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CAPITOLO TERZO – L’AMORE DI DANTE E BEATRICE

III.6 La Caritas cristiana

La Caritas non è un amore umano, per lo meno nel senso che trascende l’inevitabile individualismo insito in qualsiasi forma di relazione umana. Esso è amore per Dio. Ed è di questo amore che Dante parla nella Vita nova, sebbene, ad una prima lettura, il suo significato non sia del tutto evidente. Le parole di Dante del canto XXIV del Purgatorio con le quali spiega all’anima di Bonagiunta l’ispirazione poetica riecheggiano la definizione di amore di un mistico del XII secolo, frate Ivo:

In che modo può parlare dell’amore chi non ama, chi non sente la violenza d’amore? Di altri argomenti si trova nei libri un vasto materiale, ma quella dell’amore o è tutta all’interno del cuore o non è in nessun luogo, perché essa non trasferisce i segreti della sua dolcezza dall’esterno all’interno, ma viceversa dall’interno all’esterno. Pertanto di tali segreti può parlare degnamente soltanto colui che, secondo quel che gli detta dentro il suo cuore, mette assieme le sue parole. Quello vorrei ascoltare che avesse intinto la penna della lingua nel sangue del cuore, perché allora è verace e veneranda dottrina quando la lingua dice ciò che la coscienza detta, l’amore suggerisce e lo spirito elabora.69

L’ispirazione d’amore, dunque. È tema centrale della Vita nova in cui, più del Dante teoreta, emerge il Dante poeta ispirato, che sta ancora muovendo i primi passi nel mondo della filosofia. Ma Dante ha letto Agostino e non ignora la sua interpretazione cristiana del concetto di amore, di Agape, che abbiamo già illustrato. Ed è a tale concetto che Dante si riferisce quando delinea la più alta e sublime forma di amore. La Vita nova, infatti, non parla di un amore profano, sebbene i protagonisti siano un uomo e una donna. Ciò emerge immediatamente dalla descrizione di Beatrice: un angelo che appartiene al Cielo e che solo per un breve tempo viene sottratto al suo luogo natio per concedere agli uomini la salvezza. Il nome stesso della donna, Beatrice, significa “colei che dà la beatitudine”, secondo il principio che «nomina sunt consequentia rerum», così come l’epiteto con cui viene molto spesso indicata è “gentilissima”, cioè nobilissima per antonomasia. Anche l’elemento

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fondamentale del libello, la morte della donna, non segna l’epilogo della narrazione ma solo una svolta perché Beatrice, essendo angelo, non può morire e continua a vivere in paradiso, restando l’oggetto d’amore del poeta, nonostante un breve tralignamento per un’altra «gentile donna». L’amore che il poeta sperimenta è cioè un amore perfetto in quanto si conserva inalterato a prescindere dalla morte dell’oggetto amato, che ha sempre rappresentato il fatto decisivo per la fine delle relazioni amorose. La grande novità apportata dalla poesia di Dante sta nell’aver sormontato anche questo impedimento: la contemplazione dell’anima dell’amata, anzi, ne esce rafforzata e potenziata. È dunque un itinerario cristiano quello del poeta, della sua Caritas che prende le sembianze dell’amore per Beatrice.

Secondo il parere di Nygren, la dottrina medievale dell’amore può essere spiegata solo con una esauriente esposizione della concezione etica e religiosa del Medioevo, essendo i tre fattori (amore, etica e religione) strettamente connessi. In questo quadro, il teologo individua nella figura di Dante e nella sua opera l’esempio più calzante atto a spiegare questo rapporto. Ne riportiamo di seguito il passo, reputandolo estremamente illuminante e chiarificatore ai fini della nostra trattazione:

Questo atteggiamento spirituale ha trovato la sua espressione più toccante ed efficace nella Divina

Commedia di Dante. In essa incontriamo la tipica visione religiosa del mondo propria del

Medioevo con il suo concetto della scala e la sua tensione verso l’alto. Il mondo interno nelle sue tre parti principali - cielo, terra (col purgatorio) e inferno – è costruito su una infinità di gradi. Con Dante attraversiamo questi gradi dal più profondo dell’inferno, dove il principe dell’abisso maciulla eternamente con le sue tre mascelle i tre grandi traditori, Giuda Iscariota, Bruto e Cassio, fino al sommo dei cieli, dove troneggia la Trinità stessa in una luce inaccessibile ai sensi ed al pensiero. Il viaggio attraverso l’inferno avviene soprattutto per informarci anche su questa parte del mondo, e non può essere considerato una tappa nel cammino della salvezza, che inizia propriamente dal purgatorio e dalla ascensione sulla montagna della purificazione. L’anima, dopo avere salito con grande fatica, attraverso una infinità di gradi, le sette cornici ed essere stata purificata in ognuna di esse da uno dei sette peccati mortali, raggiunge infine sulla cima del monte il paradiso terrestre, da cui gli uomini furono cacciati a causa dei loro peccati. Ma quando l’anima

