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Una sfida nel segno dell’innovazione

L’incarico di progettare la nuova Casa del popolo di Bruxelles per conto del Parti Ouvrier Belge rappresenta per il trentaquattrenne architetto Victor Horta la sfida più importante della sua carriera, ai quei tempi in piena ascesa.

Nel 1895, infatti, il giovane professionista, nato a Gand nel 1861 e formatosi prima all’accademia della città natale, poi come tirocinante a Parigi, terminando gli studi all’Académie des Beaux-Arts di Bruxelles, era di certo tra gli architetti più richiesti e pagati della capitale. La sua affermazione, passata attraverso l’i-nevitabile clamore iniziale, suscitato dal carattere innovativo delle sue prime realizzazioni importanti, lo aveva portato in breve tempo ad essere etichettato come l’architetto della nuova classe imprenditoriale e borghese locale.

La totalità degli storici della materia è, infatti, concorde nell’attribuire a Horta la paternità del nuovo linguaggio architettonico nonché del rinnovamento delle arti applicate che caratterizzò prima il Belgio e poi gran parte dell’Europa di fine Ottocento e che prenderà il nome di Art Nouveau, proprio per il carattere fortemente innovativo che questo movimento portava in sé.

È di fatto attraverso opere quali l’Hotel Tassel del 1893 (casa-studio per un docente universitario) e l’Hotel Solvay (residenza del celebre industriale de-positario del brevetto dell’omonima soda) del 1894 che Victor Horta irrompe nel campionario architettonico della tradizione ottocentesca fiamminga con il suo carico di innovazione tecnica e formale, definendo in sostanza il manifesto del nuovo movimento che, di lì a poco, valicherà i confini delle Fiandre per interessare l’Europa in generale.

Il grande progetto per la Casa del popolo di Bruxelles rappresentava, quindi, per l’astro nascente del rinnovamento architettonico, una sfida dai molteplici significati. Per la prima volta, infatti, il progettista poteva misurarsi con un tema diverso, per contenuti e dimensioni, da quelli affrontati sino ad allora;

* Architetto del laboratorio “Oltreluogo” di Reggio Emilia. ** Contributo scritto consegnato al convegno.

ma soprattutto l’incarico forniva la grande occasione al giovane architetto (fin dagli esordi vicino ad ambienti borghesi e mas-sonici) di confrontarsi con i temi, le idee e le esigenze di una nuova forza politica e sociale che sempre più si stava affermando in quegli anni: il Partito Socialista. I caratteri distintivi del nuovo linguaggio architettonico

La forza innovativa del linguaggio emergente, quindi, era già esplosa con prepotenza a Bruxelles nelle opere di Hor-ta, che di poco precedettero la Maison du

peuple, e in particolare nell’Hotel Tassel

del 1893, unanimemente considerata co-me l’opera manifesto che diede il via al nuovo filone dell’Art Nouveau franco-bel-ga. In questa residenza-studio vengono di fatto introdotti e interpretati, già in chiave matura, molti concetti e neologismi che caratterizzarono in seguito l’intero movimento.

Innanzitutto l’uso del ferro come materiale da costruzione non mascherato, ma al contrario esibito e armonizzato con gli altri elementi di facciata. Questo che per Horta rappresentava un espediente costruttivo di notevole importanza ed efficacia venne inizialmente considerato dall’opinione pubblica una soluzio-ne «eretica» per l’architettura residenziale dell’epoca. L’utilizzo in facciata di profilati in ferro di produzione industriale permetteva, in pratica, al progettista di contribuire alla soluzione dell’annoso problema dell’illuminazione naturale degli ambienti interni, tipico delle tipologie residenziali cittadine caratterizzate da un breve fronte stradale e da un lungo sviluppo in profondità («case a torre su lotto fiammingo»). Il ferro, di fatto, era già stato impiegato in architettura nel secolo precedente, conoscendo la sua massima fortuna nell’Ottocento con le grandi esposizioni universali a partire da quella di Londra del 1851. Il suo uso, però, era perlopiù limitato ad architetture effimere, edifici industriali o serre, oppure per elementi di arredo urbano; di certo alla fine del XIX secolo veniva ancora considerato un materiale non idoneo per edifici residenziali, tanto meno per abitazioni medio-alto borghesi.

