cor-po giudiziario istituzionalmente indipendente all’esterno, pur se funzionalmente subordinato al potere legislativo, e privo di qualun-que collegamento con la sovranità popolare, sottratto, perciò, ad ogni forma di controllo democratico.

Come ha osservato Luigi Ferrajoli14, il fenomeno sicuramente più

dirompente nella cultura giuridica degli anni ’60-’70 è la “scoper-ta”15 della Costituzione, la quale “rompe” i dogmi metateorici propri

del vecchio giuspositivismo, riassumibili nell’unità, coerenza e completezza del sistema giuridico. La sua estraneità al vecchio or-dinamento e la sua collocazione al vertice delle fonti, consentiva di procedere alla distinzione, per così dire “ferrajoliana”, tra validità e vigenza delle norme. Una norma è valida non in quanto meramente appartenente ad un ordinamento giuridico dato, ma in quanto con-forme alla Costituzione, rectius ai contenuti “materiali” della

13 G. Palombarini, op. cit., “Introduzione” di Mario Isnenghi.

14 L. Ferrajoli, op. cit., capitolo quinto, “La crisi del paradigma dell’autonomia del diritto negli anni sessanta e settanta”, pp. 63 ss.

15 L’espressione utilizzata è di Alessandro Pizzorusso, “Il disgelo costituziona-le”, in Storia dell’Italia Repubblicana, vol.II/2, Torino, Einaudi, 1995.

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tuzione, ossia a quei principi e valori di giustizia insiti in essa. Po-tremmo avere, conseguentemente, norme che non sono valide, ma solo provvisoriamente vigenti, in attesa del sindacato di legittimità costituzionale ad opera della Corte Costituzionale. Un mutamento di prospettiva, come si può osservare, radicale.

Si andava formando, in questo contesto, una generazione nuova di giuristi, accomunata dall’esigenza di «un generale ripensamento, in chiave costituzionale, dei metodi, delle categorie, e dei problemi della scienza giuridica e da un’apertura programmatica alle temati-che del conflitto sociale»16. Gli esempi, a tale proposito, furono

molti.

In primis, in ambito civilistico, celebri giuristi come Stefano Rodo-tà, Pietro Rescigno, Francesco Galgano, Pietro Perlingieri, Guido Alpa e lo stesso Pietro Barcellona procedettero ad una lettura costi-tuzionalmente orientata delle norme del Codice Civile e ad una revi-sione, in tal senso, delle categorie civilistiche tradizionali in esso contenute (proprietà, contratto, responsabilità civile…).

Scelta simile si ebbe per il diritto del lavoro, il cui fulcro diventò non più il rapporto contrattuale in sé, ma il lavoratore e i suoi diritti. Ricordiamo, a tal proposito, Ugo Natoli, Gino Giugni, Federico Mancini, Umberto Romagnoli, Giorgio Ghezzi.

Analogamente, con riferimento al diritto processuale civile, espo-nenti come Andrea Protopisani e Michele Taruffo, mentre Franco Cordero, Massimo Nobili e Paolo Ferrua si occuparono del rinno-vamento del diritto processuale penale.

Relativamente agli studi costituzionalistici, si ricorda principalmen-te Alessandro Pizzorusso17 e, successivamente, Gustavo

Zagrebel-sky, Ugo Rescigno, Gianni Ferrara e Mario Dogliani.

MD si inserì attivamente nell’ambito di questo processo di “disgelo della Costituzione”18 e non casualmente la Relazione Introduttiva di Arnaldo Cremonini, che precederà l’incontro pubblico del 4 luglio 1964 tenutosi presso l’università di Bologna, al termine del quale verrà adottato il nome di “Magistratura Democratica”, evidenziava la “funzione della Resistenza” quale ispiratrice della Costituzione e

16 L. Ferrajoli, op. cit., p. 70.

17 Autore di una apposita rubrica intitolata “Obiettivo sulle ordinanze di rimes-sione alla Corte Costituzionale”, in Quale giustizia, 1970-1979.

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si soffermava sul ruolo non solo tecnico, ma anche politico del giu-dice19. Quest’ultimo, prendendo avvio dallo «scandalo per i silenzi impotenti o complici delle istituzioni giudiziarie, specialmente nei loro alti gradi»20, doveva contribuire attivamente all’attuazione della

Costituzione, rompendo la separatezza del corpo giudiziario e aprendosi alla società, “democratizzandone la giurisprudenza”, ossia adeguandola ai parametri e ai valori costituzionali.

«Si dice ‘scandalo’ per dare espressione ad un sentimento diffuso

che muove a fare, e a fare controcorrente, una nuova generazione di giudici […], cioè appunto un’associazione professionale che traduce uno spirito, Magistratura Democratica. Essa è dunque, anche, un fat-to generazionale, il frutfat-to di un nuovo sguardo e di un nuovo sogget-to collettivo, di una diversa coscienza di sé e del proprio ruolo, in giovani operatori del diritto e giudici che hanno studiato nelle scuo-le della Repubblica invece che nelscuo-le scuoscuo-le del Fascio»21. La conte-stazione del modus operandi e della “ideologia” dell’alta magistra-tura presentava, infatti, anche un forte connotato generazionale: tutti i magistrati di Cassazione e la maggior parte di quelli di appello ri-sultavano in servizio da prima del 1944, mentre ben il 99 percento dei membri del tribunale erano entrati in servizio successivamente a quella data. Questi ultimi non avevano perciò bisogno né di «rimuo-vere la compartecipazione al fascismo» in quanto, a differenza dei loro predecessori, non avevano svolto parte della loro carriera du-rante gli anni del regime, né di «rimuovere come una velleità o un ingombro la Costituzione repubblicana». Da ciò derivava, conse-guentemente, un diverso modo di vedere la Costituzione: «la quale, ai loro occhi non non abbisogna affatto di essere faticosamente e ipoteticamente legittimata dal tempo e dalle circostanze, ma rappre-senta anzi essa stessa il nuovo e differente principio di legittimazio-ne degli ordinamenti e del vivere associato»22.

Come si può intuire, la scoperta della Costituzione come norma fondamentale immediatamente precettiva fu un fatto al tempo stesso sorprendente e traumatico, carico di istanze di rinnovamento. Ed è

19 G. Palombarini, op. cit., pp. 43 ss.

20 G. Palombarini, op. cit., “Introduzione” di Mario Isnenghi. 21Ibidem.

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proprio a partire dalla fondazione di MD che l’interpretazione venne indicata come uno degli strumenti principali per l’attuazione della Costituzione stessa. Si trattava di un’interpretazione chiaramente basata sui principi costituzionali e che si poneva, perciò, irrimedia-bilmente in contrasto con le prassi interpretative fondate, invece, sui codici degli anni Trenta.

