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Massenzatico e Prampolini: alcune considerazioni

Nel corso del 1993, nella Sala del Tricolore della sede municipale di Reggio Emilia e in questo stesso Teatro sociale, abbiamo celebrato il centenario della Cooperativa di consumo di Massenzatico. Nel 1994, per annunciare la nascita di Coop Consumatori Nordest, abbiamo pubblicato il volume, a cura di Fran-co Boiardi, Dalla Cooperazione di Fran-consumo alla Cooperazione dei Consumatori

nell’Italia del Nord-Est, che si apre con la foto simbolo della Cooperativa di

Mas-senzatico, con ben visibile sui due lati il motto prampoliniano «discordi siamo nulla – uniti siamo tutto»; di fianco vi è il Teatro sociale, cioè questa sala e un terzo edificio costruito in epoca successiva e non più esistente1. Quel motto a più di un secolo di distanza, possiamo affermarlo tranquillamente, è stato benaugu-rante per la nuova grande Coop e per tutte le cooperative di queste terre e delle altre regioni italiane; la crescita è stata enorme per dimensione e per i più svariati settori, favorita senz’altro dall’incontro di storie e culture diverse, dall’impegno di cooperatori con origini e esperienze molteplici, dal lavoro solidale di donne e uomini di più generazioni.

I complessi processi di promozione e unificazione cooperativa hanno pre-sentato naturali difficoltà, accompagnate, a volte, da inattese criticità che si sono affrontate e superate positivamente nella misura in cui si è saputo ritornare alle radici dell’idea e del fare cooperativo, ai valori di uguaglianza, solidarietà e democrazia, tradotti in giustizia sociale e in diritti della persona umana.

La suggestiva immagine di Prampolini e di Massenzatico, che campeggiava anche nella sede Legacoop a Mestre di Venezia, nell’ufficio di Arnaldo Biasi-betti, presidente dell’Associazione regionale delle cooperative di consumatori, evidenzia il cambiamento intervenuto: era un altro mondo. Un mondo che, nella diffusa povertà contadina, è stato fucina di passione e partecipazione. A questa dura scuola, fin da ragazzo, si è formato un protagonista delle lotte

* Associazione per gli studi e la cultura cooperativa “Camillo Prampolini”.

1. Coop Consumatori Nordest, Dalla Cooperazione di consumo alla Cooperazione dei Consumatori

nell’Italia del Nord-Est, a cura di F. Boiardi, fotografie scelte da M. Ravenna, Stampato dalla Li.Pe. - S.

sociali e della libertà come Aldo Ferretti, «Toscanino», che non ha bisogno di presentazione in questi luoghi e che ho avuto modo di conoscere e apprezzare in varie occasioni, la prima volta nel lontano 25 aprile del 1965, a Fazzano di Correggio, quando, su un carro agricolo, tenne la celebrazione ufficiale del ven-tennale della Liberazione. Nei suoi ricordi ha scritto del «contributo particolare che Massenzatico ha dato allo sviluppo e alle lotte del movimento operaio, contadino ed antifascista di Reggio Emilia a partire dagli albori del socialismo prampoliniano fino al 1945 e anche dopo» e del fatto che «Massenzatico era considerata da Prampolini un po’come la Villa Madre» e che «questa frazione fu per L’Apostolo di Pace come il campo sperimentale e di lancio delle sue idee politiche e organizzative»2.

A 150 anni dalla nascita di Camillo Prampolini s’imponeva il ritorno ed è stato giusto riportare in questa sede il Comitato nazionale per le celebrazioni, rappresentato nel discorso di apertura dal presidente Giuseppe Amadei. Que-sta giornata di storie e geografie della cooperazione, denominata “Di nuovo a Massenzatico”, trova l’altra ragione fondamentale nel collegare Camillo Pram-polini agli studenti e ai giovani di oggi, alle scuole del distretto e della provincia, che hanno partecipato attivamente, con entusiasmo, ai progetti patrocinati da «Bellacoopia», con il concorso del Centro culturale Lucio Lombardo Radice. Il risultato è sotto gli occhi di tutti; non solo le ragazze e i ragazzi sono stati capaci di ripercorrere la memoria storica, ma hanno saputo reinterpretarla e rimetterla in circolazione con nuove modalità e la freschezza dei loro linguaggi, anche multietnici. Le categorie fondamentali di quel pensiero, «la solidarietà» e «il lavorare insieme», hanno costruito la civiltà umana dell’Europa che sempre più da una unione di governi deve diventare una unione di popoli. La società di oggi postindustriale e postmoderna, della globalizzazione dei mercati e della fi-nanza, della multiculturalità, dell’economia della conoscenza e dell’informatica, da un lato ha aperto nuove frontiere, ma dall’altro tende all’individualismo e a nuove separatezze, a ricchezze inaudite e a nuove e antiche povertà. Su queste trasformazioni sempre più profonde e radicali procede tuttavia con sempre maggiore forza il bisogno di riconoscere esperienze e identità forti, si riscopre la necessità di inedite forme di relazione e aggregazione, di nuove pratiche sociali nel volontariato, nella cittadinanza attiva, di iniziative di economia cooperativa e solidale.

La cooperazione può giocare, di nuovo, un grande ruolo ripartendo dalla riflessione su ciò che significa come memoria storica collettiva, come modello economico e come strumento di prospezione del futuro, oltre che come uno dei baricentri del presente. Il progetto di ricerca sulle case del popolo, affidato

2. A. Ferretti «Toscanino», Massenzatico nella Reggio rossa (1885-1925), Edizioni Libreria Rinascita, Tecnostampa, Reggio Emilia 1973, pp. VII-VIII.

a Marco Fincardi e Antonio Canovi, e l’altro progetto sulla memoria storica cooperativa costruito in accordo con il Centro di documentazione italiano della cooperazione e dell’economia sociale, con il Polo Archivistico e la Circoscrizione Nordest del Comune di Reggio Emilia, con la Biblioteca Panizzi e con Istoreco, vogliono essere una preziosa e concreta risposta all’allarme lanciato da più parti e ripreso dal prof. Pino Ferraris sul fatto di «assistere ad una gigantesca e irre-sponsabile liquidazione e svendita del patrimonio di memoria dei duecento anni di ricche e tormentate vicende del movimento operaio e socialista europeo». E la questione è culturale e politica, come sostiene Ferraris, e riguarda non solo la storia «delle società di mutuo soccorso e delle cooperative di produzione e consumo, delle Università popolari e delle Case del popolo» ma anche «la storia della rete ricca e vasta di servizi e di tutele che i movimenti sociali costruirono interagendo con il comunalismo [o municipalismo] socialista. La storia del “fare società” che ha coinvolto milioni di uomini e donne, che ha fermentato e umanizzato questo straordinario spazio dell’Europa sociale, oggi messo a repentaglio, è una storia dispersa, svalutata e, in gran parte, abbandonata»3.

Nell’intervento che ho svolto a Saint-Claude, nell’Alto Giura Francese, nella sede della Maison du Peuple «La Fraternelle», nel novembre scorso, ho sostenuto, parlando di solidarietà e cultura, di guardare al passato con lo sguardo al futuro. L’esempio più emblematico, all’inizio del Novecento, è “l’Università popolare” promossa e diretta, dal 1902 al 1908, da Antonio Vergnanini che riuscì, anche in qualità di segretario della neonata Camera del Lavoro, a dare grande im-pulso all’attività culturale e all’alfabetizzazione della parte più diseredata della popolazione. La grande attenzione verso l’educazione e l’istruzione si capisce compiutamente se si riprendono i dati dell’analfabetismo e dell’istruzione ele-mentare nel 1892, come si ricavano dal volume di Romeo Romei,

L’organizzazio-ne proletaria campagnuola, stampato a San BeL’organizzazio-nedetto Po, L’organizzazio-nel 1900, e presentato

ora dalla rivista «L’Almanacco». In Francia l’istruzione elementare obbligatoria, sotto la responsabilità dei genitori, era di 7 anni, cioè dai 6 ai 13 anni di età; in Svizzera, in Inghilterra, in Prussia l’obbligo scolastico era di 8 anni, quindi fino ai 14 anni di età! Da noi, in Italia, solo nei capoluoghi di comune (e non in tutti), vi era la quinta elementare; ordinariamente si arrivava solo alla terza! Dalle statistiche ufficiali del 1892 risultava che dei 2.037.000 alunni inscritti nelle scuole elementari italiane solo 32.000 arrivavano alla quinta e l’incidenza dell’analfabetismo superava il cinquanta per cento4!

3. P. Ferraris, Politica e società nel movimento operaio e socialista, Appunti per una traccia storica. Vedi anche dell’autore, Buone pratiche di cittadinanza e mutualismo, n. 2, Una Città, Forlì febbraio 2007.

4. L’Almanacco, a. XXVII, n. 52, dicembre 2008, Reggio Emilia, Romeo Romei e il socialismo

rura-le, a cura di M. Fincardi-L. Gualtieri-R. Romei, I nuovi orizzonti delle Società di M.S. campagnuole. Contributo al Vooruit delle campagne, in CD allegato.