Superati, però, i feroci attacchi iniziali della critica conservatrice e degli organi di stampa vicini alla borghesia locale, i quali asserivano che «il ferro fa

Ritratto di Victor Horta apparso sul giornale «Le Peuple» il 3 Aprile 1899

(J. Delhaye, La Maison du Peuple de Victor

popolo», le residenze di Horta riscossero enormi consensi di pubblico, proiet-tando l’architetto all’attenzione dell’elite della committenza della capitale.

L’uso disinvolto ed emancipato del ferro in facciata, così come all’interno, oltre a fornire diversi vantaggi costruttivi e funzionali, che permettevano di ridurre al minimo gli ingombri strutturali a favore di libere distribuzioni interne e ampie superfici vetrate, costituiva un significativo espediente per la riduzione dei tempi e dei costi d’opera. Oltre a ciò, la libertà costruttiva e formale offerta dal materiale, che fino ad allora veniva considerato «povero», forniva parecchi spunti per una mente creativa quale quella di Horta, che ne fece lo strumento principale della propria poetica.

In questo modo quella che inizialmente fu considerata una soluzione «scanda-losa» ed «eretica» si tradusse, in seguito, nel leit-motiv del nuovo linguaggio archi-tettonico di cui si fecero promotori numerosi colleghi e adepti del maestro di Gand. I numerosi e celeberrimi neologismi introdotti da Horta sin dalle prime opere importati costituiranno un campionario vastissimo di soluzioni tecnico-costruttive, nonché estetico-formali, di notevole portata, dove il tema della plasticità basata sulla armonia compositiva di linee e superfici curve si intreccia indissolubilmente con la poetica del simbolismo.

Il tema della linea curva, di chiara ispirazione naturalistica, così come le colonne e i capitelli fitomorfi (ma ridotti a «scheletro»), oltre a rappresentare

Hotel Tassel a Bruxelles - esterno e particolare dell’interno (F. Borsi-P. Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari 1996)

un neologismo assoluto per l’architettura occidentale, costituiscono un primo passo verso un linguaggio decorativo astratto che verrà sviluppato di lì a poco dalle avanguardie dei primi decenni del secolo successivo.

Una nuova sede per la Società Cooperativa

Il destino della Maison du peuple di Bruxelles può dirsi originato con la nascita a Gand del Vooruit, e del forno cooperativo collegato al movimento.

Dopo il 1886 si ebbe a Bruxelles la prima sede in rue de Bavière nei locali di un’antica sinagoga che, oltre ad un caffé, comprendevano piccole e grandi sale che servivano per l’organizzazione operaia.

Nel ’88 fu costituita la società che produceva cinquecentomila pani all’anno, e che presto – quattro anni dopo – sfiorò i quattro milioni, mentre si aggiungevano la ma-celleria e il servizio medico e farmaceutico. Nel 1892 la società prese definitivamente la denominazione di Maison du peuple, Società Cooperativa Operaia di Bruxelles. Ma la vecchia sinagoga di rue de Bavière non bastava: più che una sede occorreva un centro sociale. All’indomani del successo elettorale che aveva dato al Parti Ouvrier Belge oltre trecentomila voti e ventotto seggi in parlamento, si decise di costruire un nuovo edificio1.

La nuova Casa del popolo della capitale, come del resto accadeva per tutte le altre realtà minori decentrate, aveva il compito non solo di riunire sotto un unico tetto le attività e funzioni legate alla Cooperativa e agli organi di Partito, ma doveva fungere da elemento catalizzatore delle nuove forze e idee emergen-ti; «…strumento e simbolo ad un tempo della solidarietà morale e materiale che cementava tutte le forme di organizzazione proletaria in vista di un’azione comune»2.

Di fatto entro le mura della neonata sede troveranno posto oltre agli uffici amministrativi e di rappresentanza dell’attività cooperativa e sindacale, vari locali per riunioni politiche e attività culturali, una grande sala per conferenze e spettacoli, locali per attività commerciali ed il caffé (per continuare nella tradi-zione della sede di rue de Bavière), che doveva fungere da luogo di aggregatradi-zione in occasione dei numerosi eventi collegati alle attività svolte.