Una doppia contestazione, a tale proposito, MD proponeva nei con-fronti dei “vecchi modelli”. La prima, relativa ad una “cattiva” teo-ria dell’interpretazione, che «ignorava le lezioni di Kelsen e della filosofia analitica sul carattere inevitabilmente discrezionale delle scelte interpretative e, quindi, delle opzioni etico-politiche da esse richieste»23e una “cattiva” teoria delle fonti, che «parimenti

ignora-va la diignora-varicazione originata nell’ordinamento dal virtuale conflitto tra la Costituzione e il vecchio sistema legislativo ancora prevalen-temente fascista»24.

In un documento di MD del marzo 1965 veniva descritto, perciò, quale dovesse essere l’atteggiamento corretto dei giudici rispetto al generale panorama delle norme fasciste ancora vigenti all’epoca. Tali norme dovevano intendersi “ricreate” proprio nel momento in-terpretativo, per effetto del nuovo ordinamento costituzionale. Si fa-ceva riferimento, ancora una volta, a Kelsen :«il vecchio ordinamen-to, al quale non corrisponde più alcuna realtà politica, ha cessato di essere valido; e tutte le norme recepite nel nuovo ordinamento rice-vono validità esclusivamente dai principi della nuova Costituzio-ne»25.

Si trattò di una ulteriore dimostrazione di come il tema interpretati-vo, in quegli anni, iniziasse a confluire nel tema del ruolo politico dell’interprete.

Tuttavia tale rapporto trovò la sua consacrazione e il suo primo au-tentico sviluppo nella Relazione presentata da Giuseppe Maranini, in apertura del famoso XII Congresso della ANM, tenutosi a Gardo-ne Gardo-nel 1965. In tale congresso, le idee di MD risultarono maggiorita-rie e si affrontò esplicitamente, per la prima volta nella storia dell’associazionismo, il rapporto sussistente tra giudice e politica.

23 L. Ferrajoli, op. cit., p. 74. 24Ibidem.

25 H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, Ed. di Comunità, 1952, p. 119.

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Un rapporto, fino a quel momento, impensabile nel panorama della tradizione giuridica italiana, come osservava Enzo Forcella26. Più precisamente, la relazione generale di tale congresso si intitolava “Funzione giurisdizionale e indirizzo politico nella Costituzione”. Maranini parlò di un “rapporto effettivo”27(tra giudice e politica),

per effetto del quale partecipa dell’indirizzo politico non solo la Corte Costituzionale, ma anche il singolo giudice, poiché è proprio nell’attività interpretativa di valutazione della norma alla luce dei principi costituzionali che egli esprime, a sua volta, un preciso indi-rizzo politico (rectius: un indiindi-rizzo di politica costituzionale):

«Il giudice deve sempre ricordarsi che in maggiore o minor misura

egli è produttore di diritto, e che tutta la coscienza umana, e dunque anche il suo indirizzo politico, si proietta inevitabilmente nelle sue decisioni […] L’indirizzo politico non può essere che la risultante spontanea e l’equilibrio dell’indirizzo politico dei singoli giudici nella piena autonomia della loro coscienza. Entro questi limiti è for-za di libertà; fuori di questi limiti è strumento di contaminazione e non è più legittimo»28.

Nella mozione finale si delinearono i compiti e la responsabilità po-litica del giudice, il quale doveva, utilizzando un’interpretazione conforme al dettato costituzionale, applicare direttamente le norme costituzionali al fatto concreto, salvo rinvio, anche d’ufficio, alla Corte Costituzionale nei casi in cui un’interpretazione di tal tipo non fosse possibile:

«… il problema dell’indirizzo politico nell’ambito della funzione

giurisdizionale non si pone, ovviamente, in termini di indirizzo poli-tico contingente […] bensì in termini di tutela dell’indirizzo politi-co-costituzionale, in quanto la Costituzione ha codificato determina-te sceldetermina-te politiche fondamentali, imponendole a tutti i podetermina-teri dello Stato, ivi compreso quello giudiziario, e attribuendo a quest’ultimo, oltre che al capo dello Stato e alla Corte Costituzionale, il compito di garantirne il rispetto»29.

26 G. Crainz, Il paese mancato, Roma, Donzelli, 2003, p.118. 27 G. Palombarini, op. cit., pp. 53 ss.

28 Una riproduzione della Relazione di Maranini si ha in V. Zagrebelsky, “La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi”, in Storia d’Italia, Annali 14, Torino, Einaudi, 1998, pp. 768-769.

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La funzione interpretativa veniva, dunque, accostata a quella legi-slativa in riferimento alla responsabilità circa l’attuazione della Co-stituzione. Un accostarsi che, in molti casi, si esplicherà in una vera e propria sostituzione dell’interprete al legislatore inadempiente. Allo sviluppo di questa politica di attuazione contribuì la stessa Cor-te Costituzionale, la quale,sempre più frequenCor-temenCor-te, accolse le eccezioni di legittimità costituzionale sollevate dai giudici di merito, anche su questioni che precedentemente la Corte di Cassazione ave-va dichiarato infondate30. Vennero così abrogate molte delle vecchie

norme di stampo autoritario e poste le basi per quella “politica di supplenza” svolta dai giudici nei confronti del legislatore:

«Lungi dal costituire frutto di un’opera coerente e sistematica,

l’attuazione della Costituzione è stata conquistata, si può dire, casa per casa, cioè problema per problema, via via che le circostanze fa-vorevoli si presentavano in uno od altro settore, senza alcun preciso piano d’azione. Inoltre più che all’opera del legislatore […] essa è dovuta a taluni interventi presidenziali e soprattutto al paziente lavo-ro svolto dalla Corte Costituzionale […] e dai giudici, operanti que-sti ultimi dapprima e più timidamente nelle forme della disapplica-zione delle leggi incostituzionali, poi attraverso la denuncia di esse alla Corte medesima»31.

