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Ortodossia giuridica e pratica politica a confronto: introdu zione all’attività giudiziaria alternativa e illustrazione del “caso

CAPITOLO TERZO: I cas

1. Ortodossia giuridica e pratica politica a confronto: introdu zione all’attività giudiziaria alternativa e illustrazione del “caso

Grimeca”

Per poter illustrare alcuni “casi pratici” di utilizzo alternativo del di- ritto, da parte della magistratura più giovane e “progressista”, occor- re riprendere, in sintesi, degli aspetti già esaminati nel capitolo pre- cedente.

Come già osservato, il paradosso di Lipari aveva evidenziato che, nonostante all’epoca tutti i partecipanti al Convegno riconoscessero l’esistenza del rapporto tra diritto e politica, restava comunque il problema del rispetto dell’ortodossia giuridica, ossia di come poter fare politica preservando, al contempo, la propria funzione e imma- gine di giurista-scienziato. L’ossessione di una metodologia fondata su criteri oggettivi e, quindi, ritenuti scientificamente verificabili permaneva soprattutto in alcuni giuristi, accompagnata dalla paura dello “smarrimento” nell’incertezza dei valori, delle valutazioni soggettive e arbitrarie, delle ideologie cosicché «ortodossia giuridi- ca e pratica politica sembra(va)no linee parallele destinate a non in- contrarsi mai»332. Si è tuttavia cercato di sottolineare anche quali siano stati i tentativi di risposta a tale interrogativo, soprattutto da parte di chi, come Ferrajoli e altri esponenti di MD, non riduceva la questione dell’uso alternativo del diritto ad una lezione ex cathedra ma si impegnava direttamente, nel proprio lavoro di giurista- interprete, ad attuare una prassi alternativa. Una prassi che, come

332 P. Barcellona, Introduzione a L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, p. VII.

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sottolineava Pulitanò nel suo intervento333, voleva porsi per

l’appunto come alternativa non ai valori democratico-borghesi di stampo illuministico, ma alle loro “deformazioni autoritarie”, carat- teristiche della giurisprudenza dominante. “Prendere sul serio” que- sti valori significava, per MD, nient’altro che applicare direttamente la Costituzione, rectius i principi costituzionali espressione di tali valori, per risolvere “democraticamente”, e non più autoritariamen- te, le controversie prospettatesi in quegli anni.

Tuttavia Pulitanò stesso osservava334 come la prassi alternativa, pur

essendo estremamente rilevante in un Convegno sull’uso alternativo del diritto, era stata altresì esclusa da questo. Pochi, anzi pochissimi, interventi avevano dedicato qualche cenno a tale tematica, e co- munque non riportando mai le decisioni dei magistrati e fornendone una valutazione dei loro contenuti. Operazione ritenuta, invece, as- solutamente essenziale, secondo i magistrati democratici, per coloro che intendevano criticarne anche solo la metodologia. Infatti, soltan- to analizzando le decisioni dei giudici era possibile elaborare un compiuto giudizio sul significato che la giurisprudenza alternativa assumeva nelle aule dei tribunali.

Come già rilevato da Governatori, questa attenzione alla prassi ven- ne dedicata da MD nella apposita rivista “Quale giustizia”. È in essa che si passava dalle mere dichiarazioni metagiurisprudenziali, cioè a ciò che i giuristi e i giudici dichiaravano di voler fare, alla “descri- zione” di ciò che effettivamente facevano.

Occorre tuttavia premettere che aveva ragione Salanitro quando, nel suo già citato intervento, osservò come l’attività della giurispruden- za alternativa si incentrò, in quegli anni, sulla risoluzione di casi at- tinenti soprattutto al diritto penale e del lavoro. Riguardo quest’ultimo, Mazziotti constatò, al Convegno stesso335, come i nu-

merosi provvedimenti in tema di Statuto dei lavoratori, pur se molto spesso riformati o cassati in ragione dell’opposizione da parte della giurisprudenza tradizionale, contribuirono ad un’apertura costitu- zionale, a considerare la Costituzione come “attuabile” e non come

333 D. Pulitanò, “Le deformazioni autoritarie della giurisprudenza dominante e la lotta di magistratura democratica per l’attuazione dei valori democratici”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, pp. 62-63.

