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La diffusione dell’esperienza delle case del popolo nel movimento cooperativo europeo

Ringrazio per l’invito, qui in Emilia, dove abbiamo dei cari amici, da Ro-berta Pavarini della Circoscrizione Nordest, allo storico Antonio Canovi, ai compagni della Cooperativa case popolari di Mancasale e Coviolo, e altri ancora presenti in sala.

Mi è stato affidato il compito di parlare della diffusione dell’esperienza delle case del popolo nel movimento cooperativo europeo; un tema complicato da approcciare in pochi minuti, ma indubbiamente centrale nella storia che io sono qui a rappresentare insieme alla delegazione che è giunta da Saint-Claude.

Dal punto di vista dello storico, c’è un primo aspetto da cogliere: gli storici non si sono interessati molto al movimento delle case del popolo in Europa. Il movimento operaio è stato studiato soprattutto dal punto di vista della storia dei sindacati, della politica, dei partiti – e qui soprattutto dei partiti socialisti e comunisti. Ha ricevuto un’attenzione infinitamente minore la storia della cosiddetta «terza via», della cooperazione.

In secondo luogo – ce lo racconta già l’esistenza di questo luogo, il Teatro Artigiano annesso alla Cooperativa di consumo di Massenzatico – si tratta di studiare in modo comparato il rapporto che intercorre tra l’insorgere dell’idea della casa del popolo e la diffusione delle pratiche cooperativistiche, soprattutto della cooperazione del consumo.

C’è un aspetto critico, lo dico da archivista: il materiale documentario disponibile per studiare sistematicamente questo rapporto è raro, nel senso che gli archivi ci sono però non sono stati prima assemblati e poi studiati da quest’angolazione, pertanto risulta difficoltoso ricostruire in chiave comparata le cooperative di consumo e le case del popolo.

Si tratta – e siamo alla terza considerazione – di due concetti diversi. La cooperazione nasce – anche se è una parola molto antica – nel mondo cristiano; quindi rinasce all’inizio dell’Ottocento e arriva a noi continentali dalla Gran Bretagna. La cooperazione inglese prende ispirazione dal mondo associativo.

* Responsabile degli Archives de la Maison du peuple di Saint-Claude. Revisione editoriale a cura di Antonio Canovi.

In tale quadro, i Pionieri di Rochdale – vicino a Manchester – immaginano la prima bottega cooperativa di consumo; poi, visto che la cosa funziona, scrivono la First Law, la Prima Legge; quindi si preoccupano di diffondere le loro regole in Europa e anche più in là.

La cooperazione è dunque un tipo di aggregazione, mentre la casa del popolo è un luogo, un edificio. Sono due concetti molto diversi.

Il concetto di casa del popolo nasce in Belgio, nelle Fiandre, dove gli ope-rai, già politicizzati, cercavano un luogo di riunione che veniva loro negato. Il potere costituito, trovandosi di fronte ad operai entrati nell’orbita della politica, rifiutava loro il posto dove fare i meeting. Perciò si mettono alla ricerca del luogo ideale. Un luogo «naturale» c’era, per la verità: il caffè, l’osteria, dove si poteva bere ma anche parlare, scambiare idee e costruire dei progetti. Il caffè,

l’estaminet come si dice in Belgio, diventa il posto essenziale, il centro di questo

mondo. Però è troppo piccolo per i meeting politici, dunque, dietro il caffè, nell’orto, nel cortile, si costruiscono una baracca, qualcosa di legno, un’aula un po’ grande per i meeting, ma anche per curare l’aspetto di socialità, il ballo, le feste, i festeggiamenti, i canti…

Questi due elementi fisici costituiscono il primo polo della casa del popolo e il genio, possiamo dire così, degli operai del Belgio è di aggiungere una co-operativa di consumo. Nel loro caso, soprattutto una panetteria coco-operativa, in qualche caso la cooperativa di alimentari. Ecco, ora abbiamo i tre elementi che servono per fare una casa del popolo: il caffè, il salone dei meeting, la coo-perativa di consumo. Tra l’altro, il termine casa del popolo affonda a sua volta nella tradizione biblica, aggiorna, se vogliamo, l’idea cristiana di aggregarsi in un posto unico dove tutti possono ritrovarsi per cambiare il mondo intero. È propriamente la radice della Ecclesia; la novità dei socialisti belgi è che, insieme al latino, lo spogliano del lato religioso.

Questi due concetti – la cooperazione di consumo e la casa del popolo – na-scono entrambi nel corso del XIX secolo. Poi, a partire dagli anni ’70, s’incon-trano e cominciano ad apparire insieme. In Belgio danno vita a un modello che si presterà poi ad essere diffuso nell’intero continente.

Il punto è che non conosciamo veramente le strade per cui s’incontrano, salvo qualche caso sporadico ed eccezionale. Massenzatico è conosciuta perché l’inaugurazione avviene in concomitanza con il congresso socialista, e si sa che erano presenti pure esponenti socialisti dal Belgio. Nel caso nostro, della

«Frater-nelle» a Sainte-Claude, il legame con il Belgio passa attraverso un’industria allora

molto importante, di taglio dei diamanti. Si trattava di un’industria che era ar-rivata per il traino di alcuni negozianti parigini, i quali lavoravano inizialmente con gli operai di Anversa (Antwerpe), nelle Fiandre. La diffusione dell’industria diamantifera nel Jura avviene grazie al supporto tecnico diretto degli operai fiamminghi, i quali nelle loro valigie portano anche l’idea cooperativa.

At-traverso lo scambio delle pratiche e delle culture, nei caffè, sono immagi-nate prima la cooperativa operaia e poi la casa del popolo. Ma bisogna an-che dire an-che è piuttosto difficile reperire una do-cumentazione tanto pun-tuale come noi abbiamo la fortuna di possedere.

Questa precisazione mi apre a un’ultima con-siderazione. Abbiamo, nel panorama europeo, diversi studi dedicati all’aspetto architettoni-co proprio delle case del popolo. La ragione è fa-cilmente comprensibile: esiste un linguaggio uni-versale dell’architettura, che può ben occuparsi, con i medesimi strumenti interpretativi, dei principi costruttivi o di distribuzione degli spazi negli edifici, a qualunque latitudine essi si trovino. Mentre è assai più complesso studiarne in chiave comparata gli aspetti sociali, proprio per l’estrema varietà e delle si-tuazioni nazionali e delle pratiche locali. Si tratta, infine, di studiare il modo in cui quegli edifici hanno funzionato, unendo competenze multiple, che vanno dall’estetica, alla storiografia, alla cultura materiale.

Personalmente, sono interessato a scavare in questa direzione perché riten-go che abbia molto da dirci sulla nostra condizione sociale presente. Se non sappiamo come il popolo si associava cento anni fa, come ha saputo o meno dare vita a una propria socialità, oggi risulta per noi difficile approntare una critica dei costumi sociali.

Vorrei concludere dicendo agli storici che occorre il coraggio per continuare queste ricerche, nella convinzione che, studiando il mondo di ieri, possiamo immaginarci quello di domani.

«Luoghi comuni» nella provincia di Modena: