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CAPITOLO SECONDO – REDAZIONE E TRADIZIONE

II.2 Tradizione e fortuna dell’opera

Ci sono pervenuti quarantatré manoscritti contenenti la Vita nova. La tradizione è piuttosto tarda dal momento che i manoscritti più antichi risalgono alla metà del XIV secolo, e dunque sono posteriori all’autografo di almeno cinquanta anni. Nel 1932 Barbi curò l’edizione critica dell’opera (dopo una revisione della precedente del 1907) che, ancora oggi, costituisce quella di riferimento. Infatti, le edizioni critiche precedenti a quella di Barbi (Rajna, Witte, Casini, Beck) sono fondate su una recensio lacunosa e non sistematica. Barbi si è avvalso di quaranta manoscritti, di cui alcuni frammentari, purché l’ordine delle liriche fosse lo stesso di quello dei manoscritti completi, e ha dimostrato l’esistenza di un unico archetipo per tutta la tradizione, caratterizzato da tre errori sicuri. Da tale archetipo due subarchetipi α e β si diramano a loro volta in altrettanti rami, indicati rispettivamente da k, b e s, x.

Al ramo k appartiene il manoscritto K, databile intorno alla metà del XIV secolo (e dunque il più antico e attendibile) con una scrittura di tipo cancelleresco del “Cento” (probabilmente opera di un copista del contado fiorentino e di cultura non molto elevata); del ramo b fanno parte tutti i manoscritti derivanti da To, il codice trascritto da Giovanni Boccaccio attorno al 1355 il quale provvide a personalizzare il testo estraendo le “divisioni” per porle ai margini della pagina; al ramo s appartiene il manoscritto Strozziano, di proprietà della libreria del fiorentino Carlo di Tommaso Strozzi; il manoscritto è stato copiato attorno alla metà del XIV secolo da un fiorentino di modesta cultura e presenta un’ampia lacuna; infine il ramo x include il manoscritto Martelli, forse il più antico perché scritto entro la prima metà del XIV secolo da un copista proveniente dalla Toscana orientale o dall’Umbria. Secondo il metodo lachmanniano, se c’è accordo tra i due rami non sussistono problemi per la ricostruzione del testo, qualora invece essi siano

in contrasto nelle lezioni adiafore Barbi dichiara di seguire il ramo α se i criteri dell’usus

scribendi e della lectio difficilior lo permettono.

Nel ramo α, tuttavia, il testimone To va preso in considerazione con prudenza, dal momento che risente delle illazioni e dell’intervento attivo del suo autore (e così pure la tradizione boccaccesca che, in quanto descripta, non va considerata ai fini dello stemma). Per quanto concerne la veste formale, sono i manoscritti più antichi K, S, M e To a dare maggiori garanzie di fedeltà e, in particolare, K e S poiché M presenta forme tosco-umbre e To risente delle abitudini stilistiche del Boccaccio. Ma in realtà nemmeno le soluzioni di K e S hanno convinto Barbi, poiché ritenute troppo popolareggianti. Pertanto, egli decise di ricostruire le forme caso per caso, tenendo conto, ovviamente, dei manoscritti più antichi e dei testi del periodo coevo alla Vita nova gravitanti nell’area fiorentina.

Riguardo all’ortografia, Barbi ha preferito modernizzare le forme e le abitudini grafiche al fine di agevolare la lettura e la comprensione. Per la suddivisione in capitoli e paragrafi la struttura segue quella delle edizioni principali di Torri (1843) e di Casini (1885), mantiene cioè i quarantadue capitoli dell’opera. L’edizione di Guglielmo Gorni risale al 1996 ed è una revisione dell’edizione di Barbi da cui il filologo si è discostato nella scelta del titolo, della struttura interna e della veste formale e grafica. Il titolo è in latino e non in volgare come voleva Barbi, i capitoli sono ridotti a trentuno e la veste formale risponde a una operazione più metodologica di quella del predecessore. Gorni, infatti, lungi dal scegliere ogni caso singolarmente, si è affidato al buon senso della prassi filologica, secondo la quale è il testimone più vicino cronologicamente all’autore e proveniente da un’area geografica non distante dalla sua che ha più possibilità di essere fededegno all’archetipo. Pertanto per Gorni la scelta della veste formale doveva ricadere sul manoscritto K. Ma non potendo eludere l’evidente carattere popolareggiante del testo e

considerando l’esistenza di altri testi vicini cronologicamente al K, si è risolto, infine, per scegliere tra le forme in base alla maggioranza stemmatica.

Gorni, però, ha commesso un errore dal momento che il principio della maggioranza stemmatica è valido solo per scelte di sostanza e non per le varianti formali. La veste grafica prediletta di Gorni conserva le grafie dei cinque manoscritti di riferimento (come -

ct- per -tt-; -pt- per -tt-; -ti- per -zi-; -x- per -ss-; -ph- per -f-). Infine, assai controversa è la

questione relativa ai quattordici casi in cui k presenta una sovrabbondanza di alcune parole rispetto a b+β. Barbi aveva accolto otto di questi casi e ne aveva scartati sei mentre Gorni, per coerenza, ha eliminato tutte le lezioni di k.

