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Introduzione al documentario: otto storie di flessibil

L’uomo flessibile di Stefano Consiglio

4.1 Introduzione al documentario: otto storie di flessibil

Stefano Consiglio, romano, è uno dei documentaristi italiani più prolifici con alle spalle importanti esperienze cinematografiche e televisive; nel 2003 realizza L’uomo flessibile, non esaurendo però il suo interesse per il mondo del lavoro ribadito nel 2004 con Appunti per un film sulla lotta di Melfi: un documentario che riflette sulle ragioni della protesta degli operai della Fiat di Melfi.

L’ispirazione per il tema de L’uomo flessibile nasce da un articolo letto sulla rivista “L’internazionale”, dove si raccontava della trasformazione subita dalla cittadina di Wolfsburg, dove è situata la sede centrale della Volskwagen, dopo l’introduzione in larga scala del lavoro flessibile. Da qui è immediata la volontà di raccogliere storie italiane per indagare e documentare lo stesso cambiamento53. Stefano Consiglio finisce così con l’affrontare con coscienza intellettuale il punto dolente della flessibilità: i costi che l’essere umano è costretto a pagare di persona in termini economici, sociali, fisici.

L’uomo flessibile racconta otto storie di lavoratori più o meno flessibili

sparsi per tutta Italia: i protagonisti parlano delle loro personali esperienze, e così facendo affrontano capillarmente le implicazioni più gravi del mondo del lavoro post-fordista. Si riescono in tal modo ad affrontare quei temi che solo oggi

97 cominciano ad essere sondati da sociologi ed economisti, per studiare un fenomeno così invadente, degenerativo e aggressivo come la flessibilità.

Alle storie sono riservati tempi e modi di rappresentazione dedicati e ogni volta diversi, che sembrano seguire e dare sfogo spontaneamente alle loro potenzialità. Si intende a mio avviso fornire ad ogni personaggio i mezzi di espressione di cui necessita, non abbandonandosi al tentativo di uniformare le diverse situazioni. Si passa così da una messa in quadro essenziale e rigorosa, limitata ad un primo piano geometricamente inquadrato, alla costruzione di una sequenza complessa, costruita tramite interventi dissimili e contenuti multiformi. Eppure Stefano Consiglio sembra cercare in ogni volto e nella sua gestualità un significato più profondo, intimamente scavato dall’esperienza, che comunichi sottilmente emozioni54. Sono infatti emblematici alcuni dei visi scelti, essi inspiegabilmente colpiscono istituendo un’affezione e una complicità uniche: non si dimenticano i volti di Marco, Valeria e di Andrea il ragazzo che lamenta la mancanza di solidarietà. In sostanza queste storie paiono comunicarci molto di più di quello che effettivamente raccontano, riuscendo in maniera sofisticata e impalpabile a raggiungere lo spettatore per mezzo di un percorso tutto emozionale.

La prima testimonianza è quella di Luca, un operaio del nord-est che decide assieme alla moglie di fare turni opposti l’uno con l’altro per poter seguire alternativamente i figli: rinunciando così a dormire, mangiare, vivere insieme. Suo figlio Marco, con gli occhi come due spilli neri, comprende il peso della scelta fatta dai propri genitori, avendo già chiara ad undici anni la fatica del lavoro. Incontriamo poi Raffaele, vedovo con un figlio da crescere, che ha ben compreso come il lavoro debba essere un mezzo per vivere e non può ridurre l’uomo ad un robot, costringendolo a rinunciare anche alla propria identità spirituale. Lo segue Andrea, un giovane lavoratore che, ripreso in un primo piano

