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Il caso Englaro – Oggi: alla luce della L 219

CAPITOLO III: AUTODETERMINAZIONE E FINE VITA

3. Il caso Englaro – Oggi: alla luce della L 219

«L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere203».

La vicenda di Eluana Englaro ha inizio nel 1992.

La ragazza a seguito di un incidente stradale è costretta per diciassette anni in stato vegetativo permanente (SVP), durante i quali la sua sopravvivenza dipende dalla somministrazione di nutrizione e idratazione artificiali attraverso un sondino naso-gastrico (NIA).

Beppino Englaro, il padre della ragazza, nel 1997 ottiene l’autorizzazione a diventarne il tutore, due anni dopo dà avvio a quello che sarebbe diventato un lungo percorso giurisprudenziale. Chiede, infatti, al Tribunale ordinario di Lecco l’autorizzazione all’interruzione della NIA.

La prima sentenza204, del marzo 1999, dichiara inammissibile il ricorso, in quanto questi conteneva in sostanza una richiesta di eutanasia che non è ammissibile nel nostro ordinamento perché da un lato in contrasto con un principio fondamentale del nostro ordinamento, cioè l’art.2 Cost. per cui la vita è un diritto inviolabile dell’uomo, la cui dignità attinge a valore assoluto della persona e prescinde dalle condizioni anche disperate in cui si esplica la sua esistenza; e dall’altro l’art.579 c.p. prevede la fattispecie di omicidio del consenziente.

203 H. KÜNG, Morire felici?, Rizzoli, Milano, 2015. 204 Trib. Lecco, decr. 2 marzo, 1999.

In seguito, il tutore presenta reclamo, ex art. 739 c.p.c, avverso la decisione del Tribuanle di Lecco, alla Corte di Appello di Milano la quale rigetta con una motivazione che lasciava uno spiraglio di speranza per il futuro accoglimento della richiesta del tutore. La Corte infatti per prima cosa analizza se è possibile per il tutore esprimere il consenso per conto dell’incapace, e in tal senso afferma che questi ha “la cura” della sua persona ed è quindi legittimato ad esprimere consenso o rifiutarlo rispetto al “trattamento terapeutico205”.

La Corte affronta poi la seconda questione, ossia se lo stato vegetativo persistente di Eluana giustifichi il mantenimento delle cure in atto, e nello specifico dell’alimentazione artificiale. Analizzate le varie posizioni giuridiche e scientifiche, emerge come non sia consolidata l’opinione secondo la quale l’alimentazione artificiale rientri tra i trattamenti sanitari, pertanto non è nella disponibilità del tutore.

Tuttavia, la Corte nell’argomentare il rigetto, afferma che «definire la nutrizione e l’alimentazione somministrate con sonda nasogastrica a come trattamento terapeutico consentirebbe di invocare il principio di divieto di accanimento terapeutico, basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona. Il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta davanti all’incurabilità della malattia, giacché ogni prostrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto in oggetto, viola la sua dignità206».

205 Come d’altronde già affermato dall’art.6 della Convenzione sui diritti umani e

la biomedicina, adottata a Strasburgo nel 1996.

Nel 2002 il tutore di Eluana richiede nuovamente al Tribunale di Lecco la cessazione delle cure, ma il Tribunale rigetta il ricorso ritenendolo infondato nel merito.

«Il Tribunale osserva che i poteri di “cura” dell’incapace attribuiti al tutore sono solo quelli diretti “alla conservazione della vita dello stesso”, con esclusione quindi, di quelli che hanno la finalità di sopprimere l’assistito207» Vanificando in questo modo la sentenza del tribunale di Milano che si incentrava proprio su una attesa futura convergenza di opinioni208 sulla considerazione dei trattamenti NIA come di natura sanitaria.

Contro questa decisione il tutore presentò nuovamente reclamo. La Corte d’appello di Milano209 concentra la sua attenzione sul valore da attribuire ad una eventuale volontà anticipata, richiamando quindi l’eventuale validità attribuibile ad un testamento biologico (al tempo non ancora riconosciuta da parte della legislazione nazionale). La corte afferma che attribuire validità alla volontà anticipata espressa dalla paziente sarebbe “praeter legem” e non già “contra legem”.