In un clima positivo di speranze e di spinte al cambiamento quale fu quello che animava il Congresso di Gardone non mancarono, tutta-via, anche momenti di tensione. In particolare si ricordi la brusca in-terruzione, da parte di alcuni presenti, dell’intervento di Lelio Bas-so, il componente della costituente che aveva personalmente scritto il secondo comma dell’articolo 3 Costituzione, il quale stava sve-lando come molte sentenze, soprattutto quelle di insufficienza di prove per imputazioni mafiose, non fossero da considerare neutrali e tecniche, bensì “politiche”32. Egli venne interrotto in quanto, secon-do una parte dei presenti, stava commettensecon-do il reato di vilipendio della magistratura. Si trattò di un caso di contestazione non isolato. In generale, anche la stessa mozione di Gardone verrà fortemente

30 E. Bruti Liberati, “Obiettivo 2. La vicenda esemplare di Magistratura Demo-cratica e la sua attualità”, in Questione Giustizia, n.5, 2005, pp. 1009-1026. 31A. Pizzorusso, “Obiettivo sulle ordinanze di rimessione alla Corte Costituzio-nale”, in Quale giustizia, n.1, 1970, pp. 86-92, cit. p.86.

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criticata dalla magistratura conservatrice, in primis dall’UMI33, e la

contrapposizione tra tradizione e innovazione si rifletterà sul rappor-to tra poteri, nello scontro tra Corte di Cassazione e Corte Costitu-zionale, relativamente alla riforma in senso garantista del codice di procedura penale del 1955. Questi furono solo i primi esempi di una contestazione ben più ampia, che vedrà come particolare bersaglio di critiche proprio l’operato di MD e di quella giurisprudenza alter-nativa così altamente rappresentativa del clima culturale degli anni settanta.

Nonostante i contrasti, possiamo comunque affermare con certezza che quelle giornate a Gardone avrebbero segnato, a giudizio di mol-ti, “un punto di non ritorno”, poiché costituirono non solo la presa d’atto dei problemi reali della giustizia, ma anche una volontà con-creta di rinnovamento, con indicazioni esplicite a riguardo.

«La giustizia italiana comincia finalmente a superare quella

conce-zione carismatica, autoritaria, formalistica delle proprie funzioni che l’hanno tanto appesantita sino a ieri. È formalistico infatti mandare in galera un incensurato perché ha rubato due arance (due di nume-ro), o ordinare la cattura di un innocente già condannato per errore (il famoso caso Gallo) perché l’interpretazione letterale della legge così prevede»34.

Infine il dibattito sull’interpretazione, unito al dato del connotato generazionale, rappresentò un’occasione importante per una riven-dicazione, ad opera della “bassa” magistratura (ossia dei giudici di tribunale), di una maggiore indipendenza, non solo esterna dagli al-tri poteri, ma anche interna, avuto riguardo soprattutto ai rapporti di subordinazione gerarchica, all’epoca ancora esistenti, con l’alta ma-gistratura.

Rilevanti furono, in tal senso, oltre alla costituzione del CSM, una serie di piccole riforme, alle quali MD contribuì attivamente. Si pensi alla preparazione e all’approvazione della c.d. Legge Bregan-ze, 29 luglio 1966, n. 570 (e poi successiva Legge Breganzone, 20 dicembre 1973, n. 83) sull’abolizione della progressione in carriera basata sul sistema dei concorsi per i consiglieri d’appello (e, nel

33[s.f.]“La funzione del giudice nella società di ieri, di oggi e di domani è quella di applicare la legge ai casi da essa previsti […] Questa e non altra”, cit. G. Colli, in Rassegna dei magistrati, maggio-giugno 1972, pp. 195-196.

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1973, anche per i magistrati di Cassazione), che la sostituì con una progressione per anzianità senza demeriti. Si trattava di un passo importante per l’attuazione piena del principio dell’indipendenza in-terna della magistratura, previsto esplicitamente dall’articolo 107, terzo comma, Costituzione il quale stabilisce una distinzione tra magistrati solo per funzioni ma che, al pari degli altri principi costi-tuzionali in materia di ordinamento giudiziario, non era stato all’epoca ancora attuato.

Ma vi è di più, poiché queste rivendicazioni particolaristiche di una parte corposa della magistratura confluirono, a partire dalla nascita di analisi sociologiche35 oltreché normative, in una ridefinizione lato sensu del ruolo professionale e sociale del giudice36. Veniva ed

es-sere intaccato, in tal modo e assieme all’autonomia del diritto rispet-to alla politica, la stessa aurispet-tonomia della cultura giuridica rispetrispet-to alle altre scienze sociali. Il ruolo sociale dei giuristi, i condiziona-menti esterni delle professioni giuridiche, gli atteggiacondiziona-menti dei giu-dici, la loro ideologia di ceto, i loro stili argomentativi diventarono solo alcuni dei tanti temi oggetto di riflessione dell’epoca37. Questo

dimostra ulteriormente che è riduttivo pensare al dibattito sull’interpretazione di quegli anni come un processo unilineare, avente il proprio fulcro nelle vicende specifiche di un ceto profes-sionale (la magistratura). Indubbiamente il pensiero dei giudici (rec-tius di alcuni giudici più progressisti) alimentò e, sotto certi aspetti, “drammatizzò” questo dibattito. Tuttavia frequenti e significativi apporti provennero anche dai giuristi di cattedra. Questa commistio-ne si spiega con il riferimento ad un’immagicommistio-ne comucommistio-ne: l’immagicommistio-ne del mutamento sociale in atto. Tale riferimento era molto importan-te, perché consentiva di ricondurre temi quali la modificazione delle categorie interpretative, il ruolo del giurista e del giudice non ad una

35 Una delle prime indagini sociologiche a riguardo che suscitò grandi discussio-ni e critiche fu quella di E. Moriondo, intitolata “L’ideologia della magistratura italiana”, Bari, Laterza, 1967, con introduzione di R. Treves.

36 P. Costa, op. cit., pp. 22-23.

37 Basti ricordare, a titolo esemplificativo, la pubblicazione di una serie di ricer-che di taglio sociologico sulla magistratura promosse dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale nel 1967, oppure la pubblicazione a cura di R. Tre-ves di undici volumi su “L’amministrazione della giustizia e la società italiana in trasformazione”, oppure ancora la nascita nel 1974 della rivista Sociologia del diritto.

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volontà particolarista di un gruppo, ma alle esigenze oggettive della società.

Si avviava, quindi, una rimeditazione del ruolo del giurista-interprete a partire da una società in continua trasformazione, se-condo ritmi fino ad allora inusitati.