Con la collaborazione del Distretto soci di Coop Consumatori Nordest so-no state di nuovo allestite, all’entrata di questa sala, le mostre fotografiche che hanno accompagnato le «Sette giornate di Cooperazione», realizzate dall’ottobre 2006 all’aprile 2007, patrocinate e promosse, come questa che possiamo defini-re l’«Ottava giornata», dall’Associazione per gli studi e la cultura cooperativa «Camillo Prampolini». L’intento, raggiunto con successo, era di riproporre la riflessione sulla storia e, specialmente, sulla attualità e modernità della coope-razione. Prendo a prestito una significativa metafora usata da altri e immagino il pensiero socialista e cooperativo delle origini, come un ponte a tre archi, tenuti assieme dalla solidarietà e dai diritti: il primo arco della «resistenza», il secondo della «cooperazione» e il terzo della «previdenza». Tre parole antiche che sanno ancora di futuro e si proiettano verso la modernità, come «le vele di Calatrava». Della sua opera architettonica il progettista spagnolo ha detto che non sarebbe stata possibile senza l’abile e duro lavoro degli operai, senza le competenze e le capacità professionali dei carpentieri cresciuti nei cantieri scuola delle cooperative edili, di produzione e lavoro.

Pier Giacinto Terrachini, «l’architetto del socialismo», potrebbe raccontare, attraverso i disegni e le immagini che ha lasciato, che il progetto della nuova sede de L’Artigiana, detta popolarmente «Braguzza», si è potuto realizzare nel 1893 grazie all’opera volontaria durata alcuni mesi, in tutte le ore anche festive, di muratori, manovali, braccianti, artigiani e contadini. Lavoravano «continua-mente allietati da canti, musica e quant’altro serviva per mantenere in armonia tutta la compagnia»5.

Ognuno di noi, per la parte che ha avuto nelle vicende della cooperazione, è stato un costruttore, ma al tempo stesso un distruttore. Avvertiamo un pro-fondo senso di colpa per la cooperazione che non ha salvaguardato la bellezza e originalità della facciata dell’edificio, ispirato alla Casa del popolo di Bruxel-les, e penso sia giunto il momento di farsi carico di un progetto di recupero e ristrutturazione architettonica.

La chiave di volta delle celebrazioni va cercata nel patrimonio storico, cul-turale e scientifico, del socialismo e cooperativismo prampoliniano. Legacoop e Associazione «Camillo Prampolini», dando continuità al programma, do-vrebbero promuovere e lanciare, in raccordo con altri enti e con l’Università di Modena-Reggio, il Laboratorio di scienze economiche e sociali, riprendendo il progetto nato intorno alla figura e al pensiero di Ugo Rabbeno. In poche realtà territoriali, italiane ed europee, si è concentrato tra fine Ottocento e inizio No-vecento un gruppo di intellettuali e organizzatori, prestigiosi e autorevoli, quali Camillo Prampolini, Ugo Rabbeno, Antonio Vergnanini, Giovanni Zibordi ed altri. Non sono rimasti un’isola, perché si è creato un ponte nella seconda metà

del Novecento, con la rinascita dell’idea e dell’impresa cooperativa attraverso vecchi e nuovi protagonisti quali Antonio Basevi, Arturo Bellelli, Valdo Magna-ni, Ivano Curti, Loris Malaguzzi, Osvaldo PiacentiMagna-ni, Osvaldo Salvarani e altri. Va creato un laboratorio che sappia attingere dal passato e soprattutto dall’immenso giacimento disponibile di banche dati, affinché serva al presente e interroghi il futuro: non un ente da assistere con contributi, ma un’impresa dell’economia cooperativa, di giovani laureate/i con competenze interdiscipli-nari nel campo storico e scientifico, economico, statistico e umanistico, con precise finalità d’interesse generale (cittadini - famiglie - imprese - comunità).

Ho in mente, con tutti i benefici d’inventario che derivano dalle pesanti e tragiche lezioni del Novecento, la manchette della «Giustizia» che, apparsa a distanza di due anni dalla nascita del giornale, il 19 febbraio 1888, fu mantenuta fino alla conclusione nel 1925:

La miseria nasce non dalla malvagità dei capitalisti, ma dalla cattiva organizzazione della società, dalla «proprietà privata»; perciò noi predichiamo non l’odio alle perso-ne né alla classe dei ricchi, ma la urgente perso-necessità di una riforma sociale, che a base dell’umano consorzio ponga la «proprietà collettiva».

