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Il “caso Biagioli”: un modello di confronto-scontro tra pretu ra e tribunale

CAPITOLO TERZO: I cas

3. Il “caso Biagioli”: un modello di confronto-scontro tra pretu ra e tribunale

Il lungo articolo, pubblicato sulla rivista “Quale giustizia”343, relati-

vo al “caso Biagioli” metteva immediatamente in evidenza due mo- tivi che facevano di esso un caso a dir poco “esemplare”: anzitutto l’analisi attenta della realtà sociale che, in questo caso, si incentrava nel regime dei rapporti giuridici di lavoro presenti in una fabbrica di medie dimensioni, dai quali risultava una serie cospicua di violazio- ni di quasi tutte le norme dello Statuto.

Il secondo motivo, il più importante in questa sede, consisteva nel travagliato iter procedimentale e processuale al quale questo caso fu soggetto: dapprima il provvedimento del pretore Ferrajoli, il quale decideva in senso favorevole ai lavoratori, utilizzando un’interpretazione alternativa del diritto vigente; successivamente la sentenza del tribunale, che riformava integralmente il decreto preto- rile; infine la Corte d’Appello, la quale a sua volta riformava e ri-

343 [s.f.] “Una lotta sindacale a Prato. Il caso Biagioli”, in Quale giustizia, 1973, pp. 87-103.

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confermava il provvedimento del pretore. Ma procediamo con ordi- ne.

Il 14 novembre 1970 alcuni lavoratori del lanificio Biagioli, ossia Nelli Aldo, Domati Giuseppe, Moro Ginetta, Rende Alba e Gonnelli Franca, aderenti alle organizzazioni sindacali FILTEA-CGIL, UIL- TA-UIL e FILTA-CISL, chiedono ad Arnolfo Biagioli di consenti- re, ex art. 20 Statuto, lo svolgimento di un’assemblea nei locali della fabbrica per discutere di alcuni problemi sindacali e, soprattutto, per poter procedere all’elezione delle rappresentanze sindacali aziendali previste dall’originario art. 19 dello Statuto. I suddetti lavoratori comunicano, inoltre, al datore che a tale assemblea parteciperanno anche alcuni dirigenti sindacali esterni, trattandosi di una facoltà prevista dallo stesso art. 20, comma terzo. Tuttavia Biagioli nega l’ingresso in fabbrica dei dirigenti ed impedisce lo svolgimento dell’assemblea, convocando di sua iniziativa, mediante referendum tra i dipendenti, una nuova assemblea dalla quale sono esclusi i diri- genti sindacali esterni, con l’evidente intento di ottenere l’elezione di una r.s.a. da lui controllata. Tenendo questo comportamento e confrontandolo con la disciplina statutaria in questione, Biagioli si rende quindi già violatore non solo dell’art. 20, ma anche dello art. 19 relativo al diritto dei lavoratori di costituire rappresentanze sin- dacali aziendali e, soprattutto dell’art. 17, che disciplina il divieto di istituzione dei c.d. “sindacati di comodo”. Configurandosi, dunque, un comportamento palesemente anti-sindacale, i sindacati ricorrono alla Pretura di Prato per ottenere l’applicazione dell’art. 28 Statuto, il cui pretore, il 18 novembre 1970, accoglie la richiesta e ingiunge a Biagioli di consentire l’assemblea richiesta, con altresì la parteci- pazione dei dirigenti sindacali esterni. Tuttavia egli, poche ore pri- ma della pubblicazione del decreto pretorile, organizza un’altra as- semblea da tenersi il giorno prima di quella regolarmente indetta per il 25 novembre, con il rinnovato intento di precedere le elezioni del- le r.s.a. mediante la costituzione di rappresentanti sindacali di co- modo. La richiesta dell’assemblea del 24 novembre viene sottoscrit- ta (rectius viene fatta sottoscrivere) da 135 su 175 dipendenti. I sin- dacati ovviamente contestano la legittimità dell’assemblea in que- stione, la cui convocazione si pone in violazione del provvedimento pretorile, ma essa si svolge ugualmente e viene presieduta “di fatto” dal datore. Vi partecipano anche i sindacalisti, anche se non viene

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data loro parola. La presenza del Biagioli e la partecipazione attiva dei dirigenti aziendali e dei capi-reparto crea in quell’assemblea un clima di intimidazione, attestato dalle stesse dichiarazioni di uno di questi344. In tal modo risulta violato non solo il già richiamato art.