Nelle sue memorie l’architetto scriverà:

1. F. Borsi-P. Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 147. 2. Ivi, p. 146.

….si trattava di costruire un palazzo che non sarebbe stato un palazzo ma una casa in cui l’aria e la luce avrebbero rappresentato il lusso per tanto tempo escluso dalle cata-pecchie operaie; una casa che sarebbe stata sede dell’amministrazione, di cooperative e di riunioni politiche e professionali, di un caffé in cui i prezzi delle consumazioni sarebbero stati commisurati alle aspirazioni dei dirigenti in lotta contro l’inveterato alcolismo del popolo, di sale per conferenze destinate ad approfondire l’istruzione e, a coronamento del tutto, di una immensa sala per le riunioni politiche e i congressi del partito nonché per gli svaghi musicali e successivamente teatrali dei membri3.

I lavori ebbero inizio alla fine del 1895 e durarono, non senza polemiche, per tre anni e mezzo a causa di ritardi nelle forniture dei materiali e di varianti al progetto iniziale.

Horta si mette all’opera immediatamente: impiega sei mesi per elaborare un progetto preparatorio e tre mesi per lo sviluppo. [...] Tutto viene disegnato meticolosamente al vero, dai dettagli della facciata fino al minimo particolare dell’interno. Il giorno della inaugurazione si farà sapere che ci sono voluti 75 rotoli di 75 metri di carta alta un metro e cinquanta, pari a circa 8.500 metri quadri di disegni; equivalenti circa alla superficie della Grande Place di Bruxelles4.

Nel giorno di Pasqua del 1899 la Maison du peuple di Bruxelles apriva fi-nalmente i battenti, suscitando meraviglia e clamori nei giudizi del pubblico, della critica e degli organi di stampa.

«Le Peuple», nell’edizione dedicata all’avvenimento, pubblica disegni degli aspetti più caratteristici dei locali: «tutta luce e tutta forza aperta al sole che l’inonda, appoggiata su una muscolatura di ferro che la sostiene, indistruttibile, la nouvelle Maison du peuple di Bruxelles appare in faccia alla capitale che essa domina come all’avvenire che essa evoca. Dall’alto della terrazza tutti i monu-menti della città sembrano ai suoi piedi. Anche la cattedrale paga il suo tributo di sottomissione al socialismo trionfante; la vecchia fede si inchina davanti alla nuova fede»5.

3. V. Horta, Memorie, pp. 48-9.

4. F. Borsi-P. Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 150. 5. Ivi, p. 151.

L’organismo architettonico

L’approccio a questa importante opera mise da subito l’architetto davanti a diversi problemi di carattere progettuale: da un la-to c’era la questione vincolante dettata dalla forma del terreno destinato all’edificio (un lotto dal perimetro estremamente irregola-re ed affacciato su di una piazza ellittica), dall’altro si poneva l’esigenza di dover far convivere all’interno del medesimo orga-nismo architettonico numerose ed etero-genee attività e funzioni.

Traendo spunto da tali difficoltà e vin-coli iniziali Horta mise a punto un cam-pionario di soluzioni tecniche e formali che, oltre a costituire importanti novità nel panorama architettonico dell’epoca, caratterizzarono fortemente l’opera finita.

Agli ostacoli dovuti alla forma del lotto da edificare e alla necessità di una grande flessibilità funzionale e distributiva il progettista ovviò adottando un sistema costruttivo a «pianta libera triparti-ta», dove le principali strutture portanti erano costituite da profilati in ferro di produzione industriale, alternati a due sole spine murarie rese necessarie per ovviare alle grandi dimensioni ed alla forma irregolare dell’edificio. Tale sistema permetteva di ottenere piante sostanzialmente libere da ingombri strutturali caratteristici degli edifici tradizionali in muratura, a favore di una flessibilità spaziale che si poteva riflettere in schemi distributivi liberi e svincolati, diver-samente organizzabili ai vari piani dell’edificio.

Al piano seminterrato trovavano spazio i locali di servizio adibiti principal-mente a magazzino per i materiali e le merci utili alle attività che si svolgevano ai piani superiori, al deposito dei cibi e delle bevande servite nel caffè, unitamente a laboratori per vario uso e locali tecnici.

Al piano principale, rialzato di poco rispetto al livello della strada, erano ubicati il grande caffé, in posizione centrale e costituito da un ampio salone a doppio volume senza alcun diaframma divisorio interno, ampi spazi per le attività commerciali, nonché gli uffici per le attività sindacali che richiedevano un contatto diretto con il pubblico. È a questo livello che risalta più chiara-mente l’importanza della flessibilità strutturale messa in campo dal progettista, in quanto le diverse attività potevano articolarsi in spazi più o meno aperti a seconda dell’esigenza e della natura della funzione svolta.

