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Una Casa del popolo tra gli sfrattati: l’esperienza di Cà Emiliani a Venezia

1. Nel 1996-97 Piero Brunello e io, per conto dell’Etam-Animazione di Co-munità (un servizio del Comune di Venezia), abbiamo condotto una ricerca su Cà Emiliani a Marghera. Nella realtà e nell’immaginario di Mestre e Venezia, Cà Emiliani era ed è – benché ora meno – un quartiere spesso sulla cronaca dei giornali, che ne riportavano gli episodi di forte e spicciola criminalità o degrado urbano, ma anche le lotte o le pratiche di riscatto sociali e politiche.

In quel periodo, una parte consistente del quartiere stava per essere demo-lito per far posto al PIP, un’area artigianale-industriale di iniziativa pubblica. Perciò la zona era ormai quasi del tutto disabitata, molti edifici originari erano stati abbattuti e tra spazi incolti, discariche selvagge e accampamenti saltuari di zingari, con sullo sfondo ciminiere della contigua zona industriale di Porto Marghera, stavano ormai avanzando i primi capannoni del nuovo insediamento artigianale. Visitavamo un paesaggio ormai surreale, in cui si percepiva un forte senso di degrado e smobilitazione.

Durante le nostre escursioni, davanti a due piloni dell’alta tensione, isolato tra erbe molto alte, notammo subito un edificio squadrato a due piani, intonaco rosso mattone un po’ scrostato, tetto piatto, un balcone al centro e bandiere in-nalzate davanti: inglese, della Regione Veneto, della Germania preunificazione, due della comunità europea, una del Partito della rifondazione comunista e una con l’immagine del Che Guevara.

Era la Casa del popolo di Cà Emiliani, che lì tutti chiamavano «il Partito». Non ne avevamo mai sentito parlare pur abitando entrambi da sempre in questa città1. A piano terra era aperto un bar decadente, sulla mensola sopra il bancone campeggiava una falce e martello in bronzo stile anni Cinquanta, sulle pareti varie poesie tra cui una di Ferruccio Brugnaro, che parla di quel luogo come punto estremo di resistenza in quegli anni di trasformazioni sociali e politiche. Qualche avventore di una certa età stazionava all’interno e all’esterno.

Cono-* Associazione storiAmestre.

1. Una descrizione di com’era la Casa del popolo nel 1996 ora si può leggere anche su questo sito http://storiamestre.it/2005-2009/cittainvisibile/emiliani.php.

scemmo i due gestori, Anna e Armando, e così scoprimmo la storia dell’edificio, a quel tempo sede del Partito della rifondazione comunista. Avevano riaperto il locale da poco, dopo qualche anno di inattività e intendevano continuare a gestirlo come bar e luogo di ritrovo, anche in vista delle attività economiche che stavano per sorgere nella zona e che promettevano clientela. A un certo punto Anna ci tirò fuori anche una scatola di foto, che riproducevano momenti collettivi, gruppi in posa, attività di partito e poi alcune decine di fototessera di persone defunte (raccolte nel corso degli anni dalle epigrafi appese al bar).

Decidemmo di fare una mostra con quelle foto dentro il bar, per stimolare la memoria di quel luogo che inaspettatamente scoprimmo essere ancora fre-quentato anche da chi si era allontanato da tempo dal quartiere, nonostante il clima di degrado e di abbandono che lo circondava. Vi fu un’inaugurazione pubblica, con alcune autorità politiche, con una nutrita partecipazione.

2. La Casa del popolo si trovava entro i confini di quello che era il villaggio di Cà Emiliani, sorto nel 1934 come villaggio di casette ultraeconomiche per sfrattati. In quegli anni la questione degli sfratti era particolarmente forte. Il villaggio era sorto sopra un terreno marginale, sterile e soggetto ad alluvioni, dunque di valore inferiore rispetto ad altre zone precedentemente valutate. Si trovava in località Rana, una frazione all’estrema periferia del Comune di Venezia, con poche case agricole e una vecchia chiesetta, ai margini di barene lagunari e a una significativa distanza dal nucleo urbano di Marghera che era sorto da pochi anni, secondo un

progetto di città giardino (che poi fu stravolto) rivolto a chi era occupato nell’area industriale di Porto Marghera, e costruito proprio a ridosso delle fabbriche. Il vil-laggio comprendeva all’inizio 44 casette, a due o tre vani, per 88 nuclei familiari; nel 1940 fu ampliato con altri 12 edifici, e poi ancora durante la guerra con una ventina di baracche in legno costruite per gli sfollati dei bombardamenti.