98 drammatico, lamenta la totale solitudine con cui ormai ognuno è costretto a vivere la propria condizione lavorativa, senza sperare di trovare appoggio in alcuna solidarietà di classe: valori a questo punto del tutto consumati dalla flessibilità. A Catania incontriamo Valeria, una giovanissima studentessa universitaria che da anni studia di giorno e lavora di notte, ma non può permettersi di progettare niente non avendo ancora la sicurezza di riuscire a costruire per sè un futuro solido. Sergio fa l’operatore socio-sanitario, ma non riesce a riconoscersi una identità lavorativa, perchè costretto regolarmente a reinventarsi professionalmente; lui ama questo lavoro che però non può considerare suo, rivelandosi sempre più difficile investire così tanto della propria vita su un aspetto talmente mutevole di essa. Ancora a Catania ascoltiamo Giuseppe, un ingegnere elettronico che accetta la flessibilità mettendo in gioco il suo spirito di adattabilità, e segue geograficamente la propria crescita professionale, ma oggi si ritrova a scontare tutti i rischi di quella scelta. Di seguito Vittore, rampante manager nella Milano degli anni ottanta, spiega che oggi a 51 anni sul mercato del lavoro sei un morto che cammina e rimpiange lo sbaglio di avere sempre lottato da solo. Infine Franco ci racconta la sua vita di operaio metalmeccanico alla Fiat di Melfi, e dei seicento chilometri che deve percorrere ogni giorno per recarsi al lavoro. Malgrado i sacrifici è fermo nella volontà di continuare a rimanere nel proprio paese che rischia lo spopolamento, con la voglia di non vederlo morire.

A integrare ogni storia con l’altra, contrappuntandole e dissacrandole, sono state inserite alcune scene con protagonista Antonio Albanese che interpreta vari estratti dal Diario postumo di un flessibile di Luciano Gallino. Albanese si istituisce cosi “uomo flessibile” per antonomasia, protagonista ideale del film.

Il documentario è strutturato in otto sezioni principali in cui ogni storia viene affrontata in un'unica tranche; gli interventi di Albanese invece si sviluppano liberamente, inserendosi nelle interviste oppure separandone una dall’altra.

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4.2 La dimensione narrativa: Diario postumo di un flessibile di

Luciano Gallino

Luciano Gallino è ordinario di Sociologia presso l’Università di Torino, e autore negli ultimi anni di molti volumi che promuovono una riflessione profonda e urgente sulla flessibilità e sugli oneri umani, sociali ed economici che essa comporta. Gallino è inoltre attivo collaboratore del quotidiano “La Repubblica”, su cui è stato pubblicato nel febbraio 2002 anche Diario postumo di

un flessibile.

L’articolo consiste in una breve relazione di ambito storico ambientata in un ipotetico futuro molto distante, in cui la nostra civiltà risulta completamente estinta, e gli storici dell’epoca cercano di comprendere la dinamica del suo rapido declino. La scoperta del diario di un individuo sconosciuto, vissuto nei primi decenni dell’epoca, fa però compiere un notevole passo avanti negli studi storici sulla civiltà italica del terzo millennio. Il diario viene ritenuto l’opera di un “uomo flessibile”, categoria per certo numerosa a quei tempi; si precisa però che i ricercatori ancora non sono riusciti ad appurare se la Flessibilità all’epoca fosse creduta essere spirito, sostanza, persona, archetipo collettivo o logo pubblicitario. Nel testo si riportano poi alcuni estratti del diario di questo individuo, che appunto pare praticasse per convinzione o per obbligo tale culto. Gli estratti del diario sono una dozzina, datati tra il 2001 e il 2022; riferiscono una profonda instabilità professionale, la crisi di identità, l’assenza di sicurezza economica, la perdita del diritto d’acquisto, la difficoltà invecchiando di continuare a riciclarsi nel mondo del lavoro. In chiusura alla relazione un ultimo commento spiega che gli storici ipotizzano, sulla base di questo ultimo ritrovamento, che il culto della Flessibilità abbia avuto un peso non lieve nel declino della civiltà italica, distraendo ipnoticamente le masse da ogni altro fine esistenziale.

Il testo è assolutamente dissacrante, denunciando la totale assenza di una riflessione socio-politica e tanto meno di una presa di posizione forte in merito

100 alla flessibilità, finora sottovalutata come la lamentela di una classe lavoratrice svogliata. Tuttavia la forza dell’articolo di Gallino viene modificata e rivista da Stefano Consiglio, che decide di mettere in scena il lavoratore flessibile autore del diario. Eliminando la cornice del ritrovamento nel futuro, i brani divengono sfoghi personali dell’uomo flessibile che parla di sé, e sembra confidarsi con lo spettatore. In tal modo quelle vicende raccontate in prima persona acquistano in un certo senso valore universale, coincidendo e integrandosi spesso e volentieri con le esperienze reali raccontate dai protagonisti del documentario. I brani del diario che si decide di citare hanno sempre forti connessioni tematiche con le vicende dei protagonisti, anticipando o precisando questioni affrontate nelle interviste; tali associazioni sovvertono spesso l’ordine originale degli estratti proposti. Certamente il taglio polemico del testo originario viene accantonato, ma rimpiazzato in modo originale dalla componente umana e artistica di Antonio Albanese; attraverso l’interpretazione di questo personaggio si toccano con finezza inconsueta livelli altissimi di significato intrinseco alla rappresentazione.