Affiche per l’inaugurazione della Maison du

peuple del 1899

(J. Delhaye, La Maison du Peuple de Victor

I due piani intermedi erano destinati ad uffici e locali di supporto per le attività dei sindacati, della cooperativa e degli altri organi di partito, nonché ad ulteriori spazi per attività commerciali. In questi ambienti, dove si rendeva necessaria una maggiore separazione delle funzioni, la divisione degli spazi veniva ottenuta mediante l’utilizzo di setti leggeri in muratura.

A doppio volume, ai piani superiori (quarto e quinto livello), laddove non vi era più una necessità statica di natura portante, lo spazio veniva liberato dagli ingombri strutturali ed adibito a grande sala per spettacoli e conferenze con una capienza di millecinquecento posti a sedere.

In questo caso le valutazioni fatte dalla committenza, di concerto con il progetti-sta, che portarono alla scelta di ubicare tale spazio ai piani alti dell’edificio, dovevano

Planimetrie dei vari livelli (da sinistra a destra e dall’alto al basso: piano seminterrato, piano principale, piano primo, piano secondo, piano terzo, ultimo piano)

La sala del caffè e la sala spettacoli e conferenze (foto d’epoca)

(Fonti - per la prima immagine: J. Delhaye, La Maison du Peuple de Victor Horta, Atelier Vokaer, Bru-xelles 1987 - per la seconda immagine: F. Borsi-P. Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari 1996)

aver privilegiato la sicurezza e la protezione delle attività politiche e sindacali a scapito della logica che esigeva la sicurezza dei sistemi di evacuazione dei locali.

Il concetto di «pianta libera», coniato e reso celebre dai maestri del movi-mento moderno a partire dagli anni ’20 del secolo successivo, era in realtà già insito in forma embrionale nelle soluzioni costruttive delle case a torre su lotto fiammingo, ma fu Victor Horta in questa sua grande opera a sperimentarlo e svilupparlo per la prima volta in chiave moderna.

Un’altra impronta caratteristica e anticipatrice, propria della nuova Casa del popolo di Bruxelles, è rappresentata dal linguaggio architettonico improntato alla massima «sincerità costruttiva» dell’edificio: diversamente dalle sue ormai note prime opere residenziali, il maestro qui concede minor spazio alle compo-nenti decorative, limitandole ad alcune parti terminali in ferro e agli elementi di ringhiera; questo sicuramente anche in ragione della natura stessa e della fun-zione dell’edificio. Tutto l’organismo è caratterizzato dalla chiara denuncia dei materiali e del sistema costruttivo impiegato, come si può chiaramente leggere anche in facciata, senza però prescindere dalla rigorosa metrica compositiva nell’alternanza tra vuoti e pieni che caratterizza tutte le opere di Horta.

La facciata principale (foto d’epoca) (J. Delhaye, La

Mai-son du Peuple de Victor Horta,

È dagli accostamenti per contrasto dei diversi materiali da costruzione (con le loro differenze cromatiche) e dallo studio di pregevoli e innovative soluzioni per i nodi d’aggancio tra ferro e pietra che prende corpo l’identità formale e la poetica dell’edificio.

La presenza di caratteri tipici della tradizione fiamminga, rappresentati dalla pietra intervallata a corsi in laterizio, alternata ad elementi distintivi della modernità, quali il ferro e le ampie aperture vetrate, in un linguaggio disinibito, ma sempre sottoposto al dominio compositivo e formale dettato dal progetti-sta, costituisce le fondamenta della nuova poetica che, secondo alcuni critici e studiosi della materia, anticipa alcuni temi e contenuti propri dei movimenti d’avanguardia che seguiranno.

Raramente ai tempi si potevano ravvisare in un unico edificio tanti fattori in-novativi e temi anticipatori: dall’uso del ferro per ottenere uno schema a «pianta libera», all’abbattimento dei costi e dei tempi di realizzazione mediante sistemi di produzione industriale (la prefabbricazione vera e propria si svilupperà solo dopo la prima guerra mondiale); dal concetto della «sincerità costruttiva» di tipo proto-brutalista, al tema della «polimaterica» (in seguito approfondito dai futuristi); dall’uso sapiente e disinibito dei sistemi tecnologici sino al controllo formale e compositivo completo dell’opera (marchio di fabbrica della nascente architettura Art Noveau).