Mentre le autorità, nei giornali dell’epoca, celebravano il villaggio come esempio di «redenzione urbanistica» e parlavano di case «sane e ridenti», «edifici spaziosi, asciutti, robusti» attorniati da «verdi distese», i primi abitanti, prove-nienti da Venezia e dal mestrino, ricordano invece la sensazione di isolamento, il fango e la desolazione della campagna che li circondava. Le loro descrizioni ri-chiamano il «villaggio degli esclusi» di Pietralata nel romanzo di Elsa Morante2 . Le «casette del Duce» – come venivano anche chiamate – in sostanza era-no costruzioni fatte al risparmio, costituite da un piaera-no terra con due alloggi abbinati, una muratura composta da forati di 8 cm, latrine esterne, fontanelle e lavatoi comuni, con uno spazio esterno di pertinenza, destinato a un orto familiare. Una relazione datata 7 novembre 1947, fatta avere al Ministero dei Lavori Pubblici da Bruno Manetti, un rappresentante di zona, le descriveva con «i tetti [che] mancano di isolamento, il soffitto costituito dalle tegole stesse che

2. Vedi La storia, Einaudi, Torino 1974, in particolare p. 179.

fanno da copertura, i muri deboli [che] permettono le infiltrazioni d’acqua e se la pioggia o neve è trasversale con vento, penetra fra le tegole e le fondamenta sono costituite da una gettata di pochi centimetri di cemento»3.

L’insediamento era consono ai dettami del regime che vedeva in questi villaggi di casette, cosiddette «minime» o «popolarissime», un’opera di «re-denzione urbanistica e demografica» che serviva a decongestionare i pericolosi e insani agglomerati urbani sovraffollati. La presenza di un orto annesso alla casa avrebbe poi accostato questi «diseredati alla terra», secondo l’ideologia ruralista del regime.

3. Parlare di Cà Emiliani significa parlare di Venezia, cioè del progetto del conte Volpi di Misurata, fautore del porto industriale di Marghera, che puntava a trasformare Venezia-centro storico in “città dell’arte”, a fare della terraferma il luogo delle fabbriche inquinanti e della residenza popolare, del Lido la località vocata al cinema e al turismo balneare d’élite. In questo quadro le famiglie che, in seguito alla liberalizzazione dei fitti, non potevano sostenere i nuovi canoni, venivano sfrattate e di fatto espulse dal centro non solo di Venezia ma anche della stessa Mestre e concentrate ai margini estremi della città, come nel Villaggio della Rana. La nuova città giardino di Marghera esplicitava questa logica: alcuni quartieri erano destinati agli operai, altri ancora alle famiglie degli impiegati, più in periferia le case minime per gli sfrattati, in cui si prevedeva un sistema di controllo sociale fatto di segregazione, di misure di sorveglianza e infine di pratiche di assistenza delegate soprattutto alla Chiesa. Le tipologie degli alloggi seguivano una serie di gradazioni secondo la fascia sociale degli inquilini4.

Documenti degli uffici tecnici del tempo parlavano esplicitamente della necessità di creare una emigrazione delle classi popolari dai quartieri del cen-tro storico verso la periferia, e, viceversa, una immigrazione nel cencen-tro delle cosiddette classi borghesi, sia per motivi funzionali che di rendita immobiliare. Il fascismo avvia e persegue questo disegno classista con determinazione, anche se possiamo dire che si tratta di un progetto di lunga durata: continuerà anche dopo, sia pure con toni e sfumature diverse, perlomeno sino agli anni Settanta. L’associazione storiAmestre, che nel suo statuto si propone la «promozione di una conoscenza critica della storia di Mestre e del territorio con particolare ri-ferimento alle squilibrate modalità dello sviluppo urbano e ai molteplici aspetti della vita dei suoi abitanti nel periodo a noi più vicino», ha sottolineato spesso nei suoi lavori come lo spesso citato caos urbanistico della città metropolitana

3. Si legge ora in Una comunità, il lavoro, la fede. I 50 anni della parrocchia di Gesù Lavoratore a Cà

Emiliani – Porto Marghera. 1946-1996, Venezia 1996, p. 10)

4. Su questo rimando a G. Facca, Marghera, nascita di un quartiere, in La città invisibile. Storie di

veneziana sviluppatasi nel Novecento, in realtà risponda a un preciso disegno di forze economiche e finanziarie, che avevano interessi su Porto Marghera, una delle maggiori zone industriali d’Europa. La città venne suddivisa, con una serie di gradazioni, in zone distinte per classe e stili di vita degli abitanti, ciascuna con una sua fisionomia.