Infatti,«dalla fine degli anni cinquanta avevano preso avvio trasfor-mazioni colossali nel modo di lavorare e di vivere, di produrre e di consumare, di pensare e di sognare degli italiani. Si erano diffuse in-tense speranze (e contrapposte paure) di un “governo” di quelle tra-sformazioni: di riforme reali, cioè, volte a sanare sia arretratezze an-tiche sia le contraddizioni nuove indotte dai tumultuosi processi di modernizzazione. Riforme capaci di indicare al tempo stesso regole e valori condivisi in un paese che cambiava radicalmente, anche se non omogeneamente, pelle»38.

Era stato un giornale inglese, il “Daily Mail”,in una corrispondenza risalente al maggio 1959, a coniare il termine “miracolo economico” per indicare il processo di sviluppo economico italiano di quegli an-ni. Tale processo aveva contribuito a costituire una vera e propria rivoluzione, in primis dei consumi e delle abitudini degli italiani. A titolo puramente esemplificativo, si può segnalare il passaggio dal giornale alla televisione, dalla motocicletta all’automobile, dalla vita di campagna a quella della città.

Di fronte all’avvento di una società tecnologica di tal genere, il giu-rista aspirò ad avere un ruolo “rinnovato e insieme confermato”:egli si pose come mediatore tra “conservazione e innovazione”, assunse la responsabilità del continuo completamento e aggiornamento del sistema normativo, utilizzando uno stile argomentativo al contempo descrittivo e valutativo39.

Questo modello “positivo” di rappresentazione del mutamento so-ciale, definito da Costa come “industrial-consensualista”40, auspica-va, da un lato, che il mutamento sociale comportasse una progressi-va riduzione della conflittualità sociale e, dall’altro lato, un inseri-mento del tutto naturale del giurista in tale processo, «adeguando i propri strumenti alla realtà, connettendo passato e futuro»41.

38 G. Crainz, op. cit., p. 3. 39 P. Costa, op. cit., p. 25. 40 P. Costa, op. cit., p. 27. 41Ibidem.

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Tuttavia tali aspettative rimasero, ben presto, deluse.

La “bella èpoche inattesa”42, premessa essenziale di una piena

mo-dernità del paese e anche di un benessere mai conosciuto, in realtà aveva riguardato solo alcune classi, ignorando quelle più deboli43.

Le trasformazioni in atto, infatti, avevano evidenziato ed enfatizzato le disuguaglianze e discriminazioni sociali, essendo queste ultime conseguenza, ma soprattutto presupposto, del boom economico, ba-sato «sull’utilizzo selvaggio di manodopera a basso costo che ab-bandona campagne poverissime»44.

2. La scoperta della “contraddizione” e la contestazione della “ideologia dell’ordine”

Sarà in particolar modo con il passaggio alla “congiuntura”, ossia alla crisi economica temporanea che caratterizzò il biennio italiano 1963-64, che la fabbrica diventerà l’emblema della contraddizione. Da un lato, uno sviluppo della ricchezza e delle possibilità offerte dal mercato e, dall’altro, il costo pagato, in termini di riduzione del salario e dei diritti, da alcuni settori di lavoratori per consentire tale sviluppo economico e, soprattutto, per “mantenerlo”.

«L’austerità non può essere a senso unico. Si possono chiedere

sa-crifici ai lavoratori. Ma i lavoratori hanno tutti i diritti di chiedere che cosa sono disposti a fare gli altri, coloro che più hanno, per sal-vare l’avvenire economico del paese. Se gli si risponde […] che bi-sogna accantonare le riforme, rassegnarsi all’ingiustizia fiscale, mantenere intatti i vecchi rapporti di potere, è come se si dicesse che da questa parte non si vuole pagare letteralmente niente»45.

Si sviluppò, perciò, un “senso di giustizia offesa”46,un rifiuto delle

gerarchie e delle forme tradizionali di subalternità rispetto alla so-cietà che si stava affermando, che determinò una ripresa del

42 L’espressione utilizzata è di I. Calvino, “La bella èpoche inattesa”, in Tempi moderni, luglio-settembre 1961, p. 26.

43 Lo sottolinea Indro Montanelli in apertura della sua Storia d’Italia, Vol. XI (1965-1993), Milano, RCS Quotidiani S.p.a., 2004.

44 G. Crainz, op. cit., p. 13.

45 E. Forcella, “E’ necessario intendersi sulla fiducia”, in Il Giorno, 29 febbraio 1964.

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gonismo collettivo, «l’accumularsi di speranze, di valori collettivi e antagonisti all’ordine esistente»47.Si assisteva all’irrompere sulla

scena di un movimento sindacale dalle caratteristiche nuove, «se-gnato in profondità da una forte spinta egualitaria e dall’aspirazione a quella democrazia dal basso che era stata una cifra di fondo del ‘68»48. L’ingiustizia del paese venne, quindi, tendenzialmente ad

identificarsi con l’ingiustizia sociale e questo dimostrò come la tesi auspicata della riduzione del conflitto sociale si rivelò fallimentare. Anzi, come giustamente si osservò, «il vecchio Marx sembrava vi-vere da noi una seconda giovinezza»49: in primis per il tumultuoso

prender corpo di una “conflittualità permanente”, la quale innestava aspre lotte all’interno delle fabbriche e stimolava la partecipazione operaia alle nuove forme di democrazia sindacale (le assemblee di fabbrica e i consigli dei delegati), ma anche perché i veri protagoni-sti del biennio 68-69 non furono solo ed esclusivamente gli operai, ma soprattutto i giovani. Essi manifestarono una critica e un rifiuto sempre più radicali rispetto alle norme e valori della società dell’epoca. «Per i giovani siamo tutti sul banco degli accusati: resi-stenti, fascisti, politici, scienziati, capitalisti, comunisti, purché ap-partenenti alla generazione dei padri: quella, per intendersi, che co-minciò una guerra col fucile e la finì con la bomba atomica»50. Significativo fu, a tale proposito, il successo della pubblicazione in Italia, nel 1967, dello “Uomo a una dimensione” di Herbert Marcu-se, il quale offrì spunti di critica all’immobilismo e al neocapitali-smo della società già all’inizio dell’opera: «Una confortevole, levi-gata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà indu-striale avanzata, segno di progresso tecnico».Secondo questo cele-bre sociologo, in una società industriale avanzata e repressiva quale era quella dell’epoca, i valori tipicamente borghesi si erano ormai diffusi nei confronti di tutti gli altri soggetti sociali, riducendoli a meri consumatori, la cui esistenza era caratterizzata dal bisogno ata-vico di produrre e consumare, senza possibilità di resistenza.