Anche l’articolazione in alzato degli spazi, basata sulla verticalità controllata e sul dinamismo spaziale frutto dell’interazione delle componenti luce e aria all’interno del processo progettuale, costituisce il marchio di fabbrica della nuova architettura di Horta.

Tali caratteri di novità fecero si che l’opera del maestro belga tracciasse un solco profondo tra la tradizione e le nuove prospettive future. In questo senso la

Particolari costruttivi

Maison du peuple di Bruxelles può considerarsi tra gli esempi più indicativi di

questa spinta innovatrice, costituendo un vero e proprio modello, architettonico e simbolico, per le numerose altre strutture omologhe che di fatto andavano a costituirsi nelle Fiandre ed oltre confine.

Il triste epilogo

I toni e gli umori entusiastici legati ai giorni dell’inaugurazione ed ai primi decenni di attività della neonata Casa del popolo si scontrarono, negli anni a venire, con diversi problemi legati alle rinnovate esigenze di espansione ed ammodernamento dell’organismo, che doveva continuare a fungere da cuore pulsante del partito e da efficiente fulcro delle numerose attività e dei vari organi ad esso collegati.

Tali problemi risultavano insiti nella natura stessa dell’edificio concepito all’origine, che si trovava intercluso a ogni possibilità di espansione e impossi-bilitato a qualsiasi significativa modifica funzionale.

Nelle sue memorie l’architetto lasciava presagire la sorte finale della sua opera simbolo:

Da allora, la Maison du peuple è stata ingrandita senza la mia collaborazione, ed è inol-tre stata dipinta e ridipinta senza minimamente preoccuparsi di come fosse all’epoca dell’inaugurazione.

Essa non è riuscita a ingrandirsi in proporzione al partito. Dovendo rifarla, bisogne-rebbe darle tutto un altro carattere, perché non ha più alcun rapporto con le esigenze di un partito predominante.

L’insegna di ieri non è più l’insegna di oggi.

Non mi stupirei che venisse demolita, nel qual caso subirebbe la stessa sorte già toccata a molte altre mie opere...6.

Nel 1964, infatti, dopo lunghi e accesi dibattiti e nonostante le numerose campagne di protesta che arrivarono a mobilitare importanti istituzioni, oltre ad architetti e intellettuali di rilievo di ogni provenienza, l’edificio fu definitivamen-te smandefinitivamen-tellato per scelta del partito sdefinitivamen-tesso. Sull’onda della pressione speculativa dell’epoca, infatti, il centralissimo lotto sul quale insisteva il fabbricato venne venduto a una impresa di costruzioni che rimpiazzò la casa del socialismo belga con un anonimo e altrettanto orribile edificio, in netta contrapposizione con i caratteri architettonici e urbanistici del luogo.

Un grattacielo della più triviale retorica che in Italia chiameremmo «piacentiniana» sostituirà con la sua bolsa monumentalità il piccolo capolavoro della place Vandervelde. [...] Una campagna fotografica e di rilievi che si devono alla devozione di Jean Delhaye, la conservazione di alcuni elementi strappati alla demolizione oggi trasferiti nel Mu-seo Horta: ecco ciò che resta di un edificio che dopo i palazzi comunali del Medioevo costituisce una invenzione fondamentale dell’architettura laica, una pietra angolare dell’architettura moderna7.

Bibliografia

L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1992. F. Borsi-P. Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari 1996.

J. Delhaye, La Maison du Peuple de Victor Horta, Atelier Vokaer, Bruxelles 1987. K.J. Sembach, Jugendstil, Taschen, Köln 1991.

Appunti dalle lezioni del corso universitario di Storia dell’architettura 2, tenuto dal prof. Ezio Godoli, presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Firenze (A.A. 1994-95).

7. F. Borsi-P. Portoghesi, Victor Horta, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 164. L’edificio in origine (foto d’epoca)

Le operazioni di demolizione (J. Delhaye, La Maison du Peuple de

Victor Horta, Atelier Vokaer,

Bru-xelles 1987)

L’edificio ai nostri giorni

La diffusione dell’esperienza delle case del popolo