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Il caso Welby – Oggi: nella vigenza della L 219

CAPITOLO III: AUTODETERMINAZIONE E FINE VITA

2. Il caso Welby – Oggi: nella vigenza della L 219

“Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente

imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza.192”

La vicenda umana di Piergiorgio Welby racconta di un soggetto pienamente cosciente che esprime la volontà di interrompere una terapia già in atto, trattamento volto a tenerlo in vita artificialmente193.

Dall’età di 16 anni, Welby, era affetto da una forma progressiva di distrofia muscolare, per alleviare la sofferenza, iniziò a fare uso di droghe e si dilettò nella pittura e nella scrittura. Dai primi anni Ottanta le sue condizioni peggiorarono e la patologia, che ormai gli inibiva qualsiasi movimento del corpo, ad eccezione di quelli oculari e labiali, lo costrinse immobile a letto. A metà degli anni Novanta, la sua condizione clinica precipitò e dal 1997 era tenuto in vita grazie alla ventilazione meccanica, nonostante ciò era pienamente lucido e cosciente e chiedeva l’interruzione del trattamento.

Le sue richieste arrivarono fino al Presidente della Repubblica, quando nel 2001 scrisse una lettera aperta a lui indirizzata. Descrivendo la sua giornata afferma che «non

192 WELBY PG., Lettera aperta al Presidente della Repubblica.

193 Sul caso Welby BECCHI P., La vicenda Welby: un caso ai limiti della denegata

è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio...è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti».

Welby tiene a precisare che quella da lui richiesta non è una morte dignitosa, perché «la morte non può essere dignitosa». Guardando al panorama europeo chiede al Presidente la possibilità di approdare a quella che definisce una «morte opportuna».

Nel 2005 scrisse un libro dal titolo “Lasciatemi morire” con il quale cercò di spiegare le ragioni della sua battaglia: il diritto di porre fine alla propria esistenza per i malati terminali. «Vorrei che i sogni perduti o abbandonati al mattino vicino al dentifricio, o quelli traditi per vigliaccheria o per calcolo cinico o per timore degli altri, ritrovassero la strada e rimanessero al mio fianco per farmi compagnia. E vorrei morire all’alba insieme a loro194».

Nel 2006 la richiesta di Welby era ancora la stessa: il distacco, sotto sedazione, dal respiratore automatico. A seguito del rifiuto del medico che lo aveva in cura, il quale asseriva che una volta staccato il ventilatore, l’insorgenza del pericolo di vita e lo stato di incoscienza del paziente gliene avrebbero imposto la riattivazione, Welby fu costretto a promuovere il ricorso d’urgenza (ex. art.700 c.p.c) al Tribunale civile di Roma a cui chiedeva di ordinare all’operatore sanitario il rispetto della sua volontà, e l’adozione delle misure necessarie, alla luce delle migliori conoscenze scientifiche, volte a garantire, sia al

momento del distacco del respiratore sia successivamente, il massimo rispetto delle sue condizioni di dignità e di sopportabilità.

Il Tribunale di Roma con ordinanza n.15 del 2006 dichiara l’inammissibilità del ricorso.

È una pronuncia contraddittoria poiché pur riconoscendo che «il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle società culturalmente evolute» e che esso permette alla persona, «di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi195» ma d’altro canto sostiene che si tratta di un diritto privo di tutela e che sul piano pratico non trova attuazione196.

Pizzorusso, commentando l’ordinanza, sostiene che non solo essa viola la lettura della Costituzione come norma direttamente applicabile, ma infrange anche il divieto di

non liquet, principio codificato nel codice civile francese,

secondo cui il giudice non può rifiutare l’applicazione delle disposizioni costituzionali, ma deve comunque trarne una decisione in relazione al caso concreto197.

Quattro giorni dopo l’ordinanza, il 20 dicembre 2016, Welby faceva eseguire dal medico anestesista Mario

195 Trib. di Roma, Sez. civ. I, ord. 16 dicembre 2006, n.15.

196 Ritroviamo in questa pronuncia l’idea dell’art. 32 Cost come norma

programmatica, a cui, tuttavia, si contrappone la lettura della stessa Corte Costituzionale nella sua prima sentenza n.1/1956, nella quale respinge la distinzione in norme precettive e programmatiche, poiché le disposizioni costituzionali sono tutte direttamente applicabili.

197 PIZZORUSSO A., Il caso Welby: il divieto di non liquet, in Quaderni

Riccio, secondo la sua volontà e sotto sedazione, il distacco del respiratore che lo teneva in vita.

