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Il caso: l’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità.

PROBLEMATICHE APPLICATIVE DELLA SOVRAPPOSIZIONE DI CARTE DEI DIRITT

2. Il caso: l’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità.

L’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità costituisce, senz’altro, la fattispecie concreta in cui, con maggiore evidenza, si è manifestato il diverso grado di intensità di tutela di un diritto fondamentale (nella specie, il diritto di proprietà) a seconda che questo sia garantito dall’ordinamento costituzionale italiano oppure dal sistema della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Si è, quindi, scelto tale istituto proprio per verificare – attraverso un’analisi dettagliata della disciplina giuridica del fenomeno espropriativo nei suoi aspetti più controversi – le differenze esistenti tra i due livelli istituzionali (nazionale ed europeo) in termini di effettività della tutela del diritto di proprietà, che nascono fondamentalmente da un diverso bilanciamento degli interessi in gioco. L’obiettivo, dunque, è quello di mettere in risalto – a partire dal caso scelto – il diverso modo di intendere i medesimi diritti oggetto della tutela, oltre che i possibili “cortocircuiti” che la tutela multilivello può cagionare. E ciò, a maggior ragione, alla luce del riconoscimento del ruolo centrale attribuito alla CEDU in materia di diritti fondamentali anche a livello comunitario, operato dal Trattato di

Lisbona e dalla Carta di Nizza.

2.1. L’espropriazione legittima.

2.1.1. L’evoluzione legislativa e della giurisprudenza costituzionale. La prima disciplina giuridica dell’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità è stata posta dalla risalente legge n. 2359 del 1865, la quale, all’art. 1, stabiliva il principio generale secondo cui essa poteva aver luogo soltanto «con l’osservanza delle forme stabilite dalla presente legge»8. Il caposaldo su cui reggeva l’intera struttura di tale istituto, quindi, era costituito dal principio di legalità, la cui centralità è stata mantenuta anche a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la quale, all’art. 42, nel riconoscere e garantire la proprietà privata, prevede che la legge ne determini i modi di acquisto, di godimento e (per ciò che qui interessa, soprattutto) i limiti «allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» (secondo comma) e che la stessa possa essere «espropriata per motivi d’interesse generale», anche se soltanto «nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo» (terzo comma).

Dunque, il principio di legalità è stato sempre ritenuto il presupposto necessario per poter assicurare un corretto bilanciamento tra i diritti dei proprietari espropriati e gli interessi generali perseguiti dalla pubblica amministrazione, alla ricerca di un “giusto equilibrio” che permetta di tutelarli entrambi, senza sacrificarne integralmente alcuno. Equilibrio che è stato garantito con il riconoscimento, a fronte della privazione della proprietà, di un’indennità a favore del proprietario del bene espropriato, la quale integra uno dei profili più discussi e soggetti a modifiche dell’intera disciplina normativa dell’espropriazione per pubblica utilità.

La legge del 1865 prevedeva che, in caso di occupazione totale dell’immobile privato da parte della pubblica amministrazione, tale indennità dovesse essere pari al valore di mercato dell’immobile espropriato (art. 39), ponendo quindi la regola generale dell’integrale compensazione della perdita subita dal proprietario, che è rimasta sostanzialmente inalterata per diversi decenni9 e che sembrava essere anche la più coerente con la ratio dell’art. 42 della

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In ossequio a tale regola, quindi, la pubblica amministrazione era tenuta a seguire, in qualsiasi procedimento espropriativo, l’intero iter fissato da tale normativa, che prevedeva una serie di passaggi necessari prima che si potesse dare inizio ai lavori per la realizzazione dell’opera pubblica cui l’esproprio era finalizzato, tra cui l’adozione di un provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’opera e l’acquisizione della proprietà del suolo su cui la stessa sarebbe stata realizzata, oltre che la previa fissazione dei termini di durata dei lavori.

