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Il Convegno - Massenzatico, 26 settembre 2009 1893 - “L’Artigiana” a Massenzatico

Il convegno di questa mattina porta come titolo «Di nuovo a Massenzatico». Allora è d’obbligo chiedersi, l’altra quando fu? Ebbene, non fu pochi giorni fa, ma il 9 settembre 1893. Infatti per la prima volta qui convennero i delegati che parteciparono a Reggio Emilia al secondo congresso nazionale del Partito Socialista dei Lavoratori ed erano accompagnati da Camillo Prampolini. Si inaugurava allora, alle ore 17.30, il fabbricato della Cooperativa di consumo di Massenzatico che diventerà, poi, la prima Casa del popolo italiana.

Quanta storia di cui, voi abitanti di questa località, potete gloriarvi e andare fieri! Scriveva, allora, Camillo Prampolini su «La Giustizia», da lui fondata e che porterà come sottotitolo «Organo degli sfruttati», proprio riferendosi all’inau-gurazione di quei locali: «I nostri avversari hanno chiamato crapula la merenda di Massenzatico (cioè una bottiglia di vino, due fette di salame ed un pezzo di formaggio) ed hanno gridato allo “sciupìo di denaro e mezzi”». Gli avversari di allora erano i conservatori-clericali, che si trovavano al governo, che avevano scaricato sul giovane partito socialista (nato nel 1892 a Genova) una pioggia di critiche. E perché, si chiedeva Prampolini, tutto questo odio contro di noi? Rispondeva: «Perché ci siamo trovati forti come neppure i più ottimisti fra noi avrebbero osato sperare».

Pareva un sogno, che le diverse frazioni dei socialisti italiani potessero concordemente raggrupparsi sotto una sola bandiera e quel sogno allora si avverò. E Massenzatico ebbe l’onore di festeggiare quell’avvenimento. Pur-troppo oggi, a 116 anni di distanza, le forze di sinistra e soprattutto le forze socialiste sono più divise che mai e il sogno di Prampolini è ancora più lon-tana di prima. Questo convegno, al di là della riconoscenza che dobbiamo a Prampolini e a Massenzatico, vorrei che fosse un campanello d’allarme, un richiamo al senso di responsabilità per tutti. Io credo di essere uno dei pochi a possedere la collezione completa de «La Giustizia» di Prampolini, dal pri-mo numero del 29 gennaio 1886 fino a quando il giornale ha potuto uscire e cioè prima che la canea fascista bruciasse la sede e costringesse Prampolini ad abbandonare Reggio.

In queste sere ho rilette quelle pagine del settembre 1893 che riassumo-no gli avvenimenti di Massenzatico che oggi ricordiamo. Fare politica in quei difficili e lontani anni voleva dire lotte operaie e contadine, battaglie agrarie, fondazioni di cooperative di lavoro e di consumo, apertura di case del popolo; voleva dire sacrificio personale e responsabilità collettiva; voleva dire vivaci e fumose riunioni nelle sedi del partito, comizi e dibattiti in piazza; voleva dire non aver paura di difendere con coraggio, con lealtà e con dignità un’idea per la quale valeva la pena di sacrificarsi.

Nelle discussioni la parola che risaltava evidente più di ogni altra era «di-gnità». Era la storia degli operai, dei contadini, dei mezzadri, dei braccianti, degli sfruttati, dei disoccupati, in una parola, delle persone per bene che com-battevano per uscire da una vita di stenti e di miseria e creare un avvenire mi-gliore per tutti. Ci furono battaglie vinte ed altre perse, ma sempre con dignità, con passione, con onestà; concetti ormai lontani dai nostri giorni. Anche se la giustizia sociale e l’eguaglianza non sono mai completamente raggiunte, oggi, però, possiamo affermare che i lavoratori, al confronto di quei terribili, lontani tempi, hanno fatto passi da gigante.

Oggi altri gravissimi problemi ci assillano e ci sovrastano a livello mondiale. I lavoratori italiani attraverso varie associazioni, attraverso differenti organizza-zioni, attraverso amministrazioni democratiche hanno conseguito importanti risultati, ma esistono ancora molti traguardi di raggiungere.