Visti i tempi di liberismo senza regole si potrebbe amaramente sorridere di quella «grande illusione» per poi trarre un bilancio, in negativo, di una ir-reparabile sconfitta. Continuo, viceversa, a pensare che quel laboratorio e quel ponte poggino sul solido pilastro gettato nel 1881 dalla tesi di laurea del giovane Prampolini sul «diritto al lavoro», e vincano la gravità Come il volo del

calabro-ne di Ivano Barberini, e sappiano guardare il mondo globale come l’enciclica Caritas in Veritate di Papa Benedetto XVI.

A mio parere resta valida, e storicamente confermata, la grande intuizione del giovane studente Camillo Prampolini che, come ricordava Renato Zangheri, «scandalizzato dalle teorie economiche imperanti che assegnavano assoluto ed esclusivo ruolo al “diritto di proprietà”, si convince della prioritaria importanza del “diritto al lavoro”»6. Su questo imposta la propria tesi di laurea all’Università di Bologna, dove incontra docenti quali il prof. Pietro Ellero, che pur essendo in sostanza un conservatore, insegnava che la proprietà era all’origine del malessere moderno. Essa aveva respinto da sé il lavoro, come se fosse un malfattore dal quale invece era nata e resa legittima. Il lavoro, pertanto, era altrettanto antico

6. R. Zangheri, Sulla formazione del socialismo di Camillo Prampolini, in «L’Almanacco», n. 37, a cura di G. Boccolari-L. Casali, Prampolini e il socialismo reggiano, Reggio Emilia dicembre 2001, CD allegato, pp. 8-10. Saggio pubblicato anche sul n. 4 (a. III) dicembre1997 della rivista «Finesecolo» con il titolo Il socialismo di Camillo Prampolini.

e nobile, anzi più della proprietà, ma a diversità di questa non aveva né codici civili, né un proprio diritto.

Prampolini dell’opera di Ellero, La questione sociale, aveva scritto: «uno dei libri per me indimenticabili che mi insegnarono a comprendere quante ingiu-stizie siano nella civiltà odierna e mi posero nell’animo il desiderio ardente di una società migliore»7.

Ivano Barberini alla domanda: «Qual è l’idea di mercato di cui la coopera-zione è portatrice?», risponde: «Il mercato è il miglior meccanismo per assicu-rare il massimo di efficienza ma esso senza responsabilità sociale si traduce nel vantaggio di pochi, crea gravi squilibri e spinte pericolose […]. In questo caso la libertà d’iniziativa […] diventa arbitrio ed egoismo. Pertanto la trasparenza, la solidarietà e l’efficienza sono scelte congiunte ed inscindibili»8.

E l’enciclica sotto il titolo «Fraternità, sviluppo economico e società civile»9, sostiene che l’attività economica «[…] va finalizzata al perseguimento del bene

comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. […]

Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente»10. Più avanti rimarca: «[…], è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione

dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione,

la comunità di riferimento. […]»11.

È lo stesso modo d’intendere l’economia e l’impresa che si ricava dall’auto-revole opera di Henri Desroche, Il Progetto cooperativo, uscito in Italia nell’or-mai lontano 1980, laddove rende omaggio all’«economia politica del lavoro» a cui appartiene l’economia cooperativa, riprendendo quanto scritto più di un secolo prima, nel 1864, da Carlo Marx nell’Indirizzo Inaugurale alla Prima internazionale:

Ma c’era in serbo una vittoria ben più grande dell’economia politica del lavoro sull’eco-nomia politica della proprietà. Vogliamo parlare del movimento cooperativo, e soprat-tutto delle manifatture cooperative nate dagli sforzi spontanei di poche mani ardite. Il valore di queste grandi esperienze sociali non può non essere esaltato. Non con le parole ma con i fatti esse hanno provato che la produzione su larga scala e strutturata secondo

7. Ivi.

8. I. Barberini, Come vola il calabrone - Cooperazione, etica e sviluppo, Prefazione di Rita Levi Montalcini, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2009, pp. 260-61.

9. Benedetto XVI, Lettera Enciclica, Caritas in Veritate, Libreria Editrice Vaticana 2009, cap. III, p. 52.

10. Ivi, pp. 56, 57. 11. Ivi, p. 63.

le esigenze della scienza moderna può essere effettuata anche senza bisogno che ci sia una classe padronale che dà lavoro a una classe di manovali: che non c’è bisogno che gli strumenti di lavoro, per dare i loro frutti, debbano essere monopolizzati o trasfor-mati in mezzi di dominazione o di sfruttamento dei lavoratori; e che il lavoro salariato, esattamente come il lavoro degli schiavi, e il lavoro dei servi, non è che una forma transitoria e inferiore, destinata a scomparire per lasciare il posto al lavoro associato, che svolge la sua funzione con mano pronta, con animo vivace e cuore allegro […]12.