Concludendo è importante non sottovalutare l’intenzionalità con cui in un contesto documentaristico come questo, e quindi affine alla realtà e suo ricettore, si scelga di introdurre materiali di invenzione e un registro narrativo costruito attraverso la recitazione; la riflessione sulla realtà viene così per un verso inquinata e per l’altro arricchita dalla fiction. L’uso di un regime di rappresentazione misto come questo è ormai del tutto comune, soprattutto per lavori che recano in sè la ricerca di una dimensione più artistica55. Tuttavia questo caso in particolare si rivela ancora più complesso: perché in definitiva alla invenzione narrativa di Luciano Gallino se ne aggiunge un’altra di natura cinematografica, che elegge a personaggio l’autore dei diari e lo colloca in uno spazio-tempo quasi mentale, parallelo alle testimonianze reali, ma altrove.

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4.3 Antonio Albanese interpreta l’uomo flessibile

Antonio Albanese si forma alla scuola d’Arte Drammatica Paolo Grassi di Milano dedicandosi, da diplomato, alla recitazione comica esibendosi in teatri di cabaret; col debutto televisivo consegue subito grande successo di pubblico che si consacra con la popolarità dei suoi personaggi più noti. La carriera di Albanese rimane comunque divisa tra televisione, teatro e cinema, dove oltre a importanti partecipazioni come attore, compie anche alcune felici esperienze da regista e sceneggiatore.

La scelta di Albanese per impersonare l’uomo flessibile, ipotetico autore dei diari, pare azzeccata: infatti con la sua fisicità poliedrica, ma di base normodotata abbraccia emblematicamente la rappresentazione del lavoratore medio. Le doti attoriali di Albanese, che eravamo abituati a cogliere nella gestualità esasperata dei suoi personaggi qui invece si esplicitano in maniera ancora più evidente, proprio nell’uso di modi naturalissimi, ma allo stesso tempo ricchi di significati specifici.

Innanzi tutto occorre sottolineare il lavoro di riflessione e interpretazione che l’attore ha dovuto necessariamente affrontare per estrapolare, da un testo come quello di Gallino, la caratterizzazione di un personaggio, e di seguito orientarlo al suo ruolo nel film. Alcuni brandelli del diario, scritto oltretutto con toni molto spogli e minimali, si costituiscono così come base per la costruzione di un personaggio, che arriverà a usare quel testo di origine come racconto di sé, una confidenza rivolta direttamente al pubblico; con lo stesso tono con cui si confiderebbe con un conoscente, egli si apre allo spettatore in un monologo personale e sentito.

Albanese costruisce un personaggio riccamente definito in una stratificazione caratteriale che emerge nei vari interventi: si dimostra profondamente ottimista, pacato e forse un po’ ebete, incapace di leggere i segni che le situazioni gli inviano. Ma ciò che risulta ancor più rilevante è che l’attore

102 sa dotare il suo personaggio di una mimica inequivocabilmente eloquente, che lo rende vivo, tangibile, vero; non meno interessante poi risulta l’efficacia con cui Albanese sa interagire attivamente con l’ambiente profilmico.

Viene scelto per l’ambientazione un luogo fortemente simbolico, uno scalo merci ferroviario: crocevia di uomini, cose, beni da spedire e scambiare, che inevitabilmente richiama il destino dei lavoratori flessibili continuamente costretti a scendere da un treno per ricorrerne un altro. Qui la presenza umana solitaria risulterebbe spaurita a schiacciata da quella atmosfera, invece la fisicità attoriale di Albanese, costruita anche sullo scambio continuo con lo spazio profilmico56, riesce a convertire l’ambiente rendendolo comune, ovvio: il più opportuno possibile per scambiare confidenze, come potrebbe risultare un bar.