4. Angelo Simion fu procuratore della parrocchia della Rana fino all’arrivo di un sacerdote, nel 1937. Poi continuò tutta la vita a dedicarsi all’assistenza dei poveri di Cà Emiliani. Tenne un diario che è ora è pubblicato con il titolo

Registro delle Memorie di S. Maria della Rana dal 1930 al 1960. Una fonte per la storia di Cà Emiliani a Marghera, a cura di P. Brunello-F. Brusò,

Mestre-Venezia 1997. A p. 114 si legge una descrizione relativa alle condizioni di chi era arrivato da pochi giorni:

«Miseria assoluta, molte famiglie dormono sul nudo pavimento, altre sopra un paglie-riccio o con dei pastrani militari, altri ancora sopra delle reti, pochissimi in un letto». Due giorni dopo racconta di «moltissimi […] specie giovani e ragazze [che] partono verso le otto di sera e vanno per il porto e in marittima, e ritornano a casa verso mattina, con carichi di legna e carbone».

E poi ancora:

Anche questa sera ho continuato le visite agli sfrattati. Che miseria, bambini e bam-bine semivestiti, sporchi, senza lenzuola in tante famiglie, altre dormono a terra con poca paglia, qualcuno su cappotti militari, senza branda. Poche le famiglie con il letto completo, in cucina, tanti senza tavolo, qualche sedia o panca.

Simion era preoccupato perché ben pochi dei nuovi abitanti frequentavano le funzioni religiose:

[…] invece gente piccola e grande sia uomini che donne, come bambini e bambine all’osteria e fuori tutta la notte.

Maturava l’idea che il villaggio fosse «terra di missione» e che fosse necessa-ria una «bonifica spirituale». In quel periodo regime fascista e Chiesa cattolica si sentivano concordi in quest’opera di redenzione, di quella che chiamavano la «bonifica morale e spirituale» di chi era stato concentrato, di fatto in modo coatto, all’interno del villaggio.

In tutta Italia la politica totalitaria del regime, con la repressione di qualsiasi organizzazione politico-sindacale alternativa a quella fascista, aveva trasformato gli sfrattati in soggetti deboli, senza tutela e voce collettiva, portati dunque a

vivere individualmente la propria condizione. Deportati fuori città diventavano un ceto a sé, in una condizione marginale e segregata, oggetto di pratiche di controllo e di politiche assistenzialistiche.

Anche in questo la vicenda del villaggio è esemplare. Esigenze di controllo sociale ed educativo portavano a quella che si definiva una «vigilanza assisten-ziale». Autorità politiche e religiose presenziavano insieme gli avvenimenti pubblici, religiosi e civili, come per esempio le cresime o le feste per i reduci della guerra d’Africa. L’asilo delle suore istituito nel 1937 era dedicato alla fi-gura di padre Reginaldo Giuliani, combattente nelle brigate fasciste in Spagna, emblema del clerico-fascismo di quegli anni.

Il villaggio di Cà Emiliani fece scuola: nel 1939, non troppo lontano da lì, furono costruiti altri due villaggi di case minime a Brentelle e a Cà Sabbioni.

5. Nel dopoguerra, sia dentro i confini del villaggio sia nelle immediate vicinanze, vennero costruite altre case, tutte di iniziativa pubblica economico-popolare (piano Fanfani, case comunali, Iacp). Così si consolidò la caratteriz-zazione popolare e operaia della zona. Nel 1952, sempre a ridosso del villaggio venne eretto un nucleo di case destinate ai profughi istriano-dalmati. Vi fu una progressiva saldatura con il nucleo urbano di Marghera.