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Le uniche eccezioni sono costituite dalla legge n. 2892 del 1885 sul risanamento della città di Napoli (il cui art. 13 poneva la regola che l’indennità avrebbe dovuto essere determinata «sulla media del valore venale e dei fitti coacervati dell’ultimo decennio», giustificata dalla particolare

Costituzione.

Tuttavia, la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 61 del 1957, ha negato che la regola del valore di mercato sia dotata di copertura costituzionale, sostenendo l’inesattezza dell’assunto secondo cui l’indennizzo previsto dall’art. 42, terzo comma, della Costituzione debba necessariamente corrispondere al valore effettivo del bene espropriato. Invero, secondo la Consulta, nella determinazione del quantum dell’indennizzo di esproprio, è necessario tener conto degli «scopi di pubblica utilità», i quali «devono essere coordinati e contemperati il più possibile con l’interesse privato, ma […] non possono a questo essere subordinati». Da tale considerazione, quindi, ha tratto la conseguenza che l’indennizzo «non può significare […] integrale risarcimento […], ma soltanto il massimo di contributo e di riparazione che, nell’ambito degli scopi di generale interesse, la Pubblica Amministrazione può garantire all’interesse privato», pur riconoscendo che lo stesso non possa essere corrisposto in misura meramente simbolica (nel qual caso, l’indennizzo sarebbe da considerare «inesistente»)10.

Sulla scorta di tale orientamento della giurisprudenza costituzionale, il legislatore ha quindi cominciato a fissare criteri riduttivi di calcolo dell’indennizzo di espropriazione, volti al perseguimento di quegli scopi di pubblica utilità che sono espressione delle «finalità di progresso sociale» che ispirano la Carta fondamentale. Così, con la legge n. 865 del 1971 ha statuito (art. 16) che l’indennità dovesse essere determinata in ragione del criterio del valore agricolo medio dei terreni secondo il tipo di coltura praticato nella regione agraria interessata – applicandolo genericamente sia ai terreni agricoli che a quelli ricadenti all’interno di aree destinate all’edificazione – che ha, poi, sostanzialmente confermato anche nell’art. 1 della successiva legge n. 385 del 1980 (recante la normativa provvisoria sull’indennità di espropriazione di aree edificabili).

Tuttavia, l’adozione indiscriminata di tale criterio – che, in relazione ai terreni destinati ad insediamenti edilizi, ha introdotto «un elemento di valutazione

situazione contingente della città di Napoli) e dal R.d.l. n. 981 del 1931, relativo all’approvazione del piano regolatore della città di Roma (che, all’art. 4, prevedeva che l’indennità di esproprio doveva essere ragguagliata al valore venale del terreno soltanto per le aree «destinate a strade, piazze e spazi di uso pubblico», mentre per le altre aree, comprese quelle edificabili, essa doveva essere determinata «sulla media del valore venale e dell’imponibile netto alla data di pubblicazione del presente decreto»).

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Il principio della mancata copertura costituzionale del criterio del valore di mercato del terreno per la determinazione dell’indennizzo di esproprio, nonché quello secondo cui tale indennizzo non può essere meramente simbolico, sono stati costantemente ribaditi dalla giurisprudenza costituzionale (cfr., a tal proposito, anche Corte cost. nn. 231/1984, 173/1991, 138/1993 e 283/1993). Tali principi si sono, peraltro, evoluti nel tempo, con l’affermazione, da una parte, che l’indennizzo deve essere «congruo, serio ed adeguato» (cfr. Corte cost. nn. 91/1963, 22/1965, 115/1969, 63/1970, 58/1974 e 138/1977) e, dall’altra, che è comunque legittima la previsione di un criterio di calcolo «mediato», che sia però agganciato al valore venale del bene espropriato (cfr. Corte cost. nn. 160/1981, 1165/1988 e 216/1990).

