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Interpretazione e critica del diritto La scienza del diritto ri conosciuta dalla vita come avente autorità sulla vita

CAPITOLO SECONDO: Il dibattito

3. Interpretazione e critica del diritto La scienza del diritto ri conosciuta dalla vita come avente autorità sulla vita

Nell’accezione semantica comune con il termine “interpretazione” si indica quella attività volta all’attribuzione di significato ad un qualunque segno. Il linguaggio verbale, come un atto scritto o una conversazione, o il linguaggio gestuale, come i modi di un conte- gno, necessitano tutti di una interpretazione, affinché la forma in questione non sia più solo un mero insieme di segni, gesti o suoni, ma una sorta di input che attivi l’intelletto del soggetto, determinan- done una serie di reazioni comportamentali, emotive e cognitive. Esistono, quindi, varie funzioni della comunicazione e il linguaggio, quale canale della comunicazione, svolge tra queste anche quella di dirigere e influenzare il comportamento altrui. Ed è in riferimento a quest’ultima funzione che si può parlare di interpretazione giuridica. Essa, come la definisce efficacemente Lipari185, riguarda «tutto il

complesso delle attività volte a ricostruire il significato da attribuire, entro un determinato contesto storico, sociale e culturale, a forme rappresentative di “valutazione” giuridica». Da tale definizione emerge anzitutto che l’interpretazione giuridica non è mai fine a se stessa, ma svolge necessariamente una funzione direttiva sui com- portamenti, rectius “normativa” e inoltre si constata anche l’esistenza di un dato “oggettivo” ma al tempo stesso “intrinseca- mente soggettivo”: la valutatività. Infatti l’attività interpretativa im- plica in modo necessario un giudizio di valore, una scelta dell’interprete. Si tratta di una constatazione ormai pacifica, in quanto persino coloro che identificavano l’attività interpretativa come una semplice attività conoscitiva ammettevano l’esistenza di un’interpretazione storico-evolutiva, in virtù della quale il significa- to della norma si modifica, pur se entro i confini previsti dal legisla- tore, a causa dell’evolversi delle situazioni concrete. Tuttavia un’interpretazione siffatta, da un lato, consentiva al sistema giuridi- co un adattamento ai continui mutamenti verificatisi ma, dall’altro lato, non faceva che reiterare un determinato assetto sociale, ossia mantenere quegli stessi valori tradizionali, sia pur posti in un diver-

185 N. Lipari, “Il problema dell’interpretazione giuridica”, in Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, op. cit., p.71.

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so equilibrio tra loro186. Parlare di “uso alternativo del diritto” indi-

cava, invece, l’idoneità del diritto a fornire gli strumenti per una “rottura” di quel determinato assetto sociale e, conseguentemente, per la formulazione e la tutela di nuovi valori, una volta negati i vecchi.

Queste caratteristiche dell’interpretazione giuridica, riconosciute ad essa a partire dalla metà degli anni sessanta e sviluppate negli anni settanta, costituiscono una vera e propria “rivoluzione copernicana” nell’ambito per l’appunto interpretativo. L’interpretazione assume un valore non più conoscitivo ma costitutivo della norma. Prima dell’attività interpretativa, il giurista ha a che fare non già con nor- me giuridiche ma con enunciati o disposizioni normative, c.d. “in- terpretandi”, cioè le parole, le frasi che compongono i testi normati- vi. Si comprende così lo stretto nesso intercorrente tra diritto e lin- guaggio: il diritto è fondamentalmente interpretazione di un lin- guaggio, il quale è a sua volta sempre espressione di una scelta di valori. Non siamo capaci di pensiero se non attraverso il linguaggio, tant’è che il paradosso su cui rifletterà Michel Foucault è proprio il seguente: non possiamo pensare criticamente il linguaggio se non attraverso gli strumenti stessi del linguaggio. Gli strumenti del lin- guaggio utilizzati per interpretare vengono definiti enunciati “inter- pretativi”, mentre le norme ricavate all’esito dell’interpretazione vengono indicate col termine di enunciati “interpretati”. Le norme sono, quindi, l’insieme di significati che è possibile trarre dagli enunciati normativi, tramite l’attività d’interpretazione. Viene così meno quella concezione oggettualistica della norma, ossia l’idea che la norma si ponga davanti all’interprete come un oggetto187, poiché

dinanzi ad egli si pongono solamente enunciati interpretandi. Ma viene altresì meno l’idea, espressa con la celebre locuzione latina “in claris non fit interpretatio”188, che quanto più sia chiara una di-

186 L. Ricca, “Uso alternativo del diritto privato, interpretazione e principi costi- tuzionali”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, pp. 149-150.