Oggi i problemi da superare sono ben più vasti e di difficile soluzione. Dobbiamo costruire un’alleanza che disegni un futuro nel quale i nostri fratelli non vadano più a morire in Afghanistan od in altri lontani paesi del mondo. Dobbiamo costruire un avvenire nel quale tutte le nazioni della terra, l’America, la Cina, l’India, la Russia, Cuba, il mondo arabo e quello occidentale, le nazioni ricche e quelle in via di sviluppo possano progredire in pace ed in armonia, senza odi e senza guerre.

Siamo ancora, purtroppo, molto lontani a questi obiettivi. Io mi auguro che la manifestazione di questa mattina non sia solo il ricordo di uno storico ed im-portante avvenimento, ma sia uno sprone per trovare l’unità di tutte le forze alle quali sta a cuore il bene del nostro Paese e di tutti i lavoratori del mondo. Sono sempre valide le parole di Prampolini: «uniti siamo tutto, discordi siamo nulla».

Giuseppe Amadei

Sono diversi i motivi che hanno indotto il CCFS a finanziare questo tipo di ricerca e quest’iniziativa.

Il CCFS è il consorzio nazionale, aderente a Legacoop, che opera nel settore finanziario e che associa più di 1100 cooperative in tutt’Italia.

Adesso al solo parlare di finanza si rischia di venire associati alla «speculazio-ne», alla finanza di carta per fare carta, mentre invece il mettere a disposizione risorse finanziarie sappiamo che è uno dei motori fondamentali per lo sviluppo economico di qualsiasi comunità e di qualsiasi paese. Per questo sempre più voci ed anche autorevoli si alzano a dire che bisogna creare i presupposti per una finanza con maggiori controlli e sopratutto che sia etica.

Il Consorzio cooperativo finanziario per lo sviluppo, questo è il senso per esteso della sigla Ccfs, da 30 anni svolge questo tipo di attività; noi facciamo attività all’interno del sistema cooperativo con una raccolta finanziaria fra i soci che è, essenzialmente, controllata dagli stessi soci, e con un impiego esclusivamente sulle cooperative socie, con delle garanzie reali che non sono di carattere personale, ma sono solo di carattere aziendale. Questa attività finanziaria che svolgiamo a favore del movimento cooperativo, non è il fine: è un mezzo. Il fine è quello che ci dà lo statuto del Consorzio che è lo svi-luppo del movimento cooperativo. Per far questo ovviamente noi svolgiamo un’attività di carattere imprenditoriale che da un lato chiaramente impone valutazioni di carattere economico arricchendo così il patrimonio del Con-sorzio, e dall’altro ritiene fondamentale la politica etica nello svolgere questo tipo di attività.

Ecco, questo è senz’altro uno dei motivi che ha indotto il Ccfs a finanziare questo tipo di ricerca: la valutazione di un periodo storico che dalle nostre parti, nelle nostre città, nei nostri paesi e in gran parte della regione ha visto il sovrapporsi dello sviluppo della cooperazione e delle case del popolo.

Ma di motivi non c’è solo questo, noi abbiamo anche un motivo più pregnan-te, un po’ più personale che è rappresentato dal nostro legame col territorio. Il Ccfs nasce dal Ccfr che era il Consorzio cooperativo ferrovie reggiane ed era il Consorzio che nel 1904, quindi più di 100 anni fa, contese, vincendo, agli

indu-striali di allora, ai privati di allora, al Cavalier Menada che era il presidente degli industriali del tempo, l’appalto per la costruzione della ferrovia Reggio-Ciano.