del tutto astratto», in quanto completamente sganciato dal valore venale degli stessi e da una qualsiasi valutazione circa la loro destinazione economica – è stato ritenuto non conforme al precetto di cui all’art. 42, terzo comma, della Costituzione da parte della Consulta. Quest’ultima, infatti, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle suddette disposizioni legislative, rispettivamente con le sentenze n. 5 del 1980 e n. 223 del 198311. In particolare, la Corte ha rilevato che l’indennizzo di esproprio, «se non deve costituire una integrale riparazione per la perdita subita, […] non può essere, tuttavia, fissato in una misura irrisoria o meramente simbolica, ma deve rappresentare un serio ristoro», la cui congruità può essere determinata soltanto facendo riferimento «al valore del bene in relazione alle sue caratteristiche essenziali, fatte palesi dalla potenziale utilizzazione economica di esso, secondo legge»12.

Successivamente, un nuovo criterio riduttivo di calcolo è stato introdotto dalla legge n. 359 del 1992, che, in sede di conversione del decreto legge n. 333 del 1992 (recante «Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica»), ha aggiunto ad esso l’art. 5-bis, il quale, in attesa dell’emanazione «di un’organica disciplina per tutte le espropriazioni», ha fissato una misura dell’indennità di espropriazione, per le sole aree edificabili, pari alla media tra il valore venale del bene espropriato ed il reddito dominicale rivalutato, con la riduzione dell’importo così determinato del quaranta per cento13, riconoscendo, peraltro, a tale criterio

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Conseguentemente, a seguito di tali pronunce, con cui è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’applicazione del criterio del valore agricolo medio anche ai terreni edificabili, la giurisprudenza comune ha creato un “doppio binario” nella determinazione dell’indennità di esproprio. Infatti, mentre il predetto criterio ha continuato ad essere utilizzato per le aree agricole (o comunque non classificabili come edificabili), per le aree destinate all’edificazione (o già edificate) si è ritenuto di dover ripristinare il criterio del valore di mercato del bene, previsto dall’art. 39 della legge n. 2359/1865.

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Cfr. Corte cost. n. 5/1980. Dalla fissazione di tale regola, la Corte ha tratto la conseguenza che l’utilizzazione del criterio del valore agricolo medio, anche per i terreni con destinazione edilizia, «porta inevitabilmente […] alla liquidazione di indennizzi sperequati rispetto al valore dell’area da espropriare, con palese violazione del diritto a quell’adeguato ristoro che la norma costituzionale assicura all’espropriato». Il Giudice delle leggi ha, peraltro, evidenziato che «l’astrattezza del criterio adottato e la mancata considerazione delle caratteristiche del singolo bene da espropriare possono portare a irragionevoli trattamenti differenziati di situazioni sostanzialmente omogenee», ponendosi, così, in evidente contrasto con l’art. 3 della Costituzione.

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Riduzione che, ai sensi del secondo comma della stessa disposizione, non si applica nel caso che il soggetto espropriato decida di cedere volontariamente il bene di sua proprietà. Occorre, inoltre, evidenziare che, con la nuova normativa, il legislatore ha trasformato il “doppio binario” esistente per la determinazione dell’indennità di esproprio (e risultante dalle citate sentenze della Corte costituzionale n. 5/1980 e n. 223/1983) in un “triplo binario”. Infatti, mentre per le aree edificabili è stato adottato il criterio indicato nel testo e per le aree agricole (o non edificabili) è stata disposta l’applicazione delle norme di cui al titolo II della legge n. 865/1971 e successive modificazioni ed integrazioni (ai sensi del quale l’importo dell’indennizzo doveva essere determinato sulla base del valore agricolo medio dei terreni), i terreni già edificati sono rimasti del tutto fuori da tale espressa regolamentazione, per cui in relazione ad essi si è ritenuto di dover

un’efficacia retroattiva14.

