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Un capitolo dell’Arte di predicar bene: «Osservazioni retoriche sopra l’istessa

Nel documento La lingua della prosa sacra del Seicento (pagine 39-43)

1.8 Gli studi critici

2.1.4 Un capitolo dell’Arte di predicar bene: «Osservazioni retoriche sopra l’istessa

«Chi non volesse tacere alcuna cosa di quelle che dir si potrebbero in questa materia, poco meno che un libro intiero, se ne comporrebbe, percioché sarebbe necessario considerare ciascuna parola in se stessa, poi come ella stesse congiunta con l’altra, avvertendo come si fossero schivati, o procurati gl’incontri delle consonanti, o delle vocali; appresso misurar bisognerebbe la lunghezza de’ membri e de’ periodi, il numero loro e le desinenze; quindi lo stile, le figure, e tutte le condizioni loro, che sarebbe impresa piena di fatica e di noia, più tosto che ingegnosa, o fruttuosa; onde lasciando noi molte particolarità al giudicio del lettore, dal quale speriamo che saranno agevolmente conosciute, di alcune cose più principali faremo noi solamente menzione.

Et in prima parmi, che sia da considerarsi in quel genere, o stile di dire sia questa predica, et essendo chiaro, che non appartiene né all’aspro, né al tenue, possiamo dire ch’ella abbracci la forma del dir grande e venusto insieme; s’affà la materia, perché trattandosi di lode convengono tutti, che di stile venusto abbiamo a servirci, chiamato da altri temperato, che poi vi stia bene il grande si prova, perché le cose lodate hanno molto dell’eroico, del grande, e per dire così del divino.

Quanto alla forma et elocuzione, che anch’ella si conformi con la materia, si può conoscere dalle parole, che sono per lo più scelte, se ben non molto straordinarie, per non dar nell’affettato, da periodi, che hanno del risuonante e numeroso, e dalle molte figure, che per tutto il corpo di lei sono sparse, e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

per considerarne alcuna particella in particolare; prendiamo il principio della prima parte, il quale se non s’inganniamo, ha molto del maestevole e del grande.

«Risplendono»; questa è la prima parola, la quale per esser lunga e piena di consonanti sonore, non si può negare che non sia grande, oltre all’esser voce non punto plebea, e presa qui in senso metaforico, segue (con tanta

maraviglia) e qui la pronunzia stessa, la quale è necessario che sia posata, fa

fede della sua grandezza, e se volessimo considerare ciascuna parola, potressimo dire che la voce (tanta) non può esser più magnifica, poiché ha due sole vocali, e queste sono due A, più sonore di tutte le altre, ha nella penultima sillaba due consonanti vicine, cioè la N e il T, dalle quali viene a maraviglia ingrandita la parola, come ancora il riscontro dell’ultima consonante della precedente parola, ch’è la N con la prima di lei, ch’è la T, serve parimente non poco a questa grandezza, e questo basti di queste minuzie, per un saggio solo, ch’il Lettore potrà volendo andarle considerando facilmente nell’altre parole.

Se poi passiamo a’ membri et a’ Periodi si vede ch’il primo membro alquanto lunghetto e molto numeroso, e particolarmente, che finisce con molta gravità, et è («Risplendono con tanta maraviglia per ogni parte, che si rimirano le vite de’ Santi, o Salerno»), poi segue un conciso, per lasciar riposar un poco la mente, perché si stancherebbe troppo se molti membri lunghi e correnti, come il passato, fossero vicini; non altrimente che se molte carriere correre si facessero a qualche destriero senza alcuno tramezato, riposa, e dunque il conciso («che punto non mi stupisco») segue poi con un altro membro, cioè («mentre considero troppo difficile a credere esser paruto a molti») pur lunghetto alquanto, ma più spezzato che il primo, potendosi prender fiato, e dopo («considero») e dopo («credere») il fine ad ogni modo è risuonante per la parola («molti»), la cui ultima vocale è preceduta da due consonanti e da un’altra vocale di gran suono. Appresso vi è un altro membro, che si può dir l’ultimo di questo Periodo, il quale perché egli è bene che sia lungo più de gli altri, e se delle parole sue sole si componeva, non poteva avere la convenevole lunghezza, né riempire bene l’orecchio, vi s’interpose una Parentesi, che l’allungasse, che fu («tutto che nell’apparenza non dissimili) e segue poi molto numerosamente veramente fussero dell’istessa natura, che siamo noi etc. E qui si può dire che finito sia il periodo, e non finito: finito quanto alla sospensione et al ritorcimento; ma non finito, perché le parole che seguono, pur da lui dipendono, e si può dir che siano un pezzetto di orazione distesa, attaccata al Periodo. La quale è tutta indrizzata ad

amplificar ornatamente l’ultimo membro del Periodo; percioché dice l’istesso, ma sotto diversi colori, nella maniera che insegnammo trattando dell’essornazione, et è tanto il dire («dell’istessa natura fossero, che siamo noi»), quanto («dall’istesso Adamo discendessero»), quanto («dall’istessa carne vestiti»), quanto («dall’istesse passioni molestati fossero»), e bastandoci avere considerato questo primo Periodo, così minutamente, nel rimanente della predica anderemo solo notando alcuni lumi, figure e modi dire, che ci parranno più degni di considerazione. Lasciando (già che nel corpo della predica siamo entrati) il proemio nell’ultimo luogo.