Cioè allora le forze socialiste, i sindacati e le cooperative hanno dato vita a un Ccfr, a un consorzio cooperativo, per aggiudicarsi questo importante appalto, questa importante costruzione. L’appalto fu vinto con poco più di un milione di lire, che era una somma per quei tempi enorme. Quando le cooperative as-sociate nel Ccfr iniziarono la costruzione, furono sbeffeggiate dagli industriali; vennero diffusi proprio degli sberleffi anche con poesie e canti perché si pen-sava che mai e poi mai le cooperative fossero in grado, i lavoratori fossero in grado di realizzare questa ferrovia. Invece questa ferrovia è stata realizzata ed è la Reggio-Ciano con diramazione Barco di Bibbiano che è l’unico esempio, irripetibile nel nostro paese, di forze cooperative che si sono messe assieme per la realizzazione di questa grande impresa ferroviaria.

Per settant’anni, fino al 1974, il Ccfr a Reggio Emilia ha gestito i trasporti, poi, dal ’74 in avanti, ha svolto attività finanziaria all’interno del movimento cooperativo. Ecco quindi il motivo che ci ha indotto a finanziare questo tipo di ricerca: perché crediamo che la nostra attività a livello locale sia stata impor-tante determinando diverse sinergie dal punto di vista economico che hanno fatto sì che le case del popolo e la cooperazione collaborassero per lo sviluppo delle nostre comunità.

Quindi queste ricerche che ci portano un po’ alle nostre radici saranno sem-pre da parte nostra, da parte del Ccfs, valutate con molta attenzione e saremo disponibili ad essere uno dei protagonisti di questo tipo di lavoro.

Agostino Alfano

Amministratore delegato CCFS – Consorzio Cooperativo Finanziario per lo Sviluppo

Devo dire che anche per me è una riflessione «Di nuovo a Massenzatico»: non è un «di nuovo» geografico, non è un «di nuovo» temporale, mi sembra che chi ha organizzato quest’incontro abbia pensato a un «di nuovo» che ha un significato politico, anche culturale, cioè una riflessione su quello che è stato questo grande movimento socialista, cooperativo, riformista, nato alla fine dell’800 e cosa soprattutto questo movimento ci suggerisce oggi rispetto ai problemi che abbiamo davanti.

In realtà, prima di parlare della casa del popolo del 1893 e del secondo congresso socialista, vorrei parlare di qualche anno prima. Nel 1886 c’è il primo grande sciopero che coinvolge questa terra, è uno sciopero organiz-zato in realtà dalla cooperativa di Reggio Emilia a cui aderiscono non solo i braccianti, gli artigiani ed i contadini della zona di Reggio Emilia, ma pian piano molte altre zone. Si tratta del primo atto della lotta di classe organizzata che riguarda questa terra. Il primo atto in qualche modo in cui un conflitto sociale diventa un conflitto «di massa» e i cui i risultati diventarono concreti perché l’orario di lavoro diminuì, si portò l’orario di lavoro dei braccianti e dei salariati agricoli a 12 ore mentre prima era legato alla durata della gior-nata: si lavorava per tutto il tempo in cui c’era la luce. Si portò il salario di giornata da £1,60 a £2,15 per i muratori e gli specializzati, e da £1,50 a £1,70 per i non specializzati. Un esempio di come invece di muoversi per corpo-razioni, muovendosi con un movimento di popolo più ampio si ottennero grandi vantaggi.

A noi sembra oggi una cosa banale dopo più di 130-140 anni di esperienza politica e sindacale, ma allora non fu una cosa banale. Voglio dire che si arriva alla prima casa del popolo, che è questa di Massenzatico, con un movimento di popolo che esprime una maturazione formidabile. Non è semplicemente lo slancio idealistico dei primi socialisti ma è una maturazione-slancio in cui in qualche modo dei fatti concreti coinvolgono una parte importante di quel po-polo. Teniamo presente che sono anni di grande povertà perché dopo l’Unità d’Italia questo paese, anche in aree come questa di Reggio Emilia, vive una fase di grandissima difficoltà e povertà.

Sono anni in cui ci si organizza e le forme di questa organizzazione diven-tano via via più mature e danno luogo a quel grande movimento che diventa poi il movimento operaio-socialista. La casa del popolo è il luogo in cui insie-me c’è il partito, che viene dopo, c’è la cooperazione, c’è il sindacato, ci sono tutte quelle esperienze che fanno della casa del popolo una casa-comunità, un posto in cui si forma per soggetti e persone diverse una coscienza comu-ne collettiva. Questa cosa è in realtà il vero «tessuto concomu-nettivo» di quella che poi sarà l’evoluzione del pensiero prampoliniano, che verrà definito «di cooperazione integrale».