Nel frattempo con la seconda zona industriale le industrie si espansero sino alle porte di Cà Emiliani. Si può dire che il villaggio ormai confinasse con

Baracche in legno del dopoguerra (Archivio Laboratorio MestreNovecento)

l’ingresso del Petrolchimico, il grande impianto oggi in fase di smantellamento. Così gli abitanti del villaggio subirono direttamente i danni dell’inquinamen-to industriale, ma anche vissero in prima linea le lotte sindacali e sociali che crescevano all’ombra delle fabbriche. Celebre fu la cosiddetta «battaglia di Cà Emiliani» dell’agosto 1970, quando in occasione dello sciopero delle imprese, per giorni, in prossimità del quartiere vi furono scontri e barricate con scene di vera e propria guerriglia urbana, in cui i manifestanti ricevettero solidarietà e aiuto dagli abitanti di Cà Emiliani, tutti schierati a favore della lotta in corso5.

Del resto la gente di Cà Emiliani era occupata nelle fabbriche vicine, soprat-tutto nelle precarie imprese di subappalto, in lavori saltuari, ma molti viveva-no anche di espedienti o addirittura di attività malavitose. Molti sottolineaviveva-no come la polizia non entrasse facilmente nel villaggio, che rimase sino agli anni Settanta una realtà ben distinta che manteneva la propria identità e la propria autonomia rispetto al resto del quartiere.

6. La Casa del popolo iniziò ad essere costruita nel 1951, su un’area donata dal comune di Venezia al Circolo ricreativo culturale G. Felisati (Giovanni Felisati detto El Moro, operaio di Carpenedo, era stato trucidato dai fascisti il 28 luglio 1944, assieme ad altri dodici compagni partigiani, sulle macerie di Cà Giustinian). L’atto fu firmato dal sindaco comunista Giobatta Gianquinto, primo sindaco del dopoguerra. I soci fondatori del circolo erano attivisti del Pci del villaggio, soci onorari erano il segretario della federazione e il segretario della sezione di Dor-soduro di Venezia. Nel dopoguerra il Pci a Venezia aveva avuto uno sviluppo poderoso, con un capillare radicamento soprattutto nelle zone popolari. La forte mobilità urbana del dopoguerra portò nelle casette per gli sfrattati di Cà Emiliani nuove famiglie, molte di queste provenienti dalle zone popolari del centro storico dove il Pci aveva avuto un immediato seguito. Fu così che pochi anni dopo la guerra Cà Emiliani diventa territorio esclusivo dei comunisti, dove «il Partito» veniva identificato tout-court con la politica e come mediatore con le istituzioni.

L’edificio della Casa del popolo venne eretto con lavoro volontario e gratuito, le attività che vi si svolgevano erano quelle tipiche di una sezione di periferia. Qui forse di particolare c’erano l’esclusività della sua azione e il fatto che in sostanza si rivolgesse quasi esclusivamente a un sottoproletariato. Le foto ci parlano di riunioni di partito e partecipazione a manifestazioni ed eventi cit-tadini; c’era naturalmente la diffusione domenicale de «L’Unità», il servizio di bar-fiaschetteria, l’organizzazione della «cassa peota» (una forma di banca popolare di mutuo aiuto molto diffusa anche in altri bar della città).

5. La cronaca degli scontri in C. Chinello, I “negri” di Porto Marghera, in «Altrochemestre. Docu-mentazione e storia del tempo presente», IV, primavera 1996, pp. 14-15, ora nel sito http://storiamestre. it/altrochemestre/Acm2/p14.html.

La sezione PCI di Cà Emiliani con l’ex- sindaco Gianquinto Giobatta (archivio CdP Cà Emiliani)

Festa dell’Unità al Villaggio, s.d. (archivio CdP Cà Emiliani)

Veniva poi organizzata la festa dell’Unità che si svolgeva nello spazio anti-stante. Le immagini ritrovate testimoniano anche l’esistenza di una squadra di calcio e di tornei nel vicino campo sportivo.

Tre immagini senza data: le prime due relativi a incontri calcistici e la terza davanti alla casa del popolo a pugno chiuso

Fino agli anni Sessanta – ricordano con orgoglio vecchi militanti – la sezione del Pci di Cà Emiliani era la più forte del mestrino con 250 iscritti e una sezio-ne di Pionieri d’Italia, composta da bambini dai 6 ai 12 anni ai quali venivano proposte varie attività, tra cui gite alla spiaggia del Lido.

