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Retorica, sintassi, modelli nel Seicento

Nel documento La lingua della prosa sacra del Seicento (pagine 43-46)

1.8 Gli studi critici

2.1.5 Retorica, sintassi, modelli nel Seicento

Nel voler raccogliere e restituire un panorama culturale, che abbia come linea comune i procedimenti sintattici, si è tenuto conto dei molteplici studi pubblicati nel corso degli anni, alcuni dei quali avevano già tracciato delle linee di ricerca dalle quali partire. Avendo quest’indagine come autori di riferimento Aresi, Marino e Segneri, è venuto naturale interrogarsi sulla ricaduta delle loro opere nel corso del Seicento, per stabilire quanto importanti risultassero ai contemporanei e ai posteri.

Se, come abbiamo visto, l’Arte di Aresi incontrò un grande successo negli anni successivi alla sua pubblicazione (le ristampe ne sono una prova)47, e se anche le DS incontrarono vasto e adombrato pubblico che ne imitarono lo stile, bisognerà concentrarsi sugli altri manuali scritti durante il secolo XVII per accertare il reale influsso all’interno degli ordini religiosi. La ricognizione non prevede di esaurire la conoscenza dei campi della retorica, ma solo di far brillare quei punti che si ritengono rilevanti ai fini del discorso esclusivo della retorica in rapporto con la sintassi. Partendo perciò dall’ordine dei gesuiti, e non volendo inoltrarmi troppo nel campo della ratio studiorum, bisognerà dare alcune premesse: una di queste è sicuramente la vicinanza all’ordine gesuitico da parte degli intellettuali del periodo. Non è un caso che il Marino, durante la stesura delle DS, si preoccupasse di non deludere il padre

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47 Una prima nel 1627 e una terza nel 1664. Inoltre, nell’Ottocento fu falsamente attribuita a

Mazarini48; come non è casuale l’ingresso del Tesauro all’interno della compagnia di Gesù. E se si guarda ai panegirici e ai discorsi sacri scritti dalle due figure più importanti del Seicento, si nota una certa somiglianza di base, fondata sull’educazione oratoria gesuitica. Una definizione perfetta fu trovata da Mario Zanardi che in un suo saggio affermava di poter parlare «di una koiné didattica, regolata da un suo proprio codice»49 che però, già prima della

pubblicazione delle DS, conobbe un periodo di crisi determinata dall’influenza di nuovi modelli retorici. E a proposito di nuovi modelli, lo stesso Marino si proponeva «di acquistare successo tra i professori del pulpito»50, trasformandosi in un esempio d’oratoria da imitare. Era normale per l’epoca emulare i più dotti predicatori, assimilandone lo stile e riproducendolo; ma il più delle volte la mimesi oratoria sfociava in una deformazione della predica, non più caratterizzata dalla semplice parola apostolica, ma intrisa di affastellamenti retorici e sintattici. La già citata lettera del 1617 conservata all’ARSI (e già riprodotta nel già citato articolo di Zanardi) denuncia la cattiva predicazione che andava dilagando tra gli aspiranti predicatori gesuiti:

La penitenza, data li giorni passati, per ordine di Vostra Paternità, al fratello Alberto, per la predica mal fatta, svegliò in me un antico mio desiderio di vedere rimessa in piedi l’arte di predicare con ispirito e fruttuosamente, la quale nella nostra Compagnia pare che si vada perdendo, attenendosi solamente a tesser belli discorsi senza conchiuder mai cosa, che muova gli animi e li converta a Dio, come già facevano i nostri primi padri […]. Lo stile, che si va ora seguendo nelle prediche, e che da i giovani viene imitato, è quello del p. Albrizio, e per me stimo ch’egli, seben non volendo, sia stato grande occasione di queste vanità, con le quali viene adulterata la parola di Dio.