187 «Le norme sono il risultato, più che il presupposto dell’attività interpretati- va», afferma G. Tarello, L' interpretazione della legge, Milano, Giuffrè, 1980, p. 38.

188 Tale brocardo, spiega Tarello, aveva un senso differente presso gli scrittori del diritto comune. Infatti, per essi, la “interpretatio” veniva intesa come prodot- to dell’attività di commento dei dottori e dell’attività di decisione dei tribunali

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sposizione tanto meno necessiti di interpretazione, poiché «il diritto è in quanto è interpretato»189. Ne deriva che l’attività dei giuristi non è meramente conoscitiva di un diritto interamente formato e valido, ma è sempre creativa, perché contribuisce essa stessa alla formazio- ne del diritto, alla sua continua riformulazione nell’applicazione ad una realtà non statica e astratta, ma mutevole e concreta. Il legislato- re, infatti, nella stesura delle disposizioni legislative, si limita a por- re degli obiettivi da perseguire mediante il diritto, rivolgendosi ad un lettore ideale, ma non ragiona in termini “concreti”. Egli utilizza, grammaticalmente parlando, il tempo verbale del presente continuo, ossia di un presente che si reitera continuamente, senza poter pren- dere in considerazione il cambiamento delle situazioni concrete. Compito dell’interprete è proprio trasformare questo presente conti- nuo, riformularlo affinché qualunque “corpus juris” venga connesso con la mutevole realtà.

Sulla base di tali considerazioni secondo Lipari, seppur non si tratti di una tesi condivisa190, l’interprete farebbe comunque uso dello

schema del sillogismo giuridico, ma in termini diversi. La sentenza del giudice sarebbe sì il frutto di una conclusione fondata su due premesse, minore e maggiore, ma la premessa maggiore non sareb- be costituita dalla norma di legge, cioè da una forma che esprime un contenuto aprioristicamente individuato nel testo legislativo, ma dall’enunciato interpretato, ossia dal risultato della trasformazione dell’enunciato legislativo in proposizione normativa, il quale è frut- to della scelta tra possibili significati che, all’interno di un determi-

cui veniva riconosciuta autorità di diritto (fonte) in tutte le materie non diretta- mente disciplinate dalla lex (ossia dal corpo del diritto romano-giustinianeo). Ta- le brocardo veniva, quindi, inteso come “principio di gerarchia delle fonti”: si escludeva il ricorso alla fonte del diritto “interpretatio” nei casi direttamente di- sciplinati dalla fonte del diritto “lex”. Successe che, dopo la codificazione, all’interpretatio non fu più riconosciuto valore di fonte del diritto e, quindi, tale termine venne ad acquistare il senso tuttora vigente ed esclusivo di attribuzione di significato ai documenti giuridici. Il senso attuale del brocardo suddetto deri- va dalla scuola dell’esegesi, che lo intese come necessario adeguamento, nell’interpretazione, alla volontà del legislatore, così come risulta espressa dalla lettera della legge. Oggi, dunque, tale brocardo indica una “direttiva metodologi- ca”. Si rimanda a G. Tarello, L' interpretazione della legge, op. cit., pp. 33-34. 189 N. Lipari, op. cit., p. 80.

190 Come si vedrà nel prosieguo di questo capitolo Ferrajoli per primo non la condivide.

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nato contesto storico-sociale, una certa disposizione legislativa è po- tenzialmente in grado di assumere.

A questo punto si può comprendere maggiormente il motivo dell’aspra critica al legalismo, uno dei tratti più caratteristici del po- sitivismo giuridico. Partendo dalla osservazione dei fatti nella loro interezza e complessità del reale, è possibile constatare che il diritto non si esaurisce nelle leggi scritte, ma con le norme che, a prescin- dere dalla loro genesi storica, acquistano concretezza attraverso i comportamenti dei cittadini, gli studi dei giuristi e le sentenze dei giudici. Come osserva Corradini191, il diritto è “positivo” non perché

promana dall’autorità statale, ma perché si dispiega e specifica nella convivenza; e, in particolare, è positivo unicamente nei limiti di questo dispiegarsi e di questa specificazione. Ecco perché si sosti- tuisce al criterio della certezza un criterio di effettività, utilizzato per individuare l’esistenza positiva delle norme192. Le norme in vigore,

quindi, non hanno un contenuto immobile, ma si specificano nel tempo mediante una scelta di valori, assiologia, che colmi i margini di incertezza lasciati aperti inevitabilmente dalle norme sul compor- tamento da esse richiesto.