Ed è solo un anno dopo tale pubblicazione che il disagio crescente per l’esistente si tradurrà in un vero e proprio movimento di

47Ibidem.

48 G. Crainz, Il paese reale, Roma, Donzelli Editore, 2012, p. 12. 49Ibidem.

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sta. Pochi riuscirono a coglierne nell’immediato il significato e la portata, tra cui l’allora ministro degli esteriAldo Moro: «Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiusti-zie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del qua-dro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del di-ritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del pro-prio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, so-no tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità»51.

Il movimento studentesco poneva al centro della riflessione la criti-ca alla struttura autoritaria della scuola italiana e la presa d’atto di essere oggetto di una manipolazione culturale ad opera della classe dominante, la quale, attraverso la mistificazione della presunta “neutralità” della scienza, trasmetteva la propria ideologia52.

Al tempo stesso però i giovani erano alla ricerca di una propria ideologia53, che rispecchiasse quella esigenza di democrazia dal

51 G. Palombarini, op. cit., pp. 60-61.

52Con la critica alle organizzazioni scolastiche tradizionali, cresce anche la ricer-ca di nuove forme di organizzazioni e la valorizzazione dell’assemblea studente-sca. Basti leggere, a titolo esemplificativo, alcune proposizioni del “documento della Sapienza”52

, redatto collettivamente dagli occupanti la Sapienza di Pisa, i giorni 7-11 febbraio 1967 . http://www.sba.unipi.it/content/evento-archivio/occupazione-della-sapienza

53Scrive Giorgio Bocca a riguardo, in “La vita continua”, Il Giorno, 16 maggio 1965: «Mi sforzo di capire i caratteri distintivi […] dei giovani che oggi frequen-tano le università. Ebbene direi, per cominciare, un rinnovato, prepotente biso-gno di ideologia. Il nostro abiso-gnosticismo diretto all’utile e al comodo […] non li soddisfa […]. A Roberta piace Fidel che dice “voglio dare alla gioventù il disgu-sto per il denaro”, e le piace Che Guevara che combatte in Bolivia; si interessa ai negri in rivolta, ai vietnamiti in guerra, a ciò che si muove nell’India e nel sud Africa. Ed è questo che l’altro carattere che distingue lei e quelli della sua età […]: l’interesse ai problemi del mondo e ai poveri del mondo».

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basso di cui la nuova generazione si faceva portatrice. In questa di-rezione, la lezione di Marx fu illuminante. Ne derivò, sulla base di una lettura marxista della società, la scoperta di una ingiustizia stret-tamente collegata all’impianto strutturale di una società divisa per classi e quindi, della natura autoritaria non solo della scuola, ma an-che di tutte le altre istituzioni del paese, a partire dalla famiglia. A questo punto divenne inevitabile il collegamento con la classe ope-raia:

«In questi mesi nelle scuole gli studenti hanno cominciato a

combat-tere contro il pocombat-tere dei professori. Sono stufi di farsi imbottire il cranio senza poter discutere e senza poter decidere. Ma […] l’autoritarismo, cioè il fatto che pochi comandano e molti sono tor-chiati, non c’è soltanto nella scuola: c’è in tutta la società e soprat-tutto nella fabbrica. La Fiat è l’esempio più tipico» (“Perché gli stu-denti intervengono nella lotta operaia, firmato Il movimento studen-tesco in lotta”, 5-4-1968)54.

Per ciò che concerne la cultura giuridica e la giurisprudenza, il mo-vimento del 68-69 così inteso, determinò storicamente uno “spar-tiacque”, in quanto comportò il passaggio da un modello consensua-listico nella rappresentazione del cambiamento sociale ad uno con-flittuali stico. L’immagine del mutamento si venne a determinare nell’idea del conflitto, collegando ad esso«o un’immagine valutati-vo-positiva […] di trasformazione e rinnovamento (come strumento per la riaffermazione della politicità del diritto)o un’immagine valu-tativo-negativa di sovvertimento e distruttività»55.

Ed è proprio muovendo da questo spartiacque che si iniziò a deli-neare l’idea di una giurisprudenza alternativa ad opera dei giudici e giuristi più “progressisti”. Questi, infatti, non solo accolsero positi-vamente il movimento del ‘68 come un movimento che si poneva in ideale continuità con i temi innovativi “gardoniani” (della politicità del giurista nell’interpretazione costituzionalmente orientata), ma grazie ad esso conferirono a tali temi il connotato marxista della “lotta di classe”. L’espressione “la giustizia è di classe” cominciò, quindi, ad essere la parola d’ordine caratterizzante quel «corposo progetto di giuristi di cattedra e di giudici che pensavano di

54 Vedi G. Crainz, op. cit., p. 242. 55 Vedi P. Costa, op. cit., p. 29.

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re dentro l’esperienza giuridica il conflitto di classe e le contraddi-zioni del capitalismo come prospettiva di una trasformazione demo-cratica degli apparati statali e della società»56.

Infatti il rinvio ad un’immagine valutativo-positiva del conflitto come chiave di lettura del mutamento sociale assumeva la forma di una teoria socio-politica di stampo marxista “complessa”, in quanto faceva riferimento al marxismo così come era venuto sviluppandosi negli anni 60-70, ma soprattutto “compiuta” in quanto veniva assun-ta per così dire “in blocco” come un modello esplicativo coerente di per sé. In particolare si assumeva come cifra della realtà sociale il tema centrale, nella teoria di Marx,della contraddizione (tra svilup-po delle forze produttive e rapsvilup-porti sociali di produzione), dalla qua-le si faceva derivare una strategia politica ma anche giuridica. Oc-correva, quindi, seguire la strada della «ricerca della contraddizione all’interno non solo della società, ma anche dello stato borghese, nel cui ordinamento troviamo la compresenza […] di una legislazione di classe» con “principi incompatibili con quella”57, affinché il

giu-rista potesse definire le linee del suo intervento “alternativo”.Ma è proprio in riferimento alla ridefinizione del ruolo e dei compiti del giurista che sorsero i primi contrasti, non solo con gli esponenti del-la cultura giuridica dominante, ma anche all’interno di queldel-la cor-rente associativa della magistratura che per prima recepì e tentò di attuare quelle istanze di rinnovamento diffusesi in quegli anni, ossia MD. Come ricorda Gabriele Cerminara, in occasione di uno sciope-ro per le riforme della giustizia indetto dalla organizzazione sinda-cale degli avvocati Fesapi : «Il confronto si svolse acceso tra chi so-steneva la necessità di un giudice solo più efficiente, chi auspicava un giudice teso alla realizzazione della pace sociale e mediatore dei conflitti tra le contrapposte spinte sociali, e chi infine si batteva per un giudice che, in quanto consapevole delle origini classiste dell’apparato istituzionale, si adoperasse, inserendosi attivamente negli spazi aperti dalle lotte sociali, per l’affermazione di una più

56 P. Barcellona, “Presentazione”, in Democrazia e diritto, 1987, n.3, cit. p. 9. 57 L. Basso, “Giustizia e potere. La lunga via al socialismo”, in Quale giustizia, 1971, p. 652.