334Ibidem.

335 F. Mazziotti, “Uso alternativo del diritto del lavoro”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. I, p. 205.

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“da attuare” nonché a formare, sempre in un’ottica marxista, quella coscienza da parte della classe operaia di sé e dei propri diritti costi- tuzionali.

A tale proposito si possono proporre tre esempi di casi realmente verificatisi in quegli anni e dei quali si cercò di fornire un’interpretazione alternativa del diritto. Per comodità espositiva possiamo denominarli come il “caso Grimeca”, il “caso Binda” e il “caso Biagioli”, dai nomi delle società convenute in giudizio nelle tre rispettive vicende giudiziarie che li coinvolsero. Caratteristica comune, non solo a questi tre episodi ma a tutti i casi “interpretati alternativamente”, era il riferimento all’articolo 3 cpv. Costituzione. Infatti, come osservò Cotturri, si tratta di un principio che poteva es- sere utilizzato a sostegno di tutta una giurisprudenza alternativa, in quanto permetteva di attribuire rilevanza a ciò che i giuristi tradi- zionali relegavano nell’irrilevante, ossia ai fatti, esprimenti «gli as- setti concreti realizzati dai privati sulla base delle rispettive posizio- ni di forza»336. L’articolo 3 costituiva, quindi, l’emblema della fine

dell’ideologia della separazione e della ricollocazione del diritto all’interno dei rapporti sociali.

Dopo queste premesse introduttive, possiamo passare alla rassegna dei singoli casi, cominciando dal caso Grimeca337. La signora Dima Balice, lavoratrice dipendente presso la S.p.a. Grimeca, ottiene in affidamento preadottivo, il 3 ottobre 1972 dal Tribunale dei mino- renni di Bologna, il minore Fabrizio Colletti, di soli otto mesi. Il 20 ottobre 1972 ella chiede al proprio datore di lavoro di assentarsi dal lavoro per un periodo di quattro mesi, ex articolo 7 della legge 30/12/71 n. 1204 sulla tutela delle lavoratrici madri, proprio per po- ter assistere il minore affidatole. Tuttavia la società Grimeca rispon- de negativamente alla richiesta, il giorno dopo, con una lettera in cui si afferma che la legge citata si applica solamente alle lavoratrici- madri che hanno generato i figli, e non anche a quelle che li hanno o li stanno per adottare. Dopo aver cercato invano di parlare col dato- re, Balice si assenta comunque dal lavoro, essendo convinta di eser- citare un proprio diritto. Tuttavia, con lettera del 25 ottobre 1972,

336 G. Cotturri, “L’ideologia della separazione e il recupero dell’analisi del rea- le”, in L’uso alternativo del diritto, op. cit., vol. II, p. 92.

337 Si legga, a tale proposito, [s.f.] “La madre lavoratrice e il figlio adottivo”, in Quale giustizia, 1973, n. 21-22, pp. 435 ss.

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viene licenziata dal datore per assenza ingiustificata. Ella, a questo punto, impugna il licenziamento e promuove il giudizio innanzi alla Pretura di Bologna, il cui pretore, nella persona del giudice di MD Governatori, decide della causa, il 24 maggio 1973, come segue. Il problema verteva, come si può intuire dalla descrizione dei fatti, sull’interpretazione dell’articolo 7 della citata legge; se esso poteva applicarsi anche alle lavoratrici-madri adottive come Dima. E la de- cisione, a favore dell’attrice, di Governatori comincia proprio con la riproposizione integrale del testo dell’art. 7, al cui primo comma si stabilisce che «la lavoratrice ha diritto di assentarsi dal lavoro, tra- scorso il periodo di astensione obbligatoria […], per un periodo, en- tro il primo anno di vita del bambino, di sei mesi, durante il quale le sarà conservato il posto». Come interpretare il termine “la lavoratri- ce”? i redattori di Quale giustizia premettono338, prima di riportare il