Qualche anno più avanti la stessa Corte210 ritenne che se anche al tutore fosse riconosciuta la facoltà di rifiutare il trattamento questo contrasterebbe con i principi costituzionali: in particolare con l’art. 2 e 32 Cost. in quanto un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita un soggetto in SVP, non solo è lecito, ma è dovuto; e inoltre

207 Trib. Lecco, 15-20 luglio, 2002.

208 Per cui era stato aperto un dibattito scientifico, vd. la Commissione Oleari. 209 C. A. Milano, 17 ott.-10 dic., 2003.

contrasterebbe anche con l’art. 13 in rapporto all’art. 32 Cost. poiché in un soggetto in SVP il conflitto tra diritto all’autodeterminazione e il diritto alla vita è solo ipotetico e deve risolversi a favore di quest’ultimo dato che non c’è alcun profilo di autodeterminazione da tutelare.

La svolta decisiva arriva con la storica sentenza n. 21748 del 2007 della Cassazione.

Muovendo dal principio personalista alla base del consenso informato e dal principio della parità di trattamento, la Corte ritiene essenziale ricostruire il dualismo medico- paziente che in un soggetto cosciente presenta da un lato l’autodeterminazione del malato e dall’altra l’autolegittimazione del sanitario.

Tuttavia, l’autodeterminazione in un soggetto che versa in SVP viene a mancare e l’autorizzazione all’interruzione del trattamento può avvenire solo in presenza di due circostanze concorrenti211, espressione l’una del principio del best interest212, l’altra del substituted judgement213. La prima, di natura oggettiva, è rappresentata da un rigoroso accertamento diagnostico sulla condizione dello SVP che, secondo standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, deve essere accertata come irreversibile. La seconda, di stampo soggettivo, focalizza l’attenzione sulla personalità, sui convincimenti e sullo stile di vita del soggetto, che dovranno corrispondere al suo modo di concepire l’idea stessa della persona prima di cadere nello stato di incoscienza. In difetto dell’uno o l’altro

211 Cass. civ., Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748, punto 8.

212 Criterio prevalentemente utilizzato dalle corti del Regno Unito.

213 Meccanismo che nasce e si afferma progressivamente nella tradizione giuridica

presupposto dovrà essere data assoluta prevalenza al diritto alla vita.

Nel rispetto dei principi enunciati dalla Cassazione, la Corte d’appello di Milano accoglie con decreto del 25 giugno 2008 l’istanza di sospensione dei trattamenti avanzata dai legali rappresentanti di Eluana; il ricorso del procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano contro tale decisione viene dichiarato dalla Cassazione214 inammissibile per difetto di legittimazione.

Il caso vede il Parlamento sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Cassazione e della Corte d’appello di Milano, ricorso dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale215. Il lungo percorso si conclude solo nel febbraio del 2009 con il trasferimento216 di Eluana in una clinica di Udine e la sospensione dei trattamenti.

Da ultimo, il Consiglio di Stato ha riconosciuto il diritto del padre di Eluana di ottenere dalla regione Lombardia un risarcimento per lesione di specifici diritti inviolabili, «a fronte del diritto, involabile, che il paziente ha, e nel caso di specie si è visto dal giudice ordinario definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato, non potendo essa

214 Cass. civ. sez. un., Sent. 13 novembre 2008, n. 27145 215 Corte cost., ord. 8 ottobre 2008, n. 334.

216 Necessario a causa del rifiuto della regione Lombardia di mettere a disposizione

una struttura nella quale dare attuazione alla sentenza della Corte d’appello di Milano.

contrapporre a tale diritto una propria nozione di prestazione sanitaria né subordinare il ricovero del malato alla sola accettazione delle cure217 »

Dunque, alla luce della L. 219, di cui il caso Englaro è predecessore, quale sarebbe l’esito della vicenda oggi? Il legislatore del 2017 ha il merito di aver tracciato in modo lineare i punti fondamentali della “relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico”, nella quale “si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico” e nella quale il tempo della comunicazione è considerato “tempo di cura218”.

