• Non ci sono risultati.

Le conclusioni di Benta

Invisibili di Tania Pedron

3.7 Le conclusioni di Benta

L’ennesimo stacco netto ci conduce all’ultima sezione del documentario; questa si apre con alcune scene della vita familiare di Benta ripresa in casa col marito e la figlia mentre conversano, e tutti insieme scelgono il nome per il bambino in arrivo. Le inquadrature sono molto varie e dinamiche, sfruttando al massimo la mobilità della camera a mano, e soffermandosi in maniera evidente su Aurora mentre gioca, canta e scherza con i genitori. Si guadagna in questa scena una sensazione di tranquillità e fiducia manifesta; rispetto al contesto precedente questo quadretto familiare perfetto sembra accogliere lo spettatore nel suo calore, sollevandolo dalla pesantezza delle riflessioni condotte sinora.

Successivamente viene proposta un’altra tranche di intervista a Benta, dove in un primissimo piano spiega quanto si senta effettivamente padrona della propria vita. L’inquadratura così stretta sul suo volto accentua in un certo modo il

91 valore personale, quasi di confidenza, delle sue parole. Inoltre anche in questo caso la camera non rinuncia alla sua mobilità e immediatezza, indugiando molto sulle espressioni del viso della protagonista. L’intervento è diviso in due parti principali a loro volta costellate da immagini che ritraggono la bambina mentre gioca e scherza col padre; colpiscono ancora una volta i sorrisi e gli occhi vispi di Aurora, ritratta con particolare sensibilità. Così la riflessione di Benta si sviluppa e acquista valore convivendo in simbiosi con le immagini della propria famiglia, colta nella sua più intima naturalezza.

La protagonista non ha dubbi nel ritenersi padrona della propria vita per quello che concerne la sfera privata, mentre pensando al lavoro si illude di esserlo, anche se nella realtà la questione dipende da molti altri fattori. Precisa che in questo senso tenta anche di sollevarsi con un certo ottimismo, a suo dire necessario, per non precipitare nell’ossessione del futuro: secondo lei bisognerebbe cercare di vivere in certa misura giorno per giorno.

Benta continua ammettendo che oggi, per sentirsi padrona della propria vita, diventa sempre più importante il fattore economico: infatti da quando ha una famiglia l’elemento retributivo è oramai fondamentale per l’impiego che andrà a svolgere, ogni giorno di più va a lavorare per i soldi. La protagonista si dice ancor più convinta che nessuno dovrebbe lavorare gratis, perché nessuno vale niente, e allo stesso modo anche il lavoro che facciamo ha valore e deve essere adeguatamente retribuito. Benta si rende perfettamente conto di avere maturato questa consapevolezza soltanto dopo la maternità, ponendo in secondo piano questioni meno pratiche e forse più affascinanti come la ricerca della sola “esperienza” e della “crescita” nel lavoro.

Annunciata dalla musica che si avvia in anticipo sulla chiusura della sequenza precedente, viene inserita a questo punto l’ultima delle parentesi visionarie del documentario. Il brano musicale di accompagnamento comincia con un suono simile ad un carillon, ma successivamente si sviluppa in una cadenza di stile uniforme alle canzoni precedenti.

92 La parentesi parte con un campo lungo a inquadrare lo scorcio di una strada di notte, con le macchine che passano veloci e su cui incombe, occupando metà dell’immagine, un enorme cartellone pubblicitario. Si stagliano contro il cielo di un blu scuro e intenso le luci multiformi dei lampioni e delle auto, e a compensare il loro scorrere invadente in un equilibrio perfetto è posto il neon del cartellone pubblicitario. L’inquadratura è tenuta per un tempo molto lungo, e nell’insieme trasmette un certo senso di immobilità, malgrado lo scorrere del traffico. Seguono al contrario immagini iper-popolate di persone riprese da una telecamera immobile, che placidamente le guarda passare: osserviamo la gente andare e venire scambiandosi, poi nell’inquadratura subito successiva salire e scendere una scalinata inquadrata frontalmente.

In quel continuo passaggio di persone non si riesce a distinguere il singolo, che viene annientato e uniformato al gruppo, a una massa omogeneamente irriconoscibile, invisibile. Tentando l’ennesimo collegamento col titolo del documentario si potrebbe ipotizzare che queste immagini piene di persone vogliono in qualche modo identificare l’invisibilità dei protagonisti, persi anch’essi in quella massa uniforme: nascosti e indistinguibili, uniti a chissà quanti altri flessibili, precari, atipici, cassintegrati.

A seguire è riproposto un ultimo quadretto familiare, dove si mostra Benta con Aurora appena sveglia ancora nel suo lettino; la scena è trattata con una lunga inquadratura fissa, che in chiusura si strige sul volto della bambina. Il dialogo tra madre e figlia è molto affettuoso e ricco di complicità, esso sembra caratterizzarsi come emblema assoluto della maternità, nella sua accezione più larga: per mezzo di questa breve scena si esplicita in un certo senso quella spinta che ha fatto cambiare Benta, portandola a diventare “una leonessa” come dice lei stessa.

