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Capitolo sesto: VIVERE PER LAVORARE?

Il nuovo capitolo che si apre si intitola VIVERE PER LAVORARE? e comprende un unico lungo intervento, in cui Luca racconta del suo impegno come attivista di Greenpeace: spiega che prima di trasferirsi a Roma è stato il responsabile del gruppo di Venezia, occupandosi soprattutto del caso di Porto Marghera. Luca continua precisando che dieci anni fa non si sapeva niente riguardo la tossicità degli ambienti e dei fumi emessi dal polo industriale, si era

55 convinti che Porto Marghera inquinasse, ma senza dati e analisi certe. Greenpeace ha fatto un lavoro importante, arrivando fino al processo del 1998 e alla sentenza del 2001, che purtroppo ha assolto tutti i responsabili delle industrie Montedison, Enikem, ed Enimont. Le indagini giudiziarie hanno, a suo tempo, riscontrato un altissimo tasso di inquinamento della laguna causato dagli scarichi in acqua, una forte tossicità dei fumi emessi e un gran numero di discariche abusive di rifiuti contaminanti. Il dato può sconvolgente si era però rilevato quello circa la pericolosità del CVM (Cloruro di Vinile Monomero), agente cancerogeno largamente impiegato nello stabilimento a partire dagli anni cinquanta. Da allora oltre centocinquanta operai impiegati a porto Marghera erano deceduti, e un centinaio risultavano ammalati; tutti gli imputati del processo sono stati assolti, con la motivazione che fino al 1973 non erano noti gli effetti del CVM31. Luca prosegue spiegando che per chi come lui si è occupato di casi come questo, si fa urgente riflettere su quanto il lavoro sia davvero un valore per cui valga la pena morire. Lui precisa che molte delle persone decedute, coinvolte nel processo Marghera, erano entrate in azienda giovanissime, a diciannove, venti anni, vi avevano lavorato in media per trentacinque ed erano andate in pensione a cinquantasei, cinquantotto anni già malate di tumore, per poi morire al massimo due o tre anni dopo. Luca conclude il suo intervento riassumendo il suo pensiero in uno slogan: “Lavorare per vivere e non vivere per lavorare!”

Le inquadrature in cui Luca si rivolge direttamente alla telecamera sono alternate a sequenze che lo mostrano coinvolto in un corteo organizzato da Greenpeace; ma nel capitolo vengono inseriti anche dei brani video in bianco e nero tratti dal documentario Porto Marghera, gas tossici del 1973 prodotto dalla Unitelefilm. Le immagini mostrano le ciminiere del petrolchimico con le colonne di fumo bianco che si arrampicano verso il cielo; di seguito si vedono gli operai

56 lavorare nel piazzale della Montecatini Edison, poi al momento dell’uscita dai cancelli a fine turno. Infine sono proposte anche alcune sequenze delle manifestazioni dei dipendenti di Porto Marghera, che sfilano con le maschere antigas. Il brano musicale che supporta questo inserto conquista volume a poco a poco durante la sequenza, e attraverso un climax si impone per la usa drammaticità. La musica che è proposta qui per la prima ed unica volta in tutto il film, non è di impostazione canonica, ma utilizza, su un sottofondo strumentale essenziale, rumori e suoni campionati e arricchiti da effetti particolari di riverbero. Il risultato è quello di richiamare i rumori della fabbrica, del metallo, ma in maniera quasi immateriale, dando vita ad un clima serio e doloroso.

La scelta di introdurre nel film la vicenda di Marghera ha secondo gli autori motivazioni diverse: la prima è innanzi tutto di natura biografica visto che Luca, uno dei protagonisti, è originario di Mestre, ed è stato personalmente coinvolto nella battaglia sul petrolchimico. In secondo luogo si ritiene che una vicenda così agghiacciante, con la conclusione processuale che ha avuto, debba rimanere viva nella memoria di tutti. Infine si è ritenuto necessario introdurre una riflessione solo in apparenza digressiva rispetto al tema centrale del film: il lavoro è un valore assoluto da perseguire ad ogni costo e con qualunque mezzo? Anche a discapito della salute dei lavoratori, della salute delle comunità che vivono nei territori interessati, della distruzione dell’ambiente? È un interrogativo, questo, che risulta di vitale importanza anche alla luce di una indagine più articolata sul modo del lavoro, come quella affrontata in questo documentario32.