La teoria sull’uso alternativo del diritto ha anche inevitabilmente dei riflessi sul piano delle fonti. Infatti, venendo meno quella concezio- ne dell’ordinamento giuridico come sistema chiuso di norme, viene altresì meno l’impianto formale delle fonti, il quale vedeva al suo vertice la Legge, contrapposta alla consuetudine193 e alla prassi. In

tale sistema, quindi, non veniva ricompresa nemmeno la giurispru- denza, ossia le sentenze dei giudici, aventi valore vincolante solo tra le parti in causa. Con il passaggio ad un “sistema”, sempre che pos- sa chiamarsi ancora in tal modo, “aperto” non viene più posta una linea di demarcazione netta tra le fonti c.d. “materiali”, ossia la prassi, e le fonti formali194. Infatti Lipari195 osserva come anche la più rigorosa concezione normativistica, quale quella kelseniana, fi-

191 D. Corradini, Storicismo e politicità del diritto, op. cit., p. 46.

192 N. Lipari, “Il problema dell’interpretazione giuridica”, in Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, op. cit., p. 81.

193 G. Tarello, L' interpretazione della legge, op. cit., pp. 315-316.

194 P. Barcellona, G. Cotturri, Stato e giuristi tra crisi e riforma, op. cit., pp. 90- 91.

195 N. Lipari, “Il problema dell’interpretazione giuridica”, in Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, op. cit., pp. 80-81.

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nisce per riconoscere che esiste almeno una parte del sistema delle fonti normative che non possiede un proprio oggettivo significato, estrapolabile dagli enunciati legislativi, ma che si può ricavare sulla base di un criterio di effettività196. Tale criterio viene utilizzato, co-

me abbiamo appena visto, per l’individuazione dell’esistenza “posi- tiva” della norma e non può che indurre a impostare su basi diffe- renti la tradizionale questione delle fonti del diritto, cosicché persi- no la legge (con la “l” minuscola) acquista un contenuto non immo- bile, ma anzi offre all’interprete, in alcuni casi, ampissimo spazio alla sua attività creatrice. L’iter logico delineato da Lipari197 è fa-

cilmente intuibile: se la legge “è (cioè vige, vincola, opera) quale è interpretata”, poiché l’interpretazione è quel procedimento che non vede la norma come proprio oggetto ma come proprio risultato, ne deriva che l’interpretazione è sempre creativa e che l’attività del giurista-interprete è fonte di diritto.

Chiarito il ruolo creativo del giurista-interprete, si comprende altresì la nuova funzione assunta dalla scienza giuridica. Essa non dovrà più ricostruire sistemi di norme chiusi e “perfetti”, cioè che non ammettono lacune e antinomie, ma indagare la realtà socio-culturale in cui si inseriscono le disposizioni legislative che ha in esame, po- tendo così arrivare anche a constatare la possibilità di interpretazio- ni, al contempo differenti e molto spesso contrastanti, dello stesso enunciato.

L’attività teorica ha sempre un contenuto ideologico, spiega Corra- dini: sia nel momento in cui dà origine ad una scienza, sia nel mo- mento in cui funziona come scienza198. La scienza giuridica non si

rapporta più dal punto di vista esterno al diritto, cioè ad un oggetto originariamente definito, ma viceversa è il fondamento costitutivo del diritto stesso, concorre a crearlo e a renderlo positivo.

196 Infatti Kelsen delineò un sistema formale logicamente coerente, in quanto giustificava l’ambito di legittimità e validità di ciascuna norma in funzione di un’altra norma a questa sovraordinata, ma nonostante ciò non riuscì a dare la medesima giustificazione per la norma sovraordinata a tutte le altre, la norma- base (o Grundnorm). Questa inevitabile “contraddizione kelseniana” viene ricor- data, oltre che da Lipari, anche da L. Ricca, “Uso alternativo del diritto privato, interpretazione e principi costituzionali”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, p. 154.