E sulla cattiva predicazione arrivano testimonianze anche da altri ordini religiosi e da gesuiti non italiani. È chiara la predisposizione dei giovani aspiranti predicatori, nonostante la ratio studiorum imposta dall’ordine della Compagnia, a recepire il testo orale ed emularlo secondo i vari manuali di predicazione. In effetti, il sopracitato rimprovero sembra entrare in netto contrasto con ciò che si poteva leggere nei trattati di Aresi o Panigarola. !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

48 Giulio Cesare Mazzarino (1554-1621, DBI). È stata tracciata da Pozzi 1960 e da Ardissino

2014 la linea che collega Marino al famoso predicatore, autore di molteplici discorsi e ragionamenti oratori (Cento discorsi su’l cinquantesimo salmo intorno alla santità di David o i Ragionamenti sopra il Sermone [della Montagna] che contenevano una Brieve prattica

del predicare sulla quale ci soffermeremo più sotto).

49 Zanardi 1982, p. 17. 50 Pozzi 1960, p. 62 n. 2.

Concentriamo ora l’attenzione sulla figura di Marino. Certamente, al suo gusto concettista già evidente in poesia non rimase indifferente il gesuita Mazarini che addirittura citò il poeta napoletano ben due volte nella sua

Quarta parte de’ discorsi (1609):

Discorsi 25 Che perciò il gran Colosso di Babilonia avendo per fondamento il loto, rovinò senza violenza d’opera altrui. Ove ora è Troia, ov’è Babilonia, ove Cartagine, ove Ninive, ove Roma? Ahi imperatrice Roma in te medesima sei e nelle tue rovine sepolta «e le famose Pompe del Tebro el gran nome Latino, / E la gloria di Marte e di Quirino / co’ denti esterni il Re de gli anni ha rose» (Marino nel son. 8. morale)51.

Discorsi 587 e come disse il Lirico, Urget diem nox, et dies nocetm, la primavera non è continova, l’estate o’l verno perpetui non sono. Ma un tempo termina l’altro, e l’altro da fine all’uno, come dolcemente cantò quel nobile Poeta: «Non anno eterne tempre / nel mondo il caldo e ‘l gelo / non serba un tenor sempre / la terra, e non il cielo. / La bella Dea di Delo / or in cerchio, or in corno / tal giamai qual partì non fa ritorno» (Marino nella canz. 10).

In Mazarini si rivede un gusto anticipatore per la predica fastosa e colma di artifici retorici, lontana dal canone ciceroniano, un fatto, questo, che lo stesso gesuita giustificò con l’imitazione di altri modelli classici quali Giovenale, Ovidio e Seneca52. Un’idea precisa Mazarini la espresse nel suo manuale Pratica breve del predicare pubblicato nel 1615 e che il generale Claudio

Aquaviva, forse leggendo un abbozzo in anteprima, raccomandò a tutti i gesuiti «ut diligenter […] atque utiliter perlegatur»53 insieme a un altro manuale da poco edito del gesuita Reggio, l’Orator christianus (1612).

Immerso nella cultura dell’epoca sembra essere anche il cappuccino Felice Brandimarte da Castelvetrano che con la sua Sapientiae tubae scientia, idest

tractatus scholasticus de arte sacra concionandi del 1667 elogia un tipo di

omelia per lo più sconosciuta alla predicazione austera dell’ordine dei frati minori, identificando «il genus dicendi vertutem con l’oratoria vana e infarcita di citazioni poetiche e pagane»54. Non a caso le prediche del Brandimarte assieme a quelle del Bignoni subirono le censure della Sacra Congregazione dell’Indice. Si può dire sia un aneddoto curioso che vede nel mirino della Chiesa due autori fedeli al periodare delle DS di Marino e che oltretutto veniva osannato come esempio di stile da imitare.

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51 Questo passo è segnalato da Battistini 2004, pp. 152-53. 52 Cfr. Mazarini 1615, pp. 10-12.

53 Aquaviva 1909 [ma 1613], pp. 357-358. 54 Giombi 2002, p. 204.

Nel documento La lingua della prosa sacra del Seicento (pagine 43-46)