La figura detta correzione si vede in quelle parole («anzi è, perché temerò io d’ingannarmi»); a cui segue quell’amplificazione, che si fa per replicazione dell’istessa sentenza, perché essendosi detto, è comune opinione di tutti, non si dice cosa nuova, quando si soggiunge e fama universale, e grido di popolo etc. ma si amplifica l’istesso.

La differenza, chiamata da’ Latini Discriminatio, si scorge in quell’altre («Angelo per grazia, non per natura, Angelo di costumi, non d’essenza») e per dimostrare che non sono questi aggiunti di quelle condizioni che chiamano i Logici distraenti; cioè che togliono l’istesso suggetto, come se dicessimo, uomo dipinto; si soggiunge, Angelo ad ogni modo, e questi si amplifica, servendoci della replicazione nel principio, e di molti concisi, e di due enumerazioni. La prima de gli Accidenti del suggetto, la seconda delle parti. La prima è in quelle parole («Angelo per la sapienza ecc.»); la seconda in quell’altre («Angelico il volto» e quello che segue).

La dubitazione ci venne molto a proposito, quando dicemmo dell’Angelo dell’Apocalissi, che o fu Tomaso Santo, o se non fu, d’esso, gli fu almeno così somigliante, che nulla più. Percioché se detto avessimo determinatamente che quell’Angelo fu San Tomaso, avremmo detto il falso, se solo che gli fu simile, sarebbe stato alquanto freddo, ma dicendosi in dubbio, dimostriamo una somiglianza grandissima, e così l’uno, come l’altro pericolo fugimmo.

Dell’Amplificazione per comparazione ci servimmo per ingrandir la fortezza che dimostrò San Tomaso, nell’assalto che gli diede quell’Impudica Donna; quando dopo aver ingrandita la vittoria ottenuta del Mondo e de’ suoi parenti; dicemmo che paragonata a quello, che fece appresso, fu gioco di fanciulli, quasi nella guisa, che fa il savio, che raccontando le vittorie di David, quelle de’ Leoni et orsi chiama giochi, rispetto a quella del Gigante Goli: Lusit con Leonibus quasi agnis etc.

Nel lodar il silenzio di San Tomaso in prima serviti ci siamo dell’Amplificazione per comparazione con quel modo di dire («Stupiscasi ci vuole» ecc.), e poco dopo facciamo quell’Epifonema («o silenzio Maraviglioso, e quai parole per sapienti e pregiate che siano, potranno a te preporsi giamai?») nel quale confessiamo ingenuamente d’aver imitato il Tasso, qual’ora egli disse: «Magnanima Metrologa or quando è il vero / si bello che si possa a te preoporre?». Quella replicazione poi d’un’istessa parola nel fine, che si chiama Epanafora, ci ha servito non poco a lodar l’istesso silenzio di S. Tomaso, replicando tre volte («e pur tacere»).

[…] Nella prima impresa vi è quella figura chiamata Gradatio, o scala, et è («Non vi è saetta che acutissima non sia, non sentenza, che non sia saetta» ecc. ad imitazione di quella del Tasso: «Non cade il ferro mai, che a pien non colga / né coglie a pien, che piaga anco non faccia, / né piaga fa, che l’alma altrui non tolga». Ma con questa differenza, che egli la fa salendo et accrescendo, e noi discendendo al basso, così richiedendo la materia nostra. […]

Quanto all’Elocuzione del Proemio, l’abbiamo incominciato con un disteso e facile, e non periodico; perché i principi devono facilmente potersi intendere; massimamente in tempo, che molte volte, non ancora sono acquetati gli Auditori, il che parimente ci dimostra più lontani dall’affettazione e più famegliari; quindi a poco a poco c’andiamo inalzando, e spiegata la somiglianza, vi si va scherzando intorno con quelle parole («Colori son questi» ecc.), il che per esser questo proemio in genere demonstrativo, e per le ragioni dette altrove non abbiamo stimato sconvenevole.

Abbiamo usata la parola greca Parerga, per significare quei ornamenti che si dipingono attorno a qualche quadro, e da’ pittori sono dette Grottesche, non tanto per ingrandir il parlare con la voce forestiera, quanto perché l’abbiamo stimata più bella e più facile da intendersi, che l’altra communemente usata da’ pittori».

Si tratta probabilmente di uno dei primissimi esempi di analisi linguistica di un proprio scritto, ed è curioso che ciò avvenga in un’opera di precettistica oratoria. Come si legge dal lungo brano in calce alla predica di San Tommaso Aresi, oltre a distinguere la zona proemiale dall’inizio della predica, elabora alcuni concetti topici della predicazione. In altre parole, è notevole il commento sui periodi e membri (cioè proposizioni) che compongono la prima sezione del testo. «Conciso», «spezzato», «Parentesi», «amplificare» sono

solo alcuni dei termini che ricorrono costantemente nelle descrizioni della prosa e che s’intrecciano nel tessuto sintattico della predica di San Tommaso. E a proposito di sintassi è funzionale a questa indagine l’ultimo periodo. Il vescovo di Tortona differenzia da un punto di vista strettamente sintattico il proemio, che non è scritto con un dire «periodico» (cioè elaborato e pieno di proposizioni), ma con un «disteso e facile […] perché i principii devono facilmente potersi intendere». La dinamica della predica perciò vedrebbe un inizio proemiale dettato dalla semplicità sintattica e lessicale cosicché il pubblico possa capire almeno l’argomento. Un ultimo segnale viene offerto dalla scelta della voce greca «parerga» al posto di «grottesche», quest’ultima meno comprensibile perché appartenente alla sfera tecnica dei pittori.

Nel documento La lingua della prosa sacra del Seicento (pagine 39-43)