32 Rita Martufi, op. cit.

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2.11 Capitolo settimo: FUTURO

Il nuovo ed ultimo capitolo si intitola FUTURO ed è aperto da Antonio, che parla dei rapporti interpersonali resi complicati dalla sua condizione lavorativa atipica. Approfondisce la questione raccontando di sé che lavora di sabato e domenica, e della sua compagna che invece lavora durante la settimana: in questa situazione diventa impossibile pensare di costruire qualcosa insieme, di formare una famiglia. Tutta la sequenza è costruita attraverso il classico primo piano e un brano musicale già riproposto in precedenza, questo proseguirà a volume altrettanto basso per il resto del capitolo.

Nell’intervento subito successivo Luca esordisce affermando che nessuno dovrebbe fare l’interinale a vita, perché un impiego di quel tipo non permette assolutamente di poter progettare qualsiasi cosa per il proprio futuro. Secondo lui un lavoro da interinale può essere adatto se limitato ad un periodo circoscritto della propria vita, in attesa magari di altre opportunità; Luca conclude proponendo di denominare l’impiego interinale “lavoro in attesa” anziché “lavoro in affitto”.

Segue Alessia, ripresa in esterno giorno a mezzo busto, con una panorama urbano alle spalle: lei rivela di non volersi porre domande circa il suo futuro, continua spiegando di avere avuto da poco il suo primo figlio e questo ovviamente esplicita una fiducia di fondo che sa di avere, ma che troppo spesso sente come bendata. Prosegue ammettendo di chiedersi alle volte se non è stata una irresponsabile ad avere messo al modo un bambino senza avere alcuna certezza per il domani, visto che sia lei che il suo compagno sono precari. A questo punto l’inquadratura comincia lentamente a stringersi sul volto di Alessia che dice di essersi presa la libertà di pensare per conto di suo figlio che tutto andrà bene, ma nella realtà non ha alcuna garanzia del genere. Conclude il suo intervento affermando, con la voce rotta dalla preoccupazione, che i punti interrogativi sul suo futuro la terrorizzano, malgrado tutta la sua buona volontà di

58 adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro, e di arricchire le proprie competenze e professionalità.

Si prosegue con l’intervento di Giovanna che racconta di trovarsi spesso a immaginare il proprio futuro e non esclude la possibilità di potersi trovare anche a vivere per strada: il suo lavoro la fa entrare in contatto con persone con i suoi stessi percorsi formativi e lavorativi, e che per una serie di circostanze si ritrovano senza lavoro, senza casa, senza il sostegno della famiglia e sono costretti a vivere per strada.

Ritorniamo poi ad Alessia che finalmente ci presenta suo figlio Dario di tre mesi, che lei tiene sulle ginocchia stando seduta sul letto; l’inquadratura è un campo medio che include una porzione della stanza in cui vediamo anche un gioco molto voluminoso del bambino e sulla destra la sua culla. Lei ci dice che, per quanto riguarda il futuro di suo figlio, si augura che diventi una persona determinata, che abbia coraggio e forza d’animo, perché senza queste qualità, precisa lei, oggi non si riesce proprio a vivere. Alessia conclude rivelando che quando pensa al futuro di suo figlio, ma anche al proprio, in lei si sostituisce alla fiducia e alla gioia di vivere che la ha sempre accompagnata, una cupezza e un senso di depressione che vorrebbe non avere e che deriva probabilmente dall’insofferenza verso la sua condizione lavorativa.

L’ultimo intervento di questo capitolo di congedo ha come protagonista Antonio, con lo stesso sorriso solare che lo ha accompagnato per tutto il film, confessa di non essere mai riuscito a vedere il proprio futuro, e precisa: “Non riesco mai ad andare oltre, vedo sempre nero!” Nel pronunciare questa frase Antonio compie un gesto con la mano destra a mimare un muro che gli si para davanti agli occhi, a seguire con precisione questo suo cenno cala dal margine superiore dell’inquadratura una tendina nera aggiunta in post-produzione. La voce di Antonio conclude la frase quando l’immagine è gia completamente nera, subito dopo compare sullo schermo il titolo Vite flessibili, che apre così la sezione dei titoli di coda.

59 La dinamica adottata per la chiusura del capitolo è inconsueta e ripropone la solita ironia, proprio a volere allentare la tensione emotiva, dovuta alla drammaticità dell’impotenza di questi giovani precari di fronte al futuro. Mai nel documentario è stato reso un messaggio inerme ed esclusivamente negativo: si è sensibilizzato lo spettatore anche scavando nella quotidianità complessa dei protagonisti, ma sempre per tentare di suggerire una presa di coscienza ed una reazione positiva verso il cambiamento, anche attraverso il sarcasmo.