Contro quest’ultimo veniva aperto, nel maggio del 2007, un procedimento sia disciplinare, che penale. Sul piano disciplinare la Commissione disciplinare dell’Ordine dei medici di Cremona ha riconosciuto che il dottore ha agito in presenza di una espressa volontà del paziente di interrompere le terapie e riconoscendo la sedazione operata coerente con i protocolli clinici.

Per quanto attiene al procedimento penale, la Procura della Repubblica di Roma propendeva per l’archiviazione, poiché la commissione medico-legale aveva dichiarato che non vi era nesso di causalità fra la sedazione e la morte di Welby. Tale tesi non fu condivisa dal GIP, che rigettò l’archiviazione ed il 1° aprile 2007, lo iscriveva nel registro degli indagati per omicidio del consenziente ex art. 579 del Codice penale. A seguito delle udienze del 6 e del 23 luglio 2007, il GUP, stabiliva il non luogo a procedere, poiché il fatto non costituisce reato. Nella sentenza, depositata il 17 ottobre 2007, si afferma che «da un lato il rifiuto di una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto nella Costituzione e dall’altro l’imputato, il dott. Riccio, ha agito in ottemperanza di un dovere giuridico che scrimina l’illiceità della sua condotta, causativa della morte di Piergiorgio Welby dopo aver verificato la presenza di tutte le condizioni che legittimano

il diritto del paziente a sottrarsi a un trattamento sanitario non voluto198».

Questa giurisprudenza ha riscontrato pareri discordanti in dottrina, in particolare nel definire il rifiuto espresso da Welby. Una parte degli interpreti sottolinea come non ci sia stato un semplice rifiuto del trattamento ma un’espressa richiesta al medico di tenere una condotta: sedare e successivamente interrompere la respirazione artificiale199. Altri interpreti invece, hanno ravvisato nella suddetta sentenza il riconoscimento della libertà del paziente, nell’autodeterminarsi e di poter rifiutare le cure200, tesi che ha trovato poi riconoscimento nella L. 219.

Alla luce dello studio della legge sulle disposizioni anticipate di trattamento201 e a seguito dell’analisi appena conclusa della vicenda clinica, giurisprudenziale e umana vissuta da Welby sorge il seguente quesito: qual è il possibile esito del caso Welby nella vigenza della L. n. 219?

Attraverso la nuova legislazione, il paziente capace di agire ha il diritto di rifiutare qualsiasi accertamento o trattamento indicato dal medico per la sua patologia, nonché il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, anche qualora la revoca comporti l’interruzione della cura. Qualora il rifiuto comprometta la possibilità di sopravvivenza del soggetto, il medico è tenuto a

198 Giudice dell'Udienza Preliminare presso il Trib. di Roma, Sent. 23 luglio 2007,

n. 2049.

199 SORRENTINO F., Diritto alla salute e trattamenti sanitari; sulla facoltà del

malato di interrompere le cure Quad. reg., 2007.

200 SALERNO G.M., Un rinvio della questione alla Consulta poteva essere la

soluzione appropriata, in Guida al diritto, 1/2007.

prospettare al paziente e, qualora questi acconsenta, ai suoi familiari, le conseguenze della decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica.

Occorre ricordare che Welby era a conoscenza della sua patologia dall’età di 16 anni e ben avrebbe potuto accedere allo strumento della pianificazione condivisa delle cure. Così che, avrebbe potuto pianificare e poi confermare la volontà di interrompere i trattamenti quando la malattia avesse raggiunto uno stadio per lui insopportabile.

Rispettando il principio di autodeterminazione del paziente e dando effettiva attuazione alla volontà dello stesso, egli non avrebbe dovuto trascorrere i nove anni (dal ’97 al 2006) intercorsi dal momento in cui ha dichiarato la volontà di interrompere il trattamento di ventilazione meccanica al momento in cui il Dott. Riccio lo ha effettivamente interrotto.

Ad oggi le sue richieste sarebbero state accolte e la sua volontà rispettata, «non si tratta di reazioni emotive o posizioni ideologiche, non ignoro i limiti del living will né il rischio dello slippery slope, ma sono convinto che una società civile debba dare risposte e linee guida. Io vorrei che queste risposte e linee guida fossero tali da tutelarmi nel momento di un mio nuovo ingresso in un reparto di rianimazione202».

3. IL CASO ENGLARO – OGGI: ALLA LUCE DELLA L.