20, ma anche l’art. 1 dello Statuto, relativo alla libertà di opinione e di pensiero. Il 3 dicembre 1970 i lavoratori aderenti ai sindacati na- zionali riescono a eleggere regolarmente i delegati sindacali dei vari reparti di azienda. Essi, nel gennaio 1971, chiedono un incontro con Biagioli per discutere relativamente all’istituzione di una mensa e alla necessità di migliorare, ex art. 9, i servizi igienico-sanitari e di applicare rigorosamente la normativa anti-infortunistica. Il datore non li riceve e mette in atto una serie di atti discriminatori, elencati ex art. 15 Statuto, che vanno dai trasferimenti di reparto e declassa- menti di mansioni per i delegati e lavoratori sindacalmente più atti- vi, fino al licenziamento di quaranta di loro.

Dell’intera vicenda è chiamato a pronunciarsi il magistrato della Pretura di Prato Ferrajoli, la cui decisione perviene il 3 agosto 1971. Egli offre una dimostrazione concreta delle tesi sull’uso alternativo del diritto che sosterrà nel suo richiamato intervento al Convegno di Catania, che sarà oggetto di aspre critiche345.

Ferrajoli parte, infatti, dalla ricostruzione del caso, cercando il più possibile di capire quale fosse la realtà sociale “effettiva” del lanifi- cio Biagioli, e non solo quindi quella meramente dichiarata, in sede di assunzione di sommarie informazioni, dal signor Biagioli. Questo contrasto anima tutto il testo della decisione: da quando descrive, in prima battuta, il comportamento anti-sindacale tenuto dal datore, volto a impedire l’esercizio di alcuni dei più importanti diritti attri- buiti dalla legge, ma garantiti anche costituzionalmente, ai sindacati e ai lavoratori da questi rappresentati, quali il diritto di assemblea, il diritto di costituire r.s.a., la libertà di opinione, il diritto di associa-

344 Si fa riferimento alla dichiarazione del dirigente Grassi: «alle tre assemblee a cui ho partecipato ho sempre chiesto e preso la parola dopo che avevano parlato i sindacalisti esterni e che questi avevano chiesto ai presenti di intervenire; poi- ché dopo tali richieste c’era sempre il silenzio dovuto a incertezze dei presenti, io chiedevo e ottenevo la parola». [s.f.] “Una lotta sindacale a Prato. Il caso Bia- gioli”, in Quale giustizia, 1973, pp. 90-91.

345 Si rimanda all’esposizione del suo intervento intitolato “Magistratura demo- cratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, pp. 105 ss. nonché alla polemica, soprattutto con Li- pari, che ne derivò. Si veda il Capitolo Secondo di questo lavoro.

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zione e di attività sindacale e, correlativamente, il divieto di costitu- zione o di sostegno dei sindacati di comodo da parte dei datori di la- voro e delle loro associazioni; fino alla parte finale della decisione, nella quale si illustrano gli atti discriminatori compiuti nonostante il divieto ex art. 15-16 dello Statuto. Ciò che Ferrajoli tiene a sottoli- neare è che la violazione costante di tali diritti e corrispettivi divieti da parte di Biagioli non solo si configura come un’inosservanza del- le norme contenute in una legge ordinaria quale era ed è lo Statuto, ma addirittura come un’inosservanza della Costituzione stessa, mi- rante a perpetuare quello stato di “congelamento costituzionale” ca- ratteristico del dopoguerra. Alcuni riferimenti a tale proposito si rinvengono analizzando l’ultima parte della decisione, ossia dal momento in cui il pretore ricostruisce i fatti circa gli atti posti in es- sere da Biagioli in palese violazione degli artt. 15 e 16. Da premet- tere un’osservazione importante, sempre operata da Ferrajoli sulla base di quel confronto tra la realtà effettiva e quella dichiarata: Ar- nolfo Biagioli non aveva mai avuto un rapporto diretto né coi sinda- cati né coi delegati sindacali della sua azienda. Lo aveva dichiarato lui stesso: «I problemi inerenti al lavoro li ho sempre trattati tramite il capo del personale»346. A parere del pretore questo elemento si

