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La rivendicazione del diritto alla salute in fabbrica: il “caso Binda” e la via alternativa alla logica del profitto

CAPITOLO TERZO: I cas

2. La rivendicazione del diritto alla salute in fabbrica: il “caso Binda” e la via alternativa alla logica del profitto

Veniamo adesso all’illustrazione del secondo caso esemplificativo di uso alternativo del diritto: il “caso Binda”342. Esso poneva

l’attenzione su uno dei punti fondamentali dello scontro politico ve- rificatosi, all’epoca, in primis nelle fabbriche, ossia il tentativo di sottrarre ai proprietari dei mezzi di produzione il potere di disporre della salute e della vita stessa dei lavoratori. Aumentava, infatti, la consapevolezza che la salute e la vita dei lavoratori, quali diritti co- stituzionalmente garantiti, dovessero prevalere sulle esigenze di pro- fitto degli imprenditori. Una consapevolezza che la parte più giova- ne della “bassa” magistratura tentava di ribadire nell’ambito delle proprie pronunce. Seguendo una “scandalosa” via alternativa alla logica del profitto, questi giudici cercavano, infatti, anche in questo ambito, di applicare fedelmente la Costituzione, nonché le leggi del- la Repubblica, come lo Statuto dei lavoratori, in maniera conforme ad essa. Di fatto l’art. 9 dello Statuto prevedeva e prevede che: «i lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la lo- ro integrità fisica». Tuttavia il rischio era, all’epoca, che tale dispo- sizione, come molte altre dello Statuto, non venisse applicata per la

341 Si veda, a tale proposito, [s.f.] “La madre lavoratrice e il figlio adottivo”, in Quale giustizia, 1974, pp. 250-251.

342 Si tratta del primo caso elencato nell’articolo [s.f. ] “La salute non è dei pa- droni”, in Quale giustizia, 1971, pp. 19-22.

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risoluzione di controversie riguardanti la salute in fabbrica. Per que- sto motivo “Quale giustizia” dedicò una parte apposita a tale tema, riportando gli esempi giudiziari di applicazione concreta dell’art. 9. Tra questi, degno di nota, è proprio il caso Binda, del quale, dopo questa premessa, possiamo illustrare i fatti. La Cartiera Ambrogio Binda S.p.a., con sede a Milano, aveva negato l’accesso allo stabi- limento di Milano, alzaia Naviglio Pavese, ai tecnici e professionisti operanti come rappresentanti dei lavoratori della Cartiera: Franca Merluzzi, Claudio Bazzi, Paolo Pieracci, Attilio Costa, Giuseppe Ruggeri, Gilberto Vitale e Luciano Crugnola. In particolare era stato impedito ad essi di compiere tutte le attività necessarie a controllare l’applicazione concreta delle norme sulla prevenzione degli infortu- ni e delle malattie professionali nello stabilimento, nonché per pro- muovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure atte a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori, così come previsto ex art. 9 Statuto. Configurandosi come una condotta certa- mente scorretta da parte del datore di lavoro, i lavoratori, tramite le loro rappresentanze sindacali, adirono la pretura di Milano per ri- chiedere l’applicazione del procedimento previsto, ex art. 28 dello statuto, per la repressione delle condotte anti-sindacali del datore, ritenendo tale norma comunque applicabile nel caso di violazione dell’art. 9.

Tuttavia la Cartiera Ambrogio Bindi S.p.a., convenuta in giudizio, eccepiva l’inutilizzabilità, nel caso di specie, dell’art. 28 in quanto riteneva, sulla base di un argomento meramente letterale, che tale articolo potesse essere applicato solo nei casi di violazioni delle di- sposizioni previste dai titoli II e III dello Statuto, dedicati rispetti- vamente alla libertà e all’attività sindacale, e non anche, come nell’ipotesi in questione, per quelle disposizioni (tra le quali l’art. 9) contenute nel titolo I, dedicato non alle prerogative del sindacato, ma alla libertà e dignità del lavoratore. Ma il pretore Canosa non era dello stesso avviso e ne illustrò i motivi nella sua decisione del pri- mo gennaio 1971. Come Governatori, egli non partiva da un’interpretazione letterale, ma da un’analisi della realtà sociale e del rapporto che si poneva tra questa e le disposizioni in materia di diritto del lavoro. Da tale analisi Canosa ricavava anzitutto che l’attività legislativa laburistica risultava essere continua, in quanto dettata dalla necessità di fornire delle regole che consentissero di di-