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sostanziale uguaglianza e per la demistificazione della falsa neutra-lità della produzione giudiziaria»58.

Furono infatti alcune scelte che MD andava progressivamente matu-rando nell’ottica di una pratica alternativa a mettere in crisi la com-ponente moderata di MD stessa.

Tra le varie sezioni esistenti quella romana si caratterizzò maggior-mente per un crescente impegno verso l’esterno, derivante da quell’analisi marxista della società e del conflitto che induceva a ri-tenere essenziale il collegamento alle lotte sociali delle prospettive di rinnovamento della giustizia. Infatti non si trattava di tutelare so-lamente la questione già nota dell’indipendenza interna della magi-stratura, ma di contrastare, con i fatti, i tradizionali “apolitici” orien-tamenti della magistratura, a difesa del sistema di potere esistente.

«Era giunto il tempo, certo problematico e rischioso, di trattare

pie-namente la giustizia come fatto politico, di conseguenza adottando metodi d’intervento culturale e politico nuovi, dentro e fuori la ma-gistratura, scelti per la loro efficacia e non perché generalmente ac-cettati»59.

Significativa a tale proposito l’uscita di uno speciale numero de “Il Ponte”(la rivista fondata da Calamandrei) così intitolato: «Per la prima volta i magistrati si rivolgono direttamente ai cittadini: de-nunce, confessioni e proposte di riforma. L’Italia è la patria del di-ritto, a quando la patria della giustizia?»60.Proprio nelle pagine di

quella rivista, MD illustrò il proprio punto di vista, iniziando a porre soprattutto l’accento sulla rilevanza del principio di uguaglianza so-stanziale, sancito dall’articolo 3, secondo comma Costituzione, non-ché sull’esigenza di una sua attuazione concreta nella pratica giuri-sprudenziale. Infatti si precisava che «lavorare nel giudiziario per-ché la Repubblica potesse finalmente adempiere al suo compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno svilup-po della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavora-tori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese, non

58 G. Cerminara, “MD romana tenta il primo sciopero”, in Storia di un magistra-to, cit., p. 47-49.

59 G. Palombarini, op. cit., p. 73. 60Il Ponte, n.6-7, 1968.

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significava affatto aderire ad una formula, ma comportava una scel-ta di viscel-ta, una scelscel-ta, come si disse, di campo»61.

Questa differenza tra teoria e pratica, veniva sottolineata anche nella Mozione conclusiva del convegno di MD a Varese del 12-13 set-tembre 196862, nella quale si dichiarava espressamente di aver

con-statato la “perdurante piena validità”della mozione costitutiva del 1964, i cui obiettivi rimanevano gli stessi. Tuttavia si precisava che, benché l’attività giudiziaria svolta nei primi quattro anni di vita di MD era rimasta coerente con gli “ideali ispiratori” di questa corren-te, tuttavia tale attivismo non aveva portato a progressi decisivi in vista del loro raggiungimento. E si aggiungeva: «Occorre dunque ribadire la fedeltà di questi ideali, ma con l’impegno - da tradurre in strumenti operativi - diretto alla loro realizzazione».

Uno degli strumenti operativi più significativi adoperato da MD fu-rono le c.d. “controinaugurazioni” dell’anno giudiziario. Si trattava di un’idea di Ottorino Pesce, fervido sostenitore dell’idea di un ne-cessario collegamento tra MD e i contestatori del 68-69. Come ri-corda Palombarini63, esse consistevano in pubblici dibattiti da tenere

in occasione delle tradizionali inaugurazioni d’inizio anno per di-scutere assieme agli altri operatori della giustizia, sindacalisti, citta-dini, politici delle garanzie e dei diritti violati, delle inadempienze del legislatore nell’attuazione della Costituzione. Questo tipo d’intervento si ebbe, per la prima volta, nel gennaio 1969 in diverse città, quali Roma, Milano, Bari e Bologna. In queste occasioni veni-vano anche sottoposte a critica quelle sentenze dei magistrati ispira-te alla vecchia cultura dominanispira-te.

Ciò fece nascere parallelamente l’esigenza di creare una rivista nuo-va, onde riportare tali critiche in maniera ordinata e così rompere anche quell’egemonia culturale della giurisprudenza della Cassazio-ne, proponendo invece quella alternativa dei giudici di merito e dei giuristi. Il risultato fu la nascita, nel 1970, della rivista “Quale giu-stizia”,un periodico, diretto da Federico Governatori, diverso da quelli tradizionali, che «fu capace di svolgere una funzione culturale di rilievo generale, apprezzata anche al di fuori della

61 I. Cappelli, “Il paradosso magistratura democratica”, in Storia di un magistra-to, Roma, Manifestolibri, 1986.

62[s. f.] “Dieci anni di Magistratura Democratica”, in Quale giustizia, 1974. 63 G. Palombarini, op. cit., pp. 63 ss.