configurava come uno degli aspetti “più sintomatici” dell’atteggiamento antisindacale del datore, il quale si era sempre comportato come se i sindacalisti non esistessero o comunque come se fossero una “fastidiosa presenza”, un mero ostacolo alla ferrea di- sciplina della fabbrica. Per tale motivo dopo il gennaio 1971, quan- do i delegati sindacali iniziarono ad avanzare le prime richieste e ri- vendicazioni, cominciò conseguentemente una lunga serie di atti di- scriminatori e intimidatori nei loro confronti. Due esempi a tale ri- guardo: il trasferimento di Donati Giuseppe, che lavorava prima alla filanda nel reparto filatura e poi venne spostato ad un’altra macchi- na, e il trasferimento di Nelli Aldo, dal reparto rifinizione a un altro. Donati dichiarò che il suo nuovo lavoro, ritenuto dal Biagioli più adatto, era invece più gravoso, essendo egli invalido, e che gli fu as- segnato nonostante la sua opposizione. Nelli precisò che, a causa di tale spostamento, veniva a perdere il contatto con i lavoratori dei quali era rappresentante. Ma Biagioli, per giustificare che quei tra-

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sferimenti non erano stati dettati da finalità discriminatorie, dichiarò che, nello stesso arco temporale, vennero trasferiti di reparto o spo- stati di mansione molti altri lavoratori i quali, interrogati, conferma- rono tutti questa dichiarazione del datore, aggiungendo che tali spo- stamenti risultavano a loro “graditi e migliorativi” dal punto di vista economico. Un favoritismo nei confronti dei lavoratori sindacal- mente inattivi che era espressamente vietato dall’art. 16 Statuto. Si veniva, quindi, delineando una divisione tra gruppi contrapposti di lavoratori: da un lato i capi-reparto, i dirigenti e i lavoratori dipen- denti beneficiati; dall’altro i restanti lavoratori, che lamentavano di essere oggetto di discriminazioni e intimidazioni. Ed era proprio questa divisione radicale che, a parere di Ferrajoli, costituiva il più specifico elemento di prova del clima di disuguaglianza e intimida- zione antisindacale che Biagioli aveva instaurato nella sua fabbrica. Una disuguaglianza sostanziale che era compito della Repubblica, e dunque anche del pretore, rimuovere in ossequio al principio cardi- ne dettato dall’art. 3 Costituzione, mediante l’adozione, nel caso di specie, del procedimento ex art. 28 Statuto. Ferrajoli, da ultimo, ri- teneva che gli stessi licenziamenti dovessero rientrare in tale dispo- sizione statutaria in quanto, pur se formalmente effettuati dal datore per ragioni di ristrutturazione e riorganizzazione dell’azienda, in realtà erano la dimostrazione ulteriore ed ultima della condotta anti- sindacale tenuta dal datore e della sua ostilità nei confronti dei lavo- ratori sindacalmente attivi. Ciò lo si deduceva da tre elementi. Anzi- tutto secondo gli usi correnti, Biagioli avrebbe dovuto procedere al- la ristrutturazione dell’azienda dopo aver raggiunto un’intesa coi sindacati, e quindi dopo aver trattato con i dirigenti sindacali azien- dali circa i nominativi da licenziare nonché i tempi e le modalità da adottare. Inoltre la motivazione addotta per il licenziamento, attri- buita alla diminuzione del lavoro, ostava con le numerose ore di straordinario effettuate dai lavoratori che avevano dichiarato, nelle inchieste illegittimamente condotte per conto della dirigenza, la propria disponibilità a riguardo. Il pretore ordinava, quindi, a Bia- gioli la cessazione del comportamento anti-sindacale e la rimozione degli effetti, mediante la reintegrazione nell’originario posto di la- voro e nella mansione espletata antecedentemente al gennaio 1971 nei confronti di tutti i lavoratori licenziati.