testo della decisione del pretore, che se questa questione fosse stata sottoposta ad una giuria popolare composta da operai e da altri indi- vidui “digiuni di studi pandettistici”, probabilmente sarebbe stata ri- solta sulla base di una semplice considerazione: la norma si riferisce genericamente alla tutela delle lavoratrici-madri, non prendendo in considerazione problemi o esigenze specificamente collegate al par- to. Le esigenze che impongono di assentarsi dal lavoro sono comuni a tutte le categorie di lavoratrici-madri, anzi addirittura dovrebbero esserlo ancor di più per la madre adottiva, in quanto quest’ultima viene a trovarsi in una situazione molto più delicata, dovendo co- struire quel rapporto madre-figlio che invece, per le madri naturali, risulta precostituito sin dalla gravidanza. Pur non potendo, Governa- tori, giustificare in tal modo la sua applicazione dell’articolo 7 an- che alle lavoratrici-madri adottive, egli sembra che colga, in tali os- servazioni, un elemento fondamentale, riconducibile alla ratio della disposizione stessa. Infatti l’oggetto della tutela dell’art. 7 non è so- lo l’interesse della lavoratrice ad assistere il bambino, ma anche e soprattutto l’interesse del bambino, in quel particolare momento del suo sviluppo psico-fisico, ad avere una continuativa presenza e assi- stenza della madre. Tanto è vero che gli studi psicologici dimostra- no che eventuali carenze affettive e disturbi, insorti durante questo

338 [s.f.] “La madre lavoratrice e il figlio adottivo”, in Quale giustizia, riv. cit., p. 436.

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periodo di vita, avranno delle ripercussioni sul suo successivo adat- tamento alla vita sociale e alla relazione con l’altro.

Per ragioni sociali, dunque, l’interesse del bambino costituisce la base del diritto della lavoratrice di assentarsi dal lavoro, essendo considerato prevalente rispetto al diritto del datore alla prestazione della dipendente. Dal punto di vista normativo, la dimostrazione della prevalenza dell’interesse del bambino si rinviene, secondo Governatori, nel secondo comma dell’art.7, il quale prevede il dirit- to all’assenza dal lavoro della lavoratrice nel caso di malattia del bimbo di età inferiore ai tre anni. Ma soprattutto risulta “evidente”, sostiene Governatori, che l’art. 7 costituisce una diretta applicazione dei principi costituzionali che regolano la famiglia e i diritti-doveri dei genitori sui propri figli (artt. 29 ss Costituzione) e, in particolare, quello ricavabile dal secondo comma dell’art. 31 Costituzione, per cui la Repubblica «protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo».

Come si può osservare da questa prima parte di analisi della deci- sione, si ha un esame preliminare di quella che dovrebbe essere la ratio legis della norma oggetto della controversia. Il pretore parte sì dal testo legislativo (e così non potrebbe non essere in quanto, come osservò anche Lipari339, se è vero che il diritto è in quanto è inter- pretato e che l’enunciato legislativo non è di per sé dotato di un suo peculiare contenuto, tuttavia è altresì vero che la realtà del diritto assume, come suo punto di partenza, il testo legislativo e che quindi l’enunciato normativo sia un momento parziale ma ineliminabile del processo interpretativo e applicativo del diritto340), ma non per of-

frirne un’interpretazione letterale, bensì anzitutto per cercare di comprendere, sulla base di considerazioni anche non prettamente giuridiche ma attinenti ad altri settori quale quello della psicologia, il perché è stata posta quella determinata norma e, soprattutto, nell’interesse di chi. E poi emerge, a dimostrazione di quanto asseri- to, il necessario collegamento e confronto coi principi costituzionali,

339 N. Lipari, “Il problema dell’interpretazione giuridica”, op. cit., pp. 81-83. 340 Sembrano riecheggiare, in tale ambito, le parole di Umberto Eco:

«L’interpretazione non è un pic-nic dove l’autore porta le parole e il lettore porta il senso». La scrittura si pone, infatti, come un limite all’interpretazione stessa, poiché le parole non possono avere qualunque significato. Si veda, a tale propo- sito: U. Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contempo- ranee, Milano, Bompiani, 1997.