Dal riconoscimento del consenso informato, quale principio su cui si impernia la relazione medico-paziente, discende non solo la libertà di scelta del trattamento, ma anche la facoltà di rifiutare lo stesso o di interromperne uno già in corso.

Quanto all’estensione del rifiuto, la norma è di estrema chiarezza: riguarda tutti i trattamenti sanitari e quindi compresi quelli di nutrizione e idratazione forzata, ricordando le parole della Cassazione questo deve avvenire «nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno [… ] per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza

217 Consiglio di Stato, sez. III, Sent. 21 giugno 2017, n. 3058. 218 Art. 1, commi 2 e 8, L. 22 dicembre 2017, n. 219.

e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale.

Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico219».

Tuttavia, il legislatore non sembra aver accolto la soluzione dell’autodeterminazione “presunta”220, dando centralità all’autodeterminazione espressa tramite lo strumento delle DAT.

Allora, come ci si dovrà orientare quando un soggetto che versa in uno stato vegetativo permanente non abbia specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza?

Seguendo la prima strada, le disposizioni anticipate di cui all’art. 4 della legge 219 del 2017 rappresentano l’unica forma attraverso cui si possa dare rilievo alla volontà in materia di fine vita. Si arriva alla conclusione che tutto ciò che non risulta in modo espresso dalle DAT non potrà essere ritenuto vincolante e in nessun caso sarà possibile ricavare una presunta volontà del paziente221.

Parte della dottrina ritiene che sarebbe una stranezza giuridica, che rasenta la contraddizione, riconoscere rilievo

219 Cass. civ. sez. un., Sent. 13 novembre 2008, n. 27145

220 Soluzione che MICCICHÈ C. ne “L’amministrazione della sofferenza”, in Jus,

2017; critica fortemente, ritenendo che “debba essere etichettata come assurda in quanto imputa all’incapace, in forza di una finzione, una volontà che in realtà è stata elaborata da un soggetto terzo e potrebbe sottendere interessi diversi e ultronei rispetto alla tutela dell’incapace medesimo”.

221 Cfr. DELLE MONACHE S., La nuova disciplina sul testamento biologico e sui

a precedenti e incerte dichiarazioni dell’interessato, in virtù del meccanismo legislativo del biotestamento presente nel panorama normativo odierno.

Questo sulla base di due argomentazioni. Una di carattere logico secondo cui equiparando volontà espressa e volontà presunta si accosterebbero due situazioni profondamente diverse: quella di una persona che, avendo meditato sul futuro, ha voluto dettare le proprie volontà in materia di fine vita e quella di un soggetto che potrebbe anche non aver mai riflettuto sul tema.

L’altro argomento, di stampo strettamente giuridico, si basa sul principio che vieta ogni tipo di presunzione in materia di rinuncia ai diritti, specie di diritti personalissimi222.

Oltretutto, questo filone della dottrina sostiene che se il legislatore avesse voluto riconoscere una qualche validità alla volontà presunta, l’avrebbe inserita nella regolamentazione sulle scelte di fine vita223.

L’altra strada, conduce ad intendere il ricorso alle DAT come una facoltà che, se non esercitata, non limiterebbe comunque l’ambito di operatività di tale diritto. In questo caso, la dottrina ritiene che in mancanza delle disposizioni anticipate si possa comunque provare l’effettiva volontà del paziente prima di entrare nello stato di incoscienza. La ricerca e il controllo di tale prova è affidata al giudice, che dovrà svolgere una rigorosa indagine in punto di

222 NICOLUSSI A., Testamento biologico e problemi del fine-vita: verso un

bilanciamento di valori o un nuovo dogma della volontà? In Europa dir. priv., 2013.

coincidenza della volontà espressa dal familiare o tutore e quella a suo tempo manifestata dal paziente224.

Questo filone di pensiero ritiene che se il legislatore avesse voluto avrebbe inserito l’espresso divieto di tale ricostruzione ex post, in quanto l’omissione delle DAT, qualunque sia la causa, non può tradursi in un superamento della conquista di civiltà che il caso Englaro ha rappresentato.