Questo riformismo è un riformismo che si contrappone all’anarchismo di quegli anni, di alcune tendenze, ma non è affatto quello che la parola assumerà in anni recenti; oggi per riformismo ancora intendiamo qualche cosa di un po’ debole con cui si intende migliorare qualcosa dell’esistenza.

No! Allora era un riformismo molto forte, fatto anche di organizzazione, conflitto sociale basato sulla convinzione che solo attraverso movimenti di po-polo, dentro il meccanismo economico che conosciamo, si potessero ottenere cambiamenti profondi.

Cosa ci dice oggi quell’esperienza? Io mi sono interrogato su questo e credo che occorra chiederselo. Già lo diceva anche Amadei: «Cosa si dice oggi di fronte alla crisi drammatica degli ultimi anni dell’economia, non solo del nostro paese, ma anche dell’economia mondiale?». A mio modo di vedere ci dice ancora delle cose importanti, ma soprattutto ci dice che un’idea di comunità è un’idea che vede l’economia non lasciata solo agli spiriti animali, ma la vede nell’ambito di un’orga-nizzazione sociale più forte, che assicura protezione all’economia e alle persone. Noi veniamo da una fase, un ciclo di 20-25 anni, in cui un liberismo molto spinto, teorizzato e poi praticato, ha prodotto livelli di indebitamento enormi, livelli di speculazione molto grandi – l’accennava anche Alfano – azzardo morale da parte di chi ha gestito le imprese, l’economia, l’idea che i risultati debbano essere subito percepibili a breve e importanti perché altrimenti gli azionisti non ti danno il loro sostegno, non ti riconoscono enormi benefits. Cioè veniamo dall’idea che sia possibile costruire una ricchezza molto forte, attraverso un enorme azzardo morale. E di questa idea, guardate bene, non si sono imbevuti solo pochi capitalisti che operano nelle borse mondiali, quest’idea è penetrata in profondità in tante realtà, in tanti soggetti, in tanti operatori, anche nell’e-conomia che noi conosciamo di questa terra, che di certo non è fatta di grandi imprese multinazionali. È un’idea che si è fatta strada e ha prodotto quest’e-splosione drammatica a cui probabilmente non può bastare una risposta di sostegno temporaneo della domanda, non basterà un qualche provvedimento limitato per far passare la nottata.

Se uomini politici che fino a qualche tempo fa dicevano ben altre cose, par-lano di economia sociale di mercato o criticano il mercatismo – uomini politici

come Tremonti – c’è da interrogarsi su quali danni profondissimi ha prodotto questa crisi. E allora noi ci dovremmo chiedere, noi che in qualche modo siamo stati anche quasi una minoranza culturale in questi anni, se le cose che abbiamo alle nostre spalle e se le cose soprattutto che stiamo facendo dicono qualcosa a questa possibile riforma che oggi è all’ordine del giorno nei sistemi economici.

Io penso che il movimento cooperativo abbia qualcosa di importante da dire e lo possa dire a maggior ragione se allo stesso tempo i principi fondamentali dell’essere cooperativa vengono rivisitati, riaffermati e rilanciati con forza e le nostre imprese sono in grado di misurarsi con mercati, contrasti, problemi che non sono più, ovviamente, di naturale locale, ma sono di natura mondiale.

Noi possiamo dire qualcosa, le nostre sono imprese che non cercano il pro-fitto a breve termine ma devono creare un valore di più lungo periodo. Sono cooperative che hanno mantenuto salda l’idea che più persone, più soggetti attraverso il sistema di una testa e un voto, partecipano alla vita della coope-rativa. Sono imprese che non hanno ceduto all’idea che l’arricchimento dei singoli, delle imprese, sia un processo semplice, ma che sono rimaste convinte che l’arricchimento o è collettivo o non può essere duraturo.

Marco Pedroni