Anche questa disposizione è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale, la quale, con la sentenza n. 283 del 1993, ha ritenuto che essa non contrastasse con la Costituzione15, argomentando sulla base dei principi già statuiti nella propria pregressa giurisprudenza in materia di indennizzo di esproprio. Infatti, la Consulta – partendo dal consolidato principio di fondo secondo cui l’indennità di espropriazione non deve essere necessariamente commisurata al valore venale del bene, ma neppure può essere meramente simbolica o irrisoria16 – ha ribadito che la regola cui deve attenersi il legislatore deve essere quella di assumere il valore effettivo del bene come base di riferimento dell’indennizzo, onde evitare una valutazione dello stesso del tutto astratta17. Da ciò si evince che, affinché l’indennizzo sia «congruo, serio ed adeguato», è ammissibile che esso venga determinato con l’adozione di un criterio “mediato”, nell’ambito del quale, però, è necessario che uno dei parametri utilizzati sia ancorato al valore venale del bene. In questo modo, è stata fatta salva la discrezionalità del legislatore nell’individuazione dei parametri concorrenti, attraverso cui quest’ultimo opera il bilanciamento ed il coordinamento tra interesse privato ed interesse pubblico.

Conseguentemente, con riferimento alla fattispecie sottoposta al suo esame, il Giudice delle leggi – tenendo conto del fatto che la norma censurata

continuare ad applicare il criterio generale posto dall’art. 39 della legge n. 2359/1865 (indennità pari al valore di mercato dell’immobile espropriato).

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Infatti, è stata disposta l’applicazione dei criteri posti dall’articolo in esame «in tutti i casi in cui non sono stati ancora determinati in via definitiva il prezzo, l’entità dell’indennizzo e/o del risarcimento del danno, alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto» (sesto comma), oltre che in tutti i procedimenti «in corso» all’epoca dell’emanazione del decreto stesso (settimo comma). L’applicazione retroattiva dei nuovi criteri di calcolo dell’indennità di esproprio è stata, peraltro, confermata anche dalla giurisprudenza di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. I, nn. 16061/2000 e 11294/2001).

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È stata dichiarata parzialmente incostituzionale soltanto la norma posta dal secondo comma della disposizione impugnata (secondo cui non si applica la riduzione del 40% al soggetto espropriato che convenga la cessione volontaria del bene), «nella parte in cui non prevede in favore dei soggetti già espropriati al momento della entrata in vigore della legge n. 359 del 1992, e nei confronti dei quali la indennità di espropriazione non sia ancora divenuta incontestabile, il diritto di accettare l’indennità di cui al primo comma con esclusione della riduzione del 40%», per la irragionevole discriminazione che tali soggetti subirebbero rispetto a quelli nei confronti dei quali non sia stato ancora emesso il decreto di esproprio e che, quindi, manterrebbero intatta la possibilità di convenire la cessione volontaria del bene.

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Atteso che – ha pure specificato la Corte – «per un verso, […] l’integrale ristoro del sacrificio negherebbe ogni incidenza sotto tale profilo agli scopi di pubblica utilità che persegue il procedimento espropriativo; scopi la cui realizzazione non può risultare impedita dall’esigenza di una piena ed integrale riparazione dell’interesse privato del proprietario. Per altro verso, però, quest’ultimo non può essere chiamato ad un sacrificio che azzeri il suo diritto» (cfr. punto 6.2. del

considerato in diritto). 17

aveva individuato un criterio di calcolo “mediato”, ma comunque agganciato al valore venale del bene espropriato, nonché della «particolare congiuntura economica nella quale si inserisce la legge emanata avente carattere dichiaratamente temporaneo, in attesa di un’organica disciplina dell’espropriazione per pubblica utilità» – ha escluso che l’indennizzo così calcolato sia «“apparente”, “meramente simbolico” od “irrisorio”», rilevandone invece «la sufficienza e congruità rispetto alla funzione […] di esprimere “il massimo di contributo e di riparazione che nell’ambito degli scopi di generale interesse la P.A. può garantire all’interesse privato”»18, e considerando, peraltro, legittima la scelta legislativa di attribuire a tale disposizione efficacia retroattiva19.

Forte del riscontro positivo dato dalla Corte costituzionale, il legislatore ha confermato tale criterio riduttivo anche nel d.P.R. n. 327 del