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sciplinare i nuovi aspetti che, incessantemente, i rapporti giuridici di lavoro assumevano nella realtà sociale dell’epoca, prima ancora che nella configurazione giuridica. Vi era, quindi, quell’attenzione al reale tipica della giurisprudenza alternativa e il riconoscimento del tentativo, da parte del legislatore stesso, di introdurre una sempre maggior quantità di “democrazia” nelle fabbriche, in armonia coi principi costituzionali del lavoro, che facevano di quest’ultimo il “fondamento della repubblica”. Per questo motivo, secondo Canosa, l’art. 28 non poteva essere considerato, sulla base dell’art. 14 delle “preleggi”, come eccezione alle regole generali (come invece voleva intenderlo il convenuto), dato che non si poteva attribuire a una se- rie di regole una posizione privilegiata a discapito di altre, essendo la materia del diritto del lavoro caratterizzata da una continuità e ca- pacità di adeguamento al reale.

Restava, tuttavia, da verificare se l’art. 28 costituisse eccezione ri- spetto ad altre leggi, così come previsto, in tema di divieto di utiliz- zo dell’analogia, sempre dall’art. 14. Anche in questo caso la rispo- sta, ad avviso del pretore, risultava negativa, in quanto l’art. 28 di- sciplinava alcune delle ipotesi previste dallo stesso Statuto dei La- voratori relativamente ai sindacati, ma non escludeva la sua appli- cabilità ad altre ipotesi non espressamente contemplate. Ciò veniva addirittura dimostrato dalla sua stessa collocazione nel titolo IV, ru- bricato “Disposizioni generali e varie”. Il legislatore avrebbe quindi pensato a tale norma come una “chiave universale” per consentire di ricorrere ad una tutela immediata e, conseguentemente, efficace dei diritti violati dei lavoratori, oltreché dei sindacati. Era l’irreversibilità del pregiudizio che, a parere del pretore, doveva co- stituire il “discrimen” per l’utilizzabilità o meno dell’art. 28. E, nel caso di specie, il pregiudizio appariva grave ed irreversibile, proprio perché concernente la violazione di un diritto costituzionalmente ga- rantito ancor più importante di quello della libertà sindacale, ovvero il diritto alla salute definito, ex art. 32 della Costituzione, come “fondamentale diritto dell’individuo ed interesse della collettività». Come si può notare, anche in questo caso risulta fondamentale, per la risoluzione del caso, il riferimento alle direttive costituzionali. Inoltre, per motivi evidenti, nella decisione era implicito il richiamo al principio cardine dell’interpretazione alternativa, ossia al princi- pio di uguaglianza sostanziale.

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Canosa riteneva, dunque, sulla base di tali osservazioni e di un’interpretazione estensiva, applicabile la procedura ex art. 28 al caso in questione.

Infine il pretore respinse anche un altro argomento difensivo del convenuto, collegandosi, anche qui implicitamente, all’art. 3 Costi- tuzione. Infatti, quest’ultimo aveva rilevato l’esistenza di un comita- to paritetico per la prevenzione delle malattie e degli infortuni. Que- sto comitato, la cui esistenza non era stata smentita dai lavoratori stessi, era formato da otto dipendenti, quattro designati dalla com- missione interna e quattro dalla proprietà. Come era facilmente in- tuibile, tale composizione paritetica garantiva solo formalmente la parità di trattamento e l’uguaglianza, in quanto sostanzialmente vi era una disparità di potere tra i massimi dirigenti dell’azienda e i semplici dipendenti. Per questo motivo i lavoratori preferirono ri- volgersi al giudice (e non a questo comitato) perché presumibilmen- te scarsa era la fiducia che essi riponevano nei confronti dell’organo “formalmente” paritetico.

3. Il “caso Biagioli”: un modello di confronto-scontro tra pretu-