Infine, recentemente è stata allestita una edizione della Vita nova a cura di Carrai. Non si tratta di una edizione critica del tutto rinnovata bensì di una revisione dell’edizione di Barbi. Il suo stemma e la maggioranza delle scelte delle varianti restano invariati mentre la forma è quella del manoscritto Chigiano (K) a cui si attiene anche nei quattordici casi sopracitati. Titolo e partizione in capitoli, invece, sono fedeli all’edizione di Gorni. Un punto di partenza invalicabile per la fortuna dell’opera è rappresentato da Boccaccio (sebbene dalla prospettiva della critica e della ricostruzione testuale si sia dimostrato alquanto carente). Sin dall'inizio, infatti, il libello giovanile ha risentito negativamente della fortuna della Commedia, che l’ha offuscarlo. Ad affossare la memoria della Vita nova contribuiva l’idea del libretto come un primo abbozzo ancora incerto e lacunoso della grandiosa architettura artistica e ideologica del poema.

É merito di Boccaccio l'avere insistito sulla realtà storica di Beatrice, contro le interpretazioni allegoriche e neoplatoniche che si rafforzeranno nei due secoli immediatamente seguenti, e di aver trasmesso questa persuasione ai primi commentatori della Commedia. Ma, nonostante ciò, l'influenza della Vita nova sulla poesia del Trecento è limitata alla Toscana e alle zone limitrofe dal momento che i temi dell'amata morta, della

fedeltà alla sua memoria e della problematica etico-religiosa dell'amore passeranno nella letteratura postuma filtrati dalla lirica petrarchesca e dai suoi moduli espressivi, lontani ormai dalla concezione intellettualistico-scolastica dell'amore. Lorenzo il Magnifico volle rilanciare la Vita nova facendola trascrivere per prima nella Raccolta aragonese, operazione di cui si può vedere il condizionamento nell'Arcadia di Sannazaro. Ma nel 1500 l'opera subisce un nuovo declino. La prima edizione della Vita nova compare solamente nel 1576, a Firenze, a cura di Carducci. È l’ultima delle opere di Dante ad essere stampata (per il Convivio la data è il 1490, per il De vulgari eloquentia il 1529 e per il De monarchia il 1559) anche se in un testo infedele e lacunoso.

Nel 1723 viene realizzata la seconda edizione a cura di Biscioni (basata su sette manoscritti) che è stata il testo di riferimento per le ristampe posteriori, prova del rinnovato interesse per il libello. Ad ogni modo, la fortuna dell’opera è risultata limitata fino al IX secolo, sia in Italia che nel resto d’Europa. Con l’avvento del Romanticismo, però, la Vita

nova ha iniziato a destare più interesse, sopratutto in Inghilterra e in America dove viene

ammirata da Coleridge e da Shelley e tradotta da Dante Gabriele Rossetti. Il culmine di questa fortuna si ha forse coi Preraffaeliti, responsabili tuttavia anche di una lettura decadentistico-estetizzante (e dunque deformante) del libro.

All'Ottocento inglese risale inoltre la divulgazione delle interpretazioni iniziatico-settarie, favorite da Rossetti, esule italiano ed erede del neoghibellinismo risorgimentale, responsabile di un interpretazione politicizzata dell’amore del poeta per Beatrice, letto come devozione alla causa imperiale (con la donna emblema della Monarchia). Per i critici di questa tendenza, che ebbe diffusione europea, la Vita nova è scritta in un gergo per iniziati, inteso a celare un contenuto eterodosso. Parallelamente si assiste a una sorta di l'interpretazione allegoristica: per Gietmann, Beatrice era la rappresentazione simbolica della Chiesa, per Perez, la figurazione dell'intelligenza attiva mentre a parte vanno

considerate le interpretazioni di Pascoli, anch'esse arbitrarie, ma fondate su una lettura approfondita, e non priva di spunti e suggestioni notevoli, del testi agostiniani.

Questi spunti interpretativi fanno parte della parabola del dantismo esoterico che, a tutt’oggi, non sembra ancora conclusa. Alla fine del IX secolo, dopo le sintesi geniali di De Sanctis e di Carducci, viene avviata un'analisi approfondita del libro. Il principio di tale ripresa si ha coi seguaci del metodo storico-filologico, da D'Ancona a Rajna a Del Lungo a D'Ovidio al Barbi, critici cosiddetti ‛realisti’, per la loro assunzione della realtà storica di Beatrice e della vicenda narrata nell'opera. Anche i critici cosiddetti ‛idealisti’, da Bartoli a Cesareo a Croce, pur insistendo sulla trasfigurazione fantastica operata dal libro nei confronti della realtà storico-biografica, apportano nuovi contributi ai fini della comprensione del testo. Con questi critici si definisce una problematica critica non estetizzante o mitologizzante, che è stata approfondita dagli interpreti posteriori. La discussione attuale, invece, mira ad un’analisi delle componenti culturali e letterarie della

Vita nova, in una prospettiva effettivamente storica, che sola può consentire una corretta