Il documentario prosegue con l’ultimo intervento della protagonista, che in un primissimo piano riflette su ciò che lei definisce la “sindrome da super woman”. Benta dice di sentirsi in colpa quando per un certo periodo di tempo

93 non lavora: questo perché aldilà del discorso economico oggi fare la casalinga è percepito ormai come una patologia; lei in tale situazione non sa cosa fare del proprio tempo, e si sente inutile se per una volta non è indaffaratissima e agitata. Benta precisa che la sua percezione di autonomia e di forza derivano in gran parte dalla sua possibilità di riuscire a combinare insieme mille aspetti della propria vita, e dalla capacità di gestire contemporaneamente tante situazioni diverse. La protagonista conclude ammettendo che questo atteggiamento è una tara generazionale, che ci spinge a voler/dover dimostrare di essere iper-attivi, mentre sarebbe importante riuscire a vivere meglio il proprio tempo.

A questo punto il documentario sembra scivolare naturalmente verso una nuova immagine di Aurora, ripresa nella penombra della sua cameretta mentre gioca con una bambola azionando di continuo il meccanismo che le fa cantare una filastrocca. La canzone continua a ripetersi anche col sopraggiungere dei titoli di coda, accompagnandoli per qualche schermata e lasciando solo successivamente spazio ad un nuovo brano musicale più avvolgente e movimentato.

Attraverso le immagini di Aurora si cerca una conclusione ideale alla riflessione di Benta, che ha occupato interamente questa ultima sezione del documentario, e dove la protagonista parlando di se, del proprio rapporto col lavoro e con la flessibilità ha tirato continuamente in ballo la sua condizione di madre. La maternità ha plasmato, formato e fortificato il carattere di Benta, che ha maturato di conseguenza nuovi valori.

La telecamera riesce a cogliere immagini dolcissime della bambina, che però non risultano completamente gioiose, ma velate da una sottile malinconia, forse alimentata anche dalla voce della bambola che solca con freddezza meccanica il silenzio assoluto. Come succedeva per le parentesi di sole immagini anche in questo caso la scena è pervasa da una sensazione particolare: a metà tra la malinconia e l’indolenza di una osservazione inerme.

94 In definitiva con questo finale non si conquista alcuna posizione risolutiva: restano aperti tutti i dubbi che via via si sono manifestati nel documentario. E’ resa esplicita l’impossibilità di dare risposte, soluzioni, vie di fuga, e risulta oltremodo eloquente l’afflizione per un futuro altrettanto sofferto. Il documentario che si era costituito come voce e momento di visibilità per queste realtà sottostimate e nascoste, ha a questo punto assolto il suo compito, senza la possibilità di andare oltre uno sguardo.

3.8 Conclusioni

Con uno sguardo attento e sensibile Tania Pedroni ci riferisce uno spaccato delle trasformazioni subite mercato del lavoro, viste attraverso le strategie di attraversamento, di adattamento e di resistenza che donne di differenti età e percorsi mettono in atto. Tutte le protagoniste affrontano con forza il complesso rapporto fra lavoro, costruzione della propria identità e narrazione di sé, ma gli stati d’animo che trapelano dal documentario sono comunque di smarrimento, confusione, frustrazione, stanchezza, solitudine, sensazione di non possedere il proprio tempo. Quello che più colpisce delle storie raccontate è che le donne protagoniste sono persone normali, comuni, ma con esperienze molto diverse e che conducono vite altrettanto distanti, tuttavia ognuna di loro sembra muoversi nella stessa solitudine condividendo un peso gravemente oneroso. E’ come se questa fosse una condizione generalizzata: una infelicità condizionata dagli obblighi che vivono sui luoghi di lavoro, e che le conducono allo straniamento e alla fatica per riuscire a sentirsi considerate prima di tutto come persone, con un’attenzione ai bisogni delle loro vite. Quello che emerge e colpisce del documentario è proprio questa solitudine e disorientamento, ma anche e soprattutto la forza con cui ognuna di quelle donne

95 tenta di costruire un equilibrio, che risulta difficilissimo e il cui peso è tutto sulle loro spalle52.

Sembra definirsi in maniera oltremodo interessante e particolare il rapporto che l’autrice, in quanto istanza rappresentativa, istituisce con le protagoniste, soprattutto con Giusi, Sonia e Benta. La Pedroni invade placidamente i loro spazzi, la loro vita domestica e privata, per rappresentarne disagio e le ripercussioni quotidiane, identitarie e anche etiche; tuttavia questa “violenza” avviene con evidente complicità, coinvolgimento e attenzione reciproca. Così si ricorre molto spesso a scene di vita familiare, in certi casi nemmeno direttamente utili per l’economia del documentario, ma che contribuiscono profondamente nell’insieme del profilo del personaggio a conoscerlo e rappresentarlo.

Invisibili inoltre è fortemente caratterizzato dalle incursioni di immagini

intensamente riflessive e particolari, che si costituiscono come pause al racconto vero e proprio. Attraverso di esse il film amplifica le sue potenzialità di coinvolgimento anche emotivo; oltre a ciò tali accorgimenti danno prova, in senso estetico e formale, di particolare sensibilità e della volontà di sperimentare e sfruttare creativamente il potere comunicativo di quelle particolarissime immagini.

Infine per una riflessione formale occorre rilevare una certa libertà nella costruzione della messa in quadro relativamente ai primi piani, dove i volti e i dettagli delle protagoniste si muovono irregolarmente all’interno dell’inquadratura, in certi casi addirittura sfuggendole. Questa scelta si sviluppa di pari passo alla volontà di preferire la camera a mano e un’agilità più marcata delle inquadrature, che in certi casi propongono movimenti di macchina arditi e ricercati.

52 www.riminimpiego.it

96