197 N. Lipari, op. cit., p. 81.

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Inoltre, acquisendo consapevolezza, grazie all’analisi marxista, delle ragioni della propria crisi d’identità e del suo “collegamento”, o meglio, assoggettamento alla classe dominante, la scienza giuridica potrà indagare sulle manipolazioni relative a un determinato enun- ciato, sulle possibili e soprattutto “prevedibili” interpretazioni che ne sarebbero derivate, su chi ha suggerito o comandato tali manipo- lazioni e sul perché lo ha fatto. Come osserva Costa199, dal punto di

vista della teoria e metodologia giuridica la proposta alternativa si delinea più come una critica alla giurisprudenza presente, che non come una già perfettamente delineata giurisprudenza alternativa. Una critica che riconduce le contraddizioni del sistema normativo alla contraddizione fondamentale, la quale le determina storicamen- te, «riportandole all’uno o all’altro polo del conflitto sociale»200.

Questa critica, che investe quindi il diritto e l’ideologia giuridica che lo sottende, ha come modello di riferimento la posizione del te- desco Rudolf Wietholter, giurista partecipante al Convegno di Cata- nia e autore dell’opera “Le formule magiche della scienza giuridi- ca”201, in cui è contenuto l’orientamento da questi denominato con il

termine di “negativismo giuridico”. Si tratta di un orientamento ap- positamente critico che mira a realizzare, mediante l’analisi delle elaborazioni teoriche della scienza giuridica quali i dogmi e i con- cetti, la “demistificazione” e la consapevolezza da parte dei giuristi e dei cittadini di una società ancora pre-democratica, ancora alla ri- cerca del suo diritto, giacché esiste solo un diritto ancorato all’astrattezza e alla irrazionalità delle “formule magiche”, ossia del- le formule vuote elaborate dalla scienza giuridica, vuote poiché pri- ve di reale contenuto e mediante le quali il giurista si rende mero as- sertore dell’assetto politico-istituzionale presente e della ideologia conservatrice dominante202. L’ordine, la sicurezza, il bene comune,

la libertà, l’uguaglianza, il buon costume, la buona fede costituisco-

199 P. Costa, “L’alternativa presa sul serio: manifesti giuridici degli anni settan- ta”, in Democrazia e diritto, op. cit., p. 38.

200 P. Costa, op. cit., p. 39.

201 R. Wietholter, Le formule magiche della scienza giuridica, Roma-Bari, Gius. Laterza & Figli Spa, 1975.

202 L’utilizzo di tali formule è richiamata anche da T. Blanke, “Interpretazioni alternative del diritto del lavoro”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, p. 178. Egli illustra come la terminologia imprecisa, utilizzata nell’ambito del diritto del lavoro in Germania, consenta l’adattamento di quest’ultimo all’ideologia conservatrice dominante.

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no degli esempi di tali formule. Solo lo sviluppo di una “coscienza critica”203 nei confronti dell’ideologia ancora dominante nelle Uni-

versità e nei tribunali potrà comportare, secondo l’Autore, la consa- pevolezza di una mancanza di legittimazione del diritto e di questo sistema di concetti propugnato dalla scienza giuridica e, quindi, l’avvio verso la tanto sperata società democratica, mediante altresì la costruzione di una nuova sintesi tra le discipline giuridiche con quelle empiriche, tra teoria e prassi.

Una sintesi inevitabile, come dimostra soprattutto nel primo capitolo dell’opera citata204. Egli utilizza due esempi letterari, la storia del

giudice-re Salomone, temuto dal popolo di Israele per la sapienza di Dio riposta in lui per amministrare la giustizia, e la storia dello scri- vano Azdak, che si improvvisa giudice del popolo. Entrambi questi personaggi si trovano a dover redimere una controversia tra madri, e lo fanno in maniera “giusta”: Salomone, in quanto sentenziò che la vera madre fosse colei che, tra le due, di fronte alla richiesta del giudice stesso di dividere a metà con una spada il bambino la cui maternità era contesa, supplicò il magistrato di non ucciderlo e di darlo all’altra “madre”; Azdak poiché nonostante fosse insultato da tutti per le sue sentenze riuscì, tramite la prova-espediente del cer- chio di gesso205, a riconoscere che la “vera” madre fosse la serva Grusce, la quale aveva allevato con cura il figlio della sua padrona che era stato abbandonato da quest’ultima (e che ella ora reclamava per motivi strettamente economici, ereditari, piuttosto che affettivi). Orbene Wietholter sottolinea come, in realtà, i giudizi di Salomone e Azdak simboleggiano l’ampiezza della concezione giuridica do- minante e altresì «le principali malattie ereditarie e i peccati mortali

203 Da questo punto di vista, Barcellona non concorda pienamente con Wiethol- ter. Infatti secondo Barcellona non basta lo sviluppo di una coscienza critica per raggiungere l’obiettivo di democrazia prefissato, ma occorre anche il momento della “lotta” e soprattutto il collegamento tra il giurista-interprete e il soggetto protagonista del mutamento, ossia il movimento operaio. Si veda, a tale proposi- to, l’Introduzione da lui curata a R. Wietholter, op. cit., p. XXII.