E riprende i punti critici, contenuti nell’Indirizzo, sull’esperienza storica

«parziale» compiuta nel periodo dal 1848 al 1864: il lavoro cooperativo finché

non assume dimensioni nazionali, per quanto sia in pratica «eccellente», ma limitato in una stretta cerchia di sforzi parziali di operai isolati, «non è in grado di arrestare il progresso geometrico del monopolio, non è in grado di emanci-pare le masse e neppure è capace di alleviare in modo sensibile il fardello della loro miseria»13.

Desroche sostiene ancora che si è più o meno d’accordo nel definire «il progetto cooperativo un progetto di impresa unito a un progetto di associazione-impresa che è un’associazione, associazione che è un’associazione-impresa»14.

Mi chiedo cosa scriverebbe oggi Desroche dopo che negli anni Ottanta e Novanta del Novecento si sono consumate le crisi di parte dei sistemi coopera-tivi europei. Probabilmente riprenderebbe la citazione di Alexis de Tocqueville posta a corollario della «democrazia cooperativa»:

Nei paesi democratici la scienza dell’associazione è la scienza madre, il progresso di tutte le altre dipende dal progresso di quella15.

Dopo avere analizzato «le quattro popolazioni» che formano la democrazia cooperativa cioè i soci, gli amministratori, i dirigenti e i dipendenti, riprende la tesi generale, contenuta nelle relazioni ufficiali dei congressi dell’Alleanza cooperativa internazionale, da cui emerge che «sempre e dappertutto le co-operative hanno incontrato delle difficoltà a conservare il pieno vigore della loro base democratica». Scrive che questa tesi «diventa sempre più inquietante nell’ipotesi di una crescita cooperativa garantita dalla centralizzazione: […] Sempre più, il compito di prendere le decisioni viene demandato a una élite dirigente professionista, […], l’effetto dominante di questa riforma è quello di scavare più profondamente il fossato tra i soci e la direzione, e di togliere la

re-12. H. Desroche, Il progetto cooperativo, Jaca Book Edizioni, Milano 1980, p. 71. 13. Ivi, p. 72.

14. Ivi, pp. 284, 285. 15. Ivi, p. 290.

sponsabilità delle decisioni alla base locale, che da molto tempo era considerata il fondamento del controllo democratico […]»16.

La fase che corre da fine Ottocento a inizio Novecento è contrassegnata dalla grande depressione, che è all’origine di pesanti difficoltà e di duri scontri. Ciò non ha impedito di arrivare, nel 1910, alla piattaforma condivisa di un «socialismo cooperativo», superando molte posizioni dottrinarie attraverso una pratica sociale, sia della politica socialista che dell’economia cooperativa. La piccola frazione di Massenzatico, nel 1893, è un punto miliare, di valenza europea, nel percorso intrapreso dal movimento operaio e cooperativo, che incrocerà drammatiche sconfitte, ma che saprà sempre affrontarle con la volontà e la speranza di cambiamento. Qui Émile Vandervelde, a nome dei socialisti e cooperatori del Belgio, parlò in francese a una folla enorme ed entusiasta, com-posta in maggioranza da contadini e braccianti, poveri e analfabeti17 e nel 1902 la «Giustizia», segnando i passi compiuti, riportava il brano della conferenza di Edward Anseele, pubblicata nel piccolo ma prezioso libro intitolato

Coopera-zione e Socialismo, che trattava dell’esperienza delle cooperative di consumo e

delle case del popolo di Gand e del Belgio, assunte in larga misura a modello18. La facciata originale de L’Artigiana ricorda quanto si trovò a sognare Char-les Gide sull’architettura dei palazzi destinati all’economia sociale: «L’edificio somiglierebbe più a una cattedrale che a un palazzo […]»19.

Il nostro sogno riparte «di nuovo a Massenzatico» e può ben continuare nella ricerca costante di esperienze e di forme inedite, nella consapevolezza che in Unione Europea, e in tutte le aree del mondo, tra luci e ombre, sviluppo e crisi, «l’economia sociale e la cooperazione» sono pur sempre avanzate. La partita da giocare è aperta e, in una economia di mercato correttamente intesa, vanno promosse le diverse forme economiche, attraverso la pluralità dei soggetti, e premiate le imprese di persone e/o di capitale, che sanno coniugare l’efficienza