Successivamente divenne un circolo Arci come tutte le case del popolo italiane.

Sfilata a Cà Emiliani dei Pionieri d’Italia, s.d. - inizio anni Sessanta

7. Se dentro al villaggio comandavano «i rossi» e naturalmente non erano tollerati i comizi dei democristiani, nel resto del quartiere era forte l’influenza di don Berna. Si riproduceva il classico schema degli anni Cinquanta, reso celebre da Guareschi: Peppone e don Camillo. Nel nostro caso il partito doveva fron-teggiare un prete cerbero dalla forte personalità, presente nel villaggio sin dal 1937, che aveva per esempio il potere di far assumere o meno nelle fabbriche e che discriminava e sfidava apertamente i comunisti. Innumerevoli sono le storie e gli aneddoti di scontri verbali, di rancori e discriminazioni. Nel 1954, don Berna era riuscito a far costruire una nuova chiesa, intitolata a Cristo Lavora-tore, rivolta quasi come gesto di sfida non verso le case ma verso le fabbriche, portatrici di lavoro ma anche di pericolosi valori e principi atei e pagani. Sfidò i comunisti anche sul piano simbolico, organizzando una festa del Primo Mag-gio, come «festa cristiana del lavoro», che univa idealmente prestatori d’opera e datori di lavoro, con cortei di automobili e feste solenni. Festa che, con tratti diversi, viene celebrata ancora oggi nel patronato della parrocchia.

8. Nel 1996 il villaggio era ormai un ricordo, l’area era quasi completamente disabitata, rimanevano solo alcuni esemplari delle casette originarie, alcuni blocchetti di palazzine del dopoguerra, ormai in via di smantellamento. Le casette erano state abbattute anche perché Cà Emiliani soffrì di alcuni pesanti allagamenti che le avevano rese irreparabilmente inabitabili.

Dopo l’alluvione del 1966 erano state abbattute le baracche di legno, mentre nel 1974 erano state rase al suolo le altre casette (e i suoi abitanti erano stati trasferiti negli appartamenti di una torre costruita in un’altra località di Mar-ghera, la Cita, a ridosso della stazione ferroviaria: si vede bene venendo in treno a Mestre). Nel 1986 ci fu un altro episodio di acqua alta.

Un lungo processo di trasformazione aveva ormai trasferito gli abitanti in altre zone della città o in case costruite nello stesso quartiere.

Constatavamo un senso di rancore e rabbia nei vecchi abitanti del villaggio, nostalgia verso la realtà di un tempo e l’idea che potesse esserci un esito diverso. L’idea di degrado era propria di chi osservava da fuori, mentre chi ci viveva ricordava solidarietà, senso di appartenenza, orgoglio politico.

9. Negli anni Settanta, cambia anche la modalità dell’iniziativa politica e sociale. Mentre negli anni Cinquanta-Sessanta è il partito che assume in sé la socialità del villaggio ma anche del quartiere, negli anni Settanta esso subisce una progressiva perdita di centralità anche se mantiene ancora un peso eletto-rale rilevante sino a tutti gli anni Ottanta. Nascono in quel periodo gruppi di quartiere che si rifanno alle organizzazioni politiche legate alla sinistra extrapar-lamentare (Lotta Continua, Potere Operaio o Avanguardia Operaia), molto attivi e dinamici sul piano delle rivendicazioni, con nuove metodologie e linguaggi.

Le ultime baracche (foto 1997)

Lo stesso protagonismo giovanile provoca delle rotture generazionali e rimette in discussione gli assetti precedenti.

Negli anni Settanta anche la parrocchia volta pagina rispetto a Don Berna: viene gestita da un gruppo di preti operai dell’ordine salesiano, che ripropone una nuova modalità più aperta e dialogante con gli abitanti del quartiere. Gruppi esterni di attivisti e operatori sociali intervengono nel villaggio con iniziative di doposcuola e altro.

Altri attori si impossessano della narrazione del luogo e l’esperienza della Casa del popolo sembra perdersi nei ricordi collettivi e cittadini, rimanendo ancora viva e presente nel suo valore simbolico solo in chi ha abitato a lungo o abita ancora nel villaggio.

La Casa del popolo oggi, tra i capannoni industriali (foto 2009)

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