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dei quali la norma dell’art. 7 è espressione. Ma, proseguendo nella lettura della decisione, emergono altre considerazioni rilevanti sull’uso alternativo del diritto.

Il pretore si domanda quale sia, una volta individuata sommaria- mente la ragione della norma, il suo ambito di applicazione. Trat- tandosi, nel caso di specie, di una adozione speciale, la legge che la disciplina (ossia l. 5 giugno 1967 n. 431), oltre che dare attuazione ai principi costituzionali già menzionati, provvede altresì all’attuazione della norma ex art. 30, secondo comma, Costituzione: «nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano as- solti i loro compiti». È per questo motivo che scopo ed effetto dell’adozione speciale è quello di far diventare il bambino, in stato di abbandono morale e materiale da parte dei suoi genitori, figlio dei genitori adottivi “sotto tutti gli aspetti”, ossia sulla base di tutte le norme che regolano il rapporto genitori-figli nel nostro ordinamen- to, ivi compreso l’art. 7 della citata legge. Il pretore, quindi, riesce a chiarire, facendo riferimento costante ai principi costituzionali e mediante un’interpretazione sistematica, il perché dell’applicabilità diretta dell’art. 7 anche alle lavoratrici-madri adottive.

Egli passa poi ad esaminare le difese del convenuto. Anzitutto la so- cietà Grimeca eccepisce che la l. 1204 dovrebbe essere applicata so- lo alle lavoratrici-madri naturali, ossia a coloro che abbiano genera- to il figlio, e che non sia possibile un’interpretazione sistematica so- stenendo che la l. 1204 e la l. 431 siano leggi speciali. Sotto il primo profilo, Governatori risponde che l’obiezione del convenuto avrebbe senso solo se l’art. 7 e le altre disposizioni facessero riferimento esplicito al requisito della generazione, cosicché la ratio di esse con- sisterebbe nella disciplina del preminente interesse della madre alla sua tutela sanitaria. Invece, in questo caso, non essendovi alcun rife- rimento specifico, preminente è l’interesse del bambino, che è real- mente identico nei due casi, in quanto ogni diversità si configure- rebbe come palesemente discriminatoria, irrazionale e soprattutto incostituzionale, perché in violazione del principio-cardine di ugua- glianza, ex art. 3 cpv. Costituzione.

Quanto al secondo profilo d’impossibilità applicativa di un’interpretazione sistematica, il pretore osserva come l’art. 14 delle disposizioni sulla legge in generale escluda solo l’applicazione ana- logica di «leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole genera-

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li o ad altre leggi». Le già citate leggi sulla tutela delle lavoratrici- madri e sull’adozione speciale non rientrano in tale disposizione, poiché non sono norme eccezionali rispetto a regole generali o ad altre leggi, ma anzi sono l’applicazione diretta della Costituzione, di alcune direttive costituzionali, tra le quali, quella più importante, è sicuramente l’art. 3, secondo comma, Costituzione che affida alla Repubblica, e quindi sia al legislatore che al giudice, il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impedisco- no un’uguaglianza sostanziale dei cittadini. A questo punto si può comprendere maggiormente una delle prime osservazioni fatte a proposito di tale vicenda. La tutela della lavoratrice per l’adempimento dei suoi doveri di madre favorisce lo sviluppo della persona nel contesto della comunità, perché sottrae il bambino dai deleteri effetti della carenza affettiva e dalla istituzionalizzazione dei minori. Ecco perché la disciplina dell’adozione speciale ha ac- quisito un carattere più marcatamente pubblicistico, data la funzione sociale attribuita alla famiglia adottiva.

