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Verbo in clausola

Nel documento La lingua della prosa sacra del Seicento (pagine 72-74)

È alquanto frequente l’uso del verbo in posizione finale. Dai dati che è stato possibile raccogliere, sembra che gli autori di oratoria sacra accolgano favorevolmente questo modulo classicheggiante e ciò va a scontrarsi con quei tratti sintattici considerati più moderni (vd. infra § 4.9 ss.). Ma come possiamo confermare che il verbo posto in clausola sia uno stilema pregnante dell’oratoria? Partiamo con un esempio significativo delle DS:

209 Or nell’umano corpo ancora in cui la Natura par che si risegga, la medesima ragion di perfezzione considerar si deve, cioè a dire che in quelle sentimenta ed in quelle parti che più cose alla loro costruttura, difesa ed ornatura richieggono, più di pregio e d’eccellenza si ritrovi che nell’altre. Ma io non so per certo vedere se senso alcuno vi sia, il cui ufficio di più machine e più maravigliosi arnesi abbia la Natura proveduto di quel che nella bocca ha fatto, la qual propriamente all’uso della musica fu deputata da lei, là dove tutto l’ingegno suo, tutte le sue forze impiegò.

Siamo di fronte a un nucleo sintattico che si discosta dall’andamento ritmico delle zone appena precedenti e appena successive. Osserva Pozzi a tal proposito che l’accumulo di inversioni sembra dare un tono bembesco alla prosa, ma il «ritmo generale dell’andamento risulta tutt’altro da quello del Bembo», proprio per il fitto uso di verbi in clausola, e soprattutto ci si riferisce alla chiusura più violenta, cioè al passato remoto finale (estremamente raro in Bembo)93. L’intento dell’autore è di offrire una sintassi che più si avvicini !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

92 Cfr. ibid., pp. 131-32 e D’Angelo 2015, pp. 105-109. Per chiarezza, Bozzola registra un

18% di ordini marcati negli Asolani e dati che arrivano a un massimo dell’8% negli altri testi (Castiglione, Tasso, Machiavelli, Speroni); D’Angelo, invece, riporta dati che oscillano dal 3 al 5%.

93 Pozzi 1960, p. 255 n. 7. Sarebbe necessario approfondire l’uso del cursus in Bembo per

paragonarlo ai nostri scrittori. L’uso del passato remoto nel verbo in clausola ci rimanda anche al Calloandro del Marini: «Il quale conosciuta la cortesia del vecchio, riconobbela con tutto il cuore, e le stanche membra sull’erboso suolo volentieri adagiò» 27.

agli istituti trecenteschi, lasciandosi andare, alle volte, a vere e propri omaggi di stile nei confronti del Cinquecento (come negli esempi citati di DS 66 e 241). E il fenomeno si ripete costantemente per molte pagine:

DS 68 e che maggior magnificenza apportano i bronzi e i marmi, i quali adornano le piazze e i teatri, che ‘l minio e la cerussa, ch’appena dentro lo spazio d’una angusta cornice compaiono;

73 Quinci il medesimo Apelle soleva forte Protogene riprendere, perché soverchio tempo intorno alle sue figure spendesse, troppo assiduamente ritoccandole, né sapendo giamai la mano dalla tavola levare;

ivi Bastimi solo dire ch’egli infinitamente sa, perch’è la stessa Sapienza che tutte le cose intende; ottimamente fa, perch’è la stessa Potenza che tutte le cose crea; ed efficacemente vuole, perch’è la stessa Bontà ch’a tutte le cose si communica; 254 alla cui fabrica maggior numero di machine, di stromenti e di fatiche concorre;

323 E come potuto avrebbe il cielo difendersi e ripararsi dall’avida cupidigia d’Alessandro, il quale di non avere più che un sol mondo conquistato si lagnava?.

Se in Marino l’espediente del verbo in posizione finale trova ampio spazio, in Aresi diventa quasi un’abitudine, e sembra seguire le posizioni verbali della terza parte delle Dicerie, cioè il Cielo; l’unica sezione scritta a parte:

Ps. Ar. 48 «Cento, e mille sentieri, e tutti aperti, e piani scorge [San Carlo], ciascun de’ quali con mutola favella a se l’invita, e di sicuramente al bramato termine condurlo quasi gli promette, ma non potendo incaminarsi per tutti, in lauta mensa riman famelico, e se verso di uno il piè dell’affetto distende, con più forza, che prima sente allettarsi da un altro, e sempre il tralasciato più degno di non tralasciarsi rassembra»;

156 «Non che in se stesso più degno sia»;

159 «per passar il tempo qualche libro piacevole, o di cavalleria mondana, in cui si trattenesse leggendo, richiese»;

202 «fra mille piante, che le fatiche dell’agricoltore con ricchi doni largamente compensano, solo ingrato, e sterile si scorge [l’albero], come ben notò l’Apostolo S. Giuda Tadeo, chiamando certi, arbores autumnales infructuosa, cioè, piante, che nell’istesso Autunno infruttuse si veggono».

e come accade per le DS, anche le opere dell’Aresi si distinguono per il ricorso ad inversioni verbali in brevissime porzioni di testo (per esempio: «L’istesso dunque pare» 203) che risentono i gusti cinquecenteschi della prosa. Anche nei tratti più semplici della sintassi, inoltre, l’infittirsi di verbi in clausola, come nel seguente esempio:

214 […] inferiore a tutti per umiltà si faceva, ma da tutti superiore in santità si reputava. Qual principiante nella via dello spirito si professava, ma al colmo della perfezione lui esser giunto appariva. Di lui in somma la sopradetta lode si avverava;

aumenta considerevolmente la tensione del periodo scandito dal ritmo degli indicativi imperfetti, quasi in contrapposizione ai momenti narrativi che, al contrario, prediligono l’anteposizione del verbo94.

Assai prezioso riguardo a tale fenomeno è una lettera del generale della Compagnia di Gesù Muzio Vitelleschi al predicatore Giovanni Rho:

Io l’ho sentita altre volte; e però non solamente per giudizio d’altri, ma anco mio, l’avvisai s’andasse aggiustando all’ordinario, e le accennai come potrebbe farlo, osservando in particolare tre cose, cioè che lasciasse le descrizioni; che quando ci sono parole buone, ma ordinarie, lasci le pellegrine e non ordinarie, e che non si curi di mettere il verbo all’ultimo […]95.

Tra gli errori da correggere balza in primo piano una delle pratiche che si è vista essere una costante nei predicatori, cioè il verbo alla fine. Evidentemente, le imposizioni degli ordini religiosi spingevano per una lingua media che non avesse come fine l’impostazione letteraria che la ricerca sta facendo emergere, ma il ministero apostolico.

Nel documento La lingua della prosa sacra del Seicento (pagine 72-74)