204 R. Wietholter, op. cit., pp. 7-24.

205 Questa prova consisteva nel porre il bambino oggetto della contesa al centro di un cerchio disegnato con un pezzo di gesso sul pavimento, mettere le due donne vicino al cerchio, comandarle di prendere il bambino per mano e tirarlo, ciascuna a sé, fuori dal cerchio. Ovviamente la prova è un espediente per verifi- care quale delle due donne non osserverà il comando al fine, del tutto evidente, di non commettere un infanticidio.

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del diritto e dei suoi amministratori: questi peccati […] troppo spes- so vengono proiettati in una luce abbagliante da sublimazioni etiche e patetiche»206. Queste sublimazioni non sono altro che l’effetto

dell’utilizzo del criterio-metodo delle astrazioni generalizzanti e del- la sussunzione. Infatti bene e male, giustizia e ingiustizia sono cate- gorie concettuali, formule magiche che stravolgono a priori la fatti- specie, in quanto il risultato che si vuol ottenere o che si vuol pre- sentare come “bene” o “giusto”, viene inserito, e dunque risulta già, nelle premesse. Ciò che invece non si concilia con le premesse non viene nemmeno preso in considerazione. Si tratta di metri di valuta- zione errati, poiché nella realtà non esiste, ad esempio, una madre “buona” contrapposta ad una “cattiva” e, perciò, la decisione risulta più “sobria” e discutibile. Tuttavia è questo che il diritto, secondo l’Autore, può e deve fare: apportare dei contributi “poco poetici”, sinceri, reali, inesatti, proprio in quanto e se posto a confronto con la realtà. Ecco perché occorre “Rompere l’incantesimo del mondo del

diritto”207, in quanto occorre privarlo delle formule vuote e ricon-

durlo alla prassi, alla società, e cogliere in essa le potenzialità di tra- sformazione. Questa operazione di sintesi tra teoria e prassi deve es- sere svolta in primis nei luoghi di formazione del sapere giuridico: le Facoltà di Giurisprudenza. Infatti, sottolineano vari autori208, sia in quelle italiane che tedesche risulta ancora sovrana la tendenza a isolare lo studio delle leggi dallo studio della realtà in cui esse si in- seriscono, quindi della storia, della sociologia, della politica, della economia. Occorre invece svelare i meccanismi che sottintendono tale operazione culturale e offrire così ai futuri giuristi-interpreti una interpretazione “politica” dell’ordinamento giuridico, sia che si ri- tenga sufficiente il momento valutativo, consistente per l’appunto nell’individuare il giudizio di valore, la scelta ideologica sottintesa alle norme; sia che si ritenga anche possibile e doveroso, nel mo-

206 R. Wietholter, cit. p. 13.

207 È il titolo del Capitolo Primo di R. Wietholter, op. cit.

208 Si veda a tale proposito: M. Bin, “I limiti del progressismo «accademico» e l’esigenza della pratica politica”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, pp. 201-208; P. Barcellona, G. Cotturri, Stato e giuristi tra crisi e riforma, op. cit., pp.17-48; Christoph U. Schminck, “Osservazioni provvisorie sulla distru- zione dell’ortodossia giuridica in Germania”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, pp. 31-32.

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mento applicativo, interpretare quelle stesse norme sulla base di quei giudizi di valore, i quali non sempre risultano corrispondenti alle scelte ideologiche del legislatore.

Il riconoscimento di una funzione “positiva” del processo interpreta- tivo quale momento indispensabile di sintesi della dialettica, del rapporto tra teoria e prassi induce ad affermare che non si debba ne- gare alla scienza del diritto, alla “iurisprudentia” nel suo significato più antico, il carattere di scientificità e tecnicismo sulla base della constatazione che essa ha per oggetto le leggi positive, dunque leggi intrinsecamente mutevoli. Viceversa occorre recuperare integral- mente «un uso diverso della tecnica e della scienza»209, che restitui- sca un’identità al giurista e soprattutto quella funzione primaria che, secondo Capograssi, è capace di svolgere solo la scienza giuridica, «riconosciuta dalla vita, come avente autorità sulla vita, come pro-