Risolta, dunque, positivamente l’applicabilità dell’art. 7 anche alle lavoratrici-madri adottive, il pretore deve esaminare un ultimo aspetto della vicenda: la possibilità di applicazione di tale norma anche in caso di affidamento temporaneo preadottivo, disciplinato da alcune disposizioni del c.c. E sempre partendo da un’analisi della realtà sociale tutelata, Governatori giudica applicabile l’art. 7 anche in questo ambito, proprio perché preminente è ancora una volta l’interesse del fanciullo ad una particolare tutela nei primi mesi del- la sua vita e, quindi, tale tutela non può essere posticipata a causa della durata del procedimento di adozione, altrimenti si configure- rebbe una disparità di trattamento incompatibile con la Costituzione, nonché la produzione di tutte quelle conseguenze negative a livello psicologico e sociale già accennate. Come si può notare egli, quindi, inverte quel rapporto idealistico tra norma e realtà, partendo dalle esigenze di quest’ultima.

Questa anticipazione degli effetti giuridici del provvedimento di adozione definitivo tra l’altro non è l’unica nel panorama normati- vo. Il pretore, infatti, accenna brevemente agli effetti interinali nei procedimenti di inabilitazione e di interdizione, per illustrare come anch’essi siano funzionali allo scopo principale previsto dalla legge

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che, nel caso dell’adozione speciale, è quello della cura dell’interesse psico-fisico del minore nel suo primo anno di vita. Infine Governatori aggiunge che l’interpretazione da lui adottata per la decisione di questo caso trova conferma nel parere dell’Adunanza Generale del consiglio di Stato, II sezione, del 19 febbraio 1970 n.225. Tale parere accoglieva un ricorso straordinario al Capo dello Stato di un dipendente statale per la mancata corresponsione della quota aggiuntiva di famiglia, a lui dovuta per aver ottenuto in affi- damento un minore. Anche in questo caso, il datore aveva eccepito l’inapplicabilità delle disposizioni nei confronti di un minore adotta- to, non tenendo conto dell’interpretazione sistematica delle norme. Interpretazione utilizzata anche dal Comune di Bologna che, nella deliberazione del 7 maggio 1973 n. 17091, non solo riconosce l’applicabilità dell’art. 7 anche alla madre “adottiva”, nel senso lato del termine e, quindi, svalutando quelle differenze giuridico-formali tra adozione e affidamento preadottivo, in quanto quel che conta è la comune problematica relativa alla tutela dell’interesse del minore, ma fa coincidere il primo anno di vita con l’inizio effettivo della re- lazione affettiva madre-bambino.

Come si può notare dall’analisi di questo caso, il pretore Governato- ri ha indubbiamente promosso un uso alternativo del diritto vigente. Anzitutto non si è limitato ad un’interpretazione letterale e, dunque, formale della norma che, nel caso di specie, portava all’applicazione di quel brocardo latino “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” (trad. “dove la legge ha voluto ha detto, dove non ha voluto ha taciuto), ossia alla propensione verso un’applicazione rigorosamente restrit- tiva del dettato legislativo, non aperta ad alcuna interpretazione si- stematica ed estensiva. Al contrario egli ha optato per un’interpretazione di quest’ultimo tipo, proprio perché essa si adat- tava meglio alle esigenze sociali, alla realtà sociale analizzata, entro la quale il giurista viene visto come potenziale artefice del muta- mento sociale, atto a eliminare quella disuguaglianza sostanziale, ex art. 3, che è posta alla base del programma alternativo e che, nel ca- so di specie, si esplica nel diverso trattamento giuridico della lavora- trice-madre adottiva rispetto a quella naturale.

Si evidenzia, inoltre, che l’interpretazione alternativa del diritto di Governatori, in questa vicenda, venne promossa anche in grado di Appello con la conferma della decisione e altresì dallo stesso Mini-

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stero del lavoro341 il quale, con lettera del 15 giugno 1973 n. 36058,

rilevò che, anche sotto il profilo formale, l’interpretazione letterale della legge non avrebbe costituito ostacolo all’interpretazione sud- detta, poiché lo stesso art. 1 della già citata legge, relativa al campo di applicazione, citava testualmente le “lavoratrici”, quali soggetti destinatari della normativa stessa. Infine tale lettera pose in risalto come fosse identico, dal punto di vista sociale, l’interesse del bam- bino a ricevere l’assistenza della genitrice nei primi anni di vita, in- dipendentemente dal fatto che si trattasse di madre naturale o meno.

2. La rivendicazione del diritto alla salute in fabbrica: il “caso