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ne»64per la propria capacità di fornire un’informazione realistica e

approfondita della magistratura, con la specificazione che non si trattava di una rivista incentrata sui problemi dell’amministrazione della giustizia in senso stretto e che, anzi, di tali problemi se ne do-veva parlare, ma sempre «sotto l’angolo visuale più ampio e pro-fondo dei contenuti della giustizia»65. Tale rivista venne definita,

dagli stessi promotori, “eretica”, da eresia che significa “scelta”, “ricerca”. «Quale giustizia porta con sé, come connotato essenziale, la ricerca e la proposta dell’alternativa giudiziaria per ogni problema che l’esperienza ci offre»66. Nasceva eretica «non per gusto di

anti-conformismo ma per dovere morale e sociale. Non crediamo al neu-tralismo del diritto; crediamo invece che la giustizia debba o possa contribuire ad attuare le promesse di eguaglianza, non solo formali, imposte dalla Costituzione»67.Essa costituì, dunque, anche la prova

di come l’interpretazione era diventata, soprattutto nei fatti, oltre che negli assunti teorici, uno strumento di realizzazione diretta della Costituzione, affiancandosi a quello legislativo. A titolo esemplifi-cativo si ricordano i diversi numeri monografici della rivista dedica-ti allo Statuto dei lavoratori. L’entrata in vigore di tale legge, nel 1970, venne infatti considerato “un segno dei tempi”68, perché

di-mostrò l’esistenza di un innovativo intervento del legislatore, solle-citato dall’azione irruente dei c.d. “pretori d’assalto”, e consentì a tali giudici, utilizzando una interpretazione funzionale alla tutela degli interessi sottoprotetti ex articolo 3 secondo comma Costitu-zione, di eliminare facilmente quelle situazioni in cui era palese la violazione di fatto dei diritti, individuali e sindacali, riconosciuti dalla stessa, traendovi una spinta ancor più fortead un intensoimpe-gno professionale. L’espressione “pretori d’assalto” utilizzata dal “Corriere della Sera” indicava quei «magistrati giovanissimi che hanno sottoposto a revisione critica molte abitudini mentali che pa-revano inveterate, e si rivelano decisi, per dir così, a rileggere con occhi nuovi la nostra vecchia legislazione»69.

64 A. Pizzorusso, L’ordinamento giudiziario, Bologna, il Mulino, 1974, p.37. 65 M. Ramat, “Un solo padrone”, in Quale giustizia, 1970, n. 1, p. 5.

66 M. Ramat, cit., p. 7.

67 G. Palombarini, op. cit., p. 110. 68 G. Palombarini, op. cit., p. 100.

69 U. Panin, “Per la tutela delle acque pubbliche esiste solo un regio decreto del 1931”, in Il Corriere della sera, 5 maggio 1972.

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Ma l’attività giudiziaria di MD (e dei pretori d’assalto nel diritto del lavoro) non fu senza conseguenze, anzi apparve inevitabilmente come “eversiva”, provocando una dura reazione, mediante una serie di misure repressive, ad opera del governo e dell’alta magistratu-ra.Ad esempio le controinaugurazioni organizzate da MD furono considerate, come del resto veniva considerato il movimento del ‘68, un problema di ordine pubblico, con un conseguente schiera-mento delle forze dell’ordine mai registrato prima70.Questo non

po-teva non destare preoccupazioni. Come disse Bobbio, «quando la preoccupazione principale di coloro che sono preposti alla tutela giuridica è il mantenimento dell’ordine, quando l’ideologia della magistratura diventa, com’è stato detto, “l’ideologia dell’ordine” […], la libertà o più precisamente le singole libertà la cui garanzia è l’essenza dello stato di diritto hanno i giorni contati»71.

L’espressione “ideologia dell’ordine” venne coniata da Marco Ra-mat per indicare la progressiva tendenza, da parte dell’alta magistra-tura, ad una ortodossia fondata sul rispetto dell’immobilismo, “sulla volontà di non cambiare nulla”, sull’imposizione di non attentare a questa pace72.Un esempio, tra i tanti, di applicazione di tale

ideolo-gia fu il famoso “caso Marrone”, il sostituto procuratore della Re-pubblica in Roma, accusato del reato di vilipendio dell’ordine giu-diziario, per il suo intervento svolto in un dibattito organizzato da “Lotta continua” e dei successivi procedimenti disciplinari a cui vennero sottoposti coloro che solidarizzarono con lui. Nel suo inter-vento al Convegno di Sarzana del 2 maggio 1970 sul tema “La giu-stizia dei padroni e il caso Valpreda”73,Franco Marrone aveva

sotto-lineato come fosse«la classe dominante la quale crea il diritto, che, perciò, non esprime gli interessi di tutta la collettività, ma soltanto quelli di una parte della società. Ma essa impone norme che devono poi servire a tutti e che dice essere oggettive e neutre, norme che, naturalmente, nei confronti delle classi subordinate assumono una

70 A titolo esemplificativo si veda “La controinaugurazione dell’anno giudiziario a Roma. Pesanti accuse ma espresse con pieno civismo”, in Il Giorno, 10 gen-naio 1969.

71 N. Bobbio, “Quale giustizia, quale legge, quale giudice”, in Quale giustizia, 1971, pp. 273-274.

72 M. Ramat, “Ideologia dell’ordine”, in Quale giustizia, 1970, n.4, pp. 3-5. 73 “Il caso Valpreda, la morte di Pinelli, e il giudice Marrone”, in Quale giusti-zia, 1970, n.3, pp. 80-82. Si veda anche G. Palombarini, op. cit., pp. 94-95.

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funzione repressiva […] Ora, se è vero che il diritto è per sua natura il diritto della società borghese, un diritto ingiusto perché tutela solo una parte della società a danno dell’altra, è evidente che la funzione del magistrato non può non essere essa stessa parziale essendo l’attuazione di norme per loro natura parziali […] per cui tutte le volte che si trovano di fronte ad una contraddizione fra […] la Co-stituzione da una parte e dall’altra i codici penali, codici, come sape-te, fascisti – tendono a dare la precedenza alle norme fasciste e non applicano neppure la Costituzione che, rispetto a quelle norme, rap-presenta un passo avanti»74. Tale contraddizione

costitui-va,invece,una vera e propria lacerazione per i giudici “alternativi”, i quali da un lato intendevano fornire una lettura costituzionalmente orientata delle leggi, ma dall’altro lato constatavano un’ostilità non solo di una parte della magistratura, ma dello stesso governo. In par-ticolare, l’allora capogruppo della DC alla Camera Andreotti, già nel primo dibattito parlamentare dopo il 12 dicembre 196975, ossia

dopo quella strage passata alla storia col nome di “Strage di Piazza Fontana” di cui inizialmente furono accusati esserne gli artefici i giudici di MD, criticò aspramente questi giudici che, secondo l’oratore della DC, si appellavano “formalmente” ai diritti costitu-zionali per portare in realtà a termine un programma di estrema sini-stra. Inoltre egli aggiungeva che questi magistrati avevano compiu-to, agli occhi dei loro colleghi, il reato più grande, ossia la critica di sentenze o atti giudiziari che ritenevano illegittimi e anticostituzio-nali. Su questo argomento concordavano alcuni esponenti di MD stessa, quali Adolfo Beria d’argentine e Luigi Bianchi d’Espinosa, che ritenevano illegittimi comportamenti di tal tipo e inoltre si di-chiaravano diffidenti nei confronti dell’eccesso di politicizzazione di MD. Intanto crescevano i dissensi. Nei discorsi di apertura dell’anno giudiziario i vari procuratori generali furono concordi nell’intimare ai giudici “che vogliono fare politica” di abbandonare la toga76, compiendo in tal modo essi stessi una scelta politica77.

74 “Il caso Valpreda, la morte di Pinelli e il giudice Marrone, in Quale giustizia, 1970, n.3, p. 80.

75 G. Crainz, op. cit., p. 380.

76P. Onorato, “Ruolo della magistratura e discorsi dei procuratori generali”, in Quale giustizia, 1971, pp. 6-10.

77 M. Coiro, relazione redatta per MD in occasione di “La giornata della giusti-zia”, in Quale giustizia, 1971, pp. 120 ss.

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Anche alcuni giornali, quali “Il Giornale d’Italia” e “Il Secolo d’Italia”, si schierarono nettamente in polemica contro le iniziative di MD.

Ma l’evento più significativo, in tale contesto, fu la scissione in MD ad opera prima della componente cattolica, esponente della teoria del giudice come mediatore dei conflitti e garante della pace sociale, e successivamente della parte più moderata di tale corrente, capeg-giata da Beria d’Argentine. Tale rottura è spiegabile con il fatto che la convivenza di quei tre gruppi, in quel determinato assetto politico e sociale, era divenuta ormai impossibile. Sociologicamente parlan-do, potremmo utilizzare ancor oggi l’analisi condotta da Treves, che individuò tre concezioni della società alle quali erano riconducibili le varie posizioni dei magistrati di MD: la “conservatrice struttural- funzionalista”, che si collegava ad un’idea dell’ordinamento giuridi-co inteso giuridi-come «meccanismo che serve a garantire una certa stabili-tà in una sociestabili-tà dinamica», la “riformista del conflittualismo plura-listico”, che derivava da una concezione pluralistica della società di tipo postindustriale e, infine, la “massimalista del conflittualismo dicotomico”, che prendeva le mosse dall’insegnamento di Marx e che, quindi, «vede(va) soltanto due classi in lotta»78.

Ma al di là di queste distinzioni, si richiedeva sempre di più, anche per il progressivo intensificarsi della generale spinta sociale al cam-biamento che promanava dalla società di quegli anni, un vero e pro-prio “schierarsi”dei giudici a difesa della Costituzione, «senza farsi intimidire dalle accuse di sovversivismo che piovevano da varie par-ti e dall’upar-tilizzazione strumentale, in tutte le direzioni, della strate-gia della tensione»79. Si trattava sicuramente di un’operazione non

facile. «Abbandonare la torre d’avorio, farsi uomini e giudici diversi nella comunità di tutti i cittadini e nel contatto con una realtà sociale tesa a grandi speranze di trasformazione, non sarebbe stato facile neppure a chi poteva dare a sé stesso e agli altri una garanzia di fe-deltà ai principi costituzionali che certo non si volevano superare, ma interpretare sì, anche politicamente»80.

78 R. Treves, Giustizia e giudici nella società italiana, Bari, Laterza, 1972, p. 91 ss.

79 G. Palombarini, op. cit., p. 73.

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L’approvazione da parte di MD di un ordine del giorno del novem-bre 1969, che esprimeva alcune critiche sull’operato del pubblico ministero di Roma sulla vicenda di Francesco Tolin, direttore re-sponsabile di “Potere operaio”, colpito da un mandato di cattura per i reati di apologia e istigazione a delinquere per la pubblicazione di un articolo, rappresentò il “pretesto” (così lo definirono i “supersti-ti” di MD) della scissione. Infatti la mattina del 20 dicembre 1969 si tenne un rapido incontro nel corso del quale Ignazio Micelisopo espose, a nome di tanti altri, le condizioni per continuare a stare in-sieme, sottolineando la necessità di una “brusca retromarcia” rispet-to all’odgTolin, accettando il principio che nessuna critica politica all’attività giudiziaria fosse consentita. Ma Ramat respinse tale pro-posta, sottolineando come, in quel momento storico, fosse in realtà più utile che mai formulare critiche di tal genere. Così si determinò la scissione, la quale indebolì MD, ma non le impedì di proseguire le sue controinaugurazioni. Nel 1971 esse vennero concentrate in “una giornata per la giustizia”, in cui emersero, in maniera ancor più esplicita, i temi del collegamento necessario tra MD e le articolazio-ni di base del movimento popolare per lo sviluppo di una giurispru-denza alternativa, avente come suo criterio ispiratore il già citato ar-ticolo 3. Questi temi vennero ripresi da Accattatis, Ferrajoli e Sene-se nel Congresso di MD di Roma del 1971 e sviluppati nelle “Gior-nate di studio” della università di Catania sull’uso alternativo del di-ritto. Infatti tale convegno prendeva spunto dalle recenti tendenze giurisprudenziali, le quali «offrono, in proposito, un interessante campo di osservazione, essendosi promossa sul piano della prassi giudiziaria l’utilizzazione alternativa del diritto borghese»81,

secon-do le modalità già descritte. MD costituì, quindi, il punto di riferi-mento non di un ristretto gruppo di magistrati, ma di un dibattito più vasto che coinvolse riviste giuridiche, gruppi variamente ispirati della sinistra italiana, giuristi in diversa misura, docenti universitari (l’università di Catania ne è l’esempio più significativo) e, perfino, studenti82. In questo senso, e al di là dei contenuti, il Convegno di

81 Cit. “Un convegno sull’uso alternativo del diritto”, in Quale giustizia, 1973, p. 184.

82 Si veda, a titolo esemplificativo, l’articolo redatto dal “Gruppo lex”, “La fa-coltà di giurisprudenza di Roma. Consigli ai neo-iscritti a cura di un gruppo di studenti”, in Quale giustizia, 1972, pp. 638-643.

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Catania ha sicuramente il merito di aver raccolto esigenze ampia-mente manifestatesi,in quel famoso decennio, nella cultura giuridica italiana83.

83 Si veda, a tal proposito, il già citato articolo “Un convegno sull’uso alternativo del diritto”, in Quale giustizia, 1973, p. 185.

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