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Il decreto emesso da Ferrajoli venne, tuttavia, impugnato da Biagioli e revocato dal Tribunale di Prato, con sentenza del 14 gennaio 1972. La riforma in grado di appello o, addirittura, la cassazione dei prov- vedimenti pretorili era molto frequente all’epoca e rispecchiava quella contrapposizione ancora irrisolta tra coloro che miravano ad un’attuazione diretta e immediata della Costituzione e coloro che, invece, la consideravano ancora come un mero documento politico- programmatico. Tuttavia, nel caso di specie, questa questione risulta più complessa, poiché in realtà, come si vedrà nel proseguo della trattazione, il tribunale fa riferimento altresì all’interpretazione “se- condo la Costituzione”. Ma procediamo, come sempre, per ordine. I redattori di “Quale giustizia”, dopo aver riportato il testo della de- cisione del tribunale, ne analizzavano le parti essenziali347. Essi os-

servavano come, a differenza di Ferrajoli, l’estensore della sentenza non aveva ritenuto di prendere in esame alcuno degli elementi di prova, emersi nel corso del giudizio pretorile, a sostegno delle ra- gioni dei lavoratori, nemmeno per contestarli, così come non vi aveva opposto alcuna prova a favore del datore che non fosse stata già presa in considerazione dal pretore. La motivazione della sen- tenza non era, quindi, una motivazione “in fatto”, ossia non partiva da un confronto tra la realtà effettiva e quella dichiarativa, propria invece della metodologia ferrajoliana e, in generale, della giurispru- denza alternativa. Tuttavia, essi aggiungevano che non si trattava neppure di una motivazione “in puro diritto”, ma “in pura ideolo- gia”, poiché contenente alcune delle più frequenti massime ideolo- giche atte a svuotare di qualsiasi contenuto lo Statuto dei lavoratori. E ricorrevano subito ad esemplificazioni a tale riguardo. Così, con riferimento all’art. 20 Statuto, il tribunale riteneva che alcune indi- cazioni contenute in tale disposizione, relativamente al diritto dei lavoratori di riunirsi e al diritto delle r.s.a. di convocare le riunioni, non dovesse interpretarsi in modo tassativo in quanto, ritenendo di far riferimento alla realtà “concreta”, si trattava di un’azienda non di grandi dimensioni, dove l’imprenditore poteva essere guardato con timore, ma anzi, essendo il lanificio di piccole dimensioni e Biagioli ben noto ai lavoratori, una sua partecipazione all’assemblea non avrebbe potuto che beneficiare i lavoratori, potendo rivolgere diret-

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tamente a lui le loro richieste e ottenerne, magari, un’immediata ac- cettazione. Tuttavia era evidente che una visione così “idilliaca” della fabbrica, intesa come “una grande famiglia”, non rispondeva alla realtà effettiva e mirava, invece, a far acquisire alcune impor- tanti prerogative, attribuite originariamente ex lege ai lavoratori (e, si badi, attribuite proprio in funzione del riconoscimento, ad opera dello statuto, di una disparità di forza contrattuale intercorrente tra datore e lavoratore singolo), anche al datore di lavoro. Il riferimento alle dimensioni e alla struttura dell’azienda, osservano i redattori, viene altresì utilizzato dal tribunale per giustificare i trasferimenti e gli altri atti discriminatori posti in essere dal datore, da ritenere le- gittimi «senza scendere all’esame analitico delle singole posizio- ni»348, tanto che sembra, sempre a parere dei redattori, che più è pa-

lese la violazione di un diritto e meno occorre menzionarla. Come si può notare, l’interpretazione del tribunale appare come un’interpretazione fin troppo libera, ancorata ad una realtà sociale presunta e, quindi, diversa rispetto a quella letterale e restrittiva soli- tamente attribuita ai giuristi conservatori. Tuttavia i redattori dimo- strarono come si trattasse, per l’appunto, di un’apparenza. Infatti il tribunale, nel passare ad affrontare l’ammissibilità del ricorso al pre- tore, ex art. 28 Statuto, in caso di licenziamento, adottò un’interpretazione così formalistico-letterale da esser definito, dai redattori, un vero e proprio “analista del linguaggio”. L’attenzione del tribunale si incentrò, in particolare, sulla parola “comportamen- to”. Recitava e recita, infatti, l’art. 28: «Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero…». A parere del giudice estensore la parola “comporta- mento” si poneva, rispetto al termine “atto”, in un rapporto di genus a species. Infatti il termine “comportamento” indicava, secondo il tribunale, «un atteggiarsi del soggetto estrinsecantesi in una pluralità di manifestazioni tra loro collegate»349 e da ciò ne derivava che es-

sendo, invece, il licenziamento non un comportamento ma un “atto” allora non poteva rientrare nell’art. 28. Ma questa conclusione non soddisfaceva del tutto il collegio, tant’è che esso ricorse anche agli

348[s.f.] “Una lotta sindacale a Prato. Il caso Biagioli”, riv. cit., p. 100. 349[s.f.] “Una lotta sindacale a Prato. Il caso Biagioli”, riv. cit., pp. 95 e 101.