ha percorso il purgatorio, il peccato è abolito; l’anima è di nuovo pura e santa, pronta a salire alle stelle del cielo, per contemplare Dio nel suo splendore e nella sua magnificenza. Ma che cosa solleva e porta l’anima in questa ascensione? Dante, per spiegarlo, ricorre alla legge di gravitazione spirituale, all’ordine che tiene insieme tutte le cose dell’universo, di cui hanno parlato Proclo e Dionigi l’Aeropagita. Tutto nell’esistenza tende a tornare alla sua origine; come il fuoco è tratto dalla propria natura verso l’alto, lo spirito umano è attratto da Dio:

E ora lì, come a sito decreto, cen porta la virtù di quella corda che ciò che scocca drizza in segno lieto.

A causa del suo libero arbitrio l’anima, traviata da un falso piacere, può deflettere dalla via che le è stata prescritta e volgere al basso i suoi desideri. Ma questo non cambia il fatto che l’anima per natura deve innalzarsi a Dio. Come è naturale per il fiume scorrere dal monte a valle, così è naturale per lo spirito purificato elevarsi al mondo celeste. Se l’anima, libera da ogni impedimento estraneo, rimanesse sulla terra, questo sarebbe strano come, sulla terra, l’immobilità del fuoco. Oltre a idee di Proclo e di Dionigi l’Aeropagita, ritroviamo in questa immagine una quantità di concetti desunti dalla tradizione precedente, ad es. l’idea agostiniana che l’anima posseduta dalla

caritas sia tratta verso l’alto, o il concetto di Gregorio Nisseno della fiamma che si eleva e della

freccia dell’eros e dell’agape scoccata verso il bersaglio celeste. Quando Dante giunge sulla cima del monte del purgatorio, ossia al paradiso terrestre, non ha compiuto ancora che la metà del cammino. Portato dalla legge di gravitazione spirituale di cui abbiamo parlato, egli prosegue la sua ascesa che ora si configura come una vera e propria ascensione attraverso i cieli. Di sfera in sfera il suo viaggio lo conduce di beatitudine in beatitudine. Sotto la guida di Beatrice egli si innalza con le ali dell’anima alle diverse sfere dei pianeti, e nella più elevata di esse, nella sfera di Saturno, si erge ai suoi occhi la scala di Giacobbe scintillante come l’oro, su cui si librano spiriti beati come una schiera di infinite fiamme di luce: i monaci e gli eremiti che nella contemplazione celeste si elevano al trono di Dio. Egli li segue e attraverso il cielo delle stelle fisse e il cielo cristallino giunge al cielo di Dio stesso (Empireo) , dove la Trinità troneggia in un infinito oceano di luce, circondata dai Beati che sono ordinati intorno al trono di Dio in forma di una rosa con migliaia di petali e che contemplano e godono eternamente la bellezza divina. Con questa descrizione Dante non ha espresso soltanto una esperienza estatica soggettiva, ma ha voluto indicare quale sia il fine della vita umana: volgere le spalle alla realtà inferiore e sollevarsi al mondo celeste sulle ali d’aquila dell’amore, per roteare intorno alla divinità, origine e fine ultimo di tutte le cose.70

Apparentemente il passo riportato può sembrare slegato dall’opera giovanile, oggetto della nostra trattazione. Ma non dimentichiamo che nel finale della Vita nova Dante 70

ANDERS NYGREN, Eros e agape, Traduzione italiana di Nella Gay e introduzione di Franco Bolgiani, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 630-633

annuncia il capolavoro della Divina Commedia dicendo che in una visione ha visto «cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessi più degnamente trattare di lei»71: è la dichiarazione di un’opera di maggior impegno in cui rappresentare adeguatamente il pensiero che Dio è amore e che il bene è la capacità di innestare continuamente amore.

Il concetto di amore di Dante non è pura Agape e tanto meno puro Eros. Dalla prima il poeta desume l’idea di amore come dono della grazia divina, la virtù che permette l’accensione dell’amore nell’uomo e che può provenire solo da Dio, e cioè con un moto discensionale di Dio verso l’uomo mentre dalla seconda ricava l’idea di Dio come primo principio del moto universale.

Ecco come Heiler ha definito la situazione:

Come nel concetto di Dio di Agostino e dell’Aquinate, così anche nel pensiero del poeta fiorentino l’eros plotiniano si unisce alla primitiva agape cristiana in una meravigliosa armonia, in cui l’elemento mistico prende tuttavia il sopravento. Vertice supremo della piramide teologica è anche in Dante la delicata e sottile mistica di Plotino.72

71

DANTE ALIGHIERI, Vita nova, cit., p. 175 72