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altri criteri ermeneutici, indicati dall’art. 12 preleggi, per confermare l’inammissibilità del ricorso al pretore, ex art. 28 Statuto, nel caso di licenziamento. Dall’interpretazione storica e sistematica ricavava che l’art. 28 era una norma che conferiva la possibilità di agire per la tutela di interessi inerenti alla libertà di organizzazione e associa- zione, ossia di interessi collettivi, a differenza dell’art. 18 discipli- nante i licenziamenti individuali, poiché quest’ultima si configurava come una disposizione collocata eccezionalmente in un titolo, “Del- le libertà sindacali” che non la riguardava. E questa anomalia si spiegava, secondo il tribunale, guardando alla sua genesi, dato che essa venne introdotta solo mediante una serie di emendamenti par- lamentari. Addirittura il collegio utilizzò, a sostegno delle interpre- tazioni precedenti, l’interpretazione “secondo i principi costituzio- nali”, che doveva evidenziare come, in realtà, l’interesse da tutelare ex art. 18 si configurasse come un interesse individuale. Infatti guardando agli articoli della Costituzione numero 4, che fa riferi- mento al diritto al lavoro del quale è titolare ciascun cittadino, e 24, che disciplina la tutela giurisdizionale dei diritti soggettivi da parte del titolare dei medesimi, il tribunale concludeva che l’applicazione dell’art. 18 poteva esser fatta valere solo dal titolare del diritto sog- gettivo, il lavoratore, e non anche dal sindacato (con la procedura ex art. 28), che poteva comunque risultare leso da tale “atto” del dato- re.

In conclusione, a parere dei redattori, il collegio utilizzò tutti i criteri d’interpretazione a disposizione, persino quello dei principi costitu- zionali, per arrivare alla medesima conclusione insita nella premesse del suo ragionamento: negare la tutela, ex art. 28, sia nell’ipotesi del licenziamento che relativamente agli altri diritti violati da parte del “padrone” Biagioli. Come affermeranno, alla fine dell’articolo, i re- dattori, il caso Biagioli è stato importante perché «ha dimostrato con quanta disinvoltura la legge viene accantonata, quando sono in gio- co gli interessi dominanti, da quella parte della magistratura che ha sempre sbandierato come supremi valori l’apoliticità, l’imparzialità e l’indipendenza del giudice»350.

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Terminata l’esposizione dei tre casi concreti si può forse meglio comprendere il perché, ancora a distanza di anni, ex giudici “alter- nativi” come ad esempio Ferrajoli351, ci tengano a ribadire, dinnanzi

alle numerose critiche mosse all’attività giudiziaria di MD durante gli anni Settanta, che con il termine “giurisprudenza alternativa” si intendeva principalmente indicare un’alternativa per l’appunto agli orientamenti giurisprudenziali dominanti, i quali sembravano ancora del tutto ignorare la Costituzione oppure utilizzarla, come nell’ultimo caso illustrato, ma in maniera del tutto secondaria, non attribuendovi certo quel primato nell’interpretazione e nell’applicazione della legge assegnatole, invece, dai magistrati de- mocratici. Una concezione che venne altresì utilizzata da MD per rispondere alle frequenti accuse, rivolte contro quest’ultima, di dirit- to “libero”: «Non solo non aderiamo alla concezione del diritto libe- ro nella forma, ma neghiamo anche la libertà dei contenuti, perché affermiamo che il diritto deve essere sempre vincolato agli indirizzi egualitari della Costituzione, dai quali il giudice non si può mai di- staccare senza violare il suo più elementare dovere, che è quello di essere fedele alla legge in quanto questa deriva la sua validità dalla Costituzione»352. Si trattava di un’accusa grave, che non colpì solo

l’operato dei giudici democratici ma, soprattutto, i fautori del Con- vegno sull’uso alternativo del diritto. Un’accusa che sarà oggetto, pur se non esclusivo, del prossimo capitolo.

351 L. Ferrajoli, “La cultura giuridica nell’Italia del Novecento”, op. cit., pp. 75- 76.

352 L’affermazione, di Luigi De Marco, è riportata da G. Palombarini, “Giudici a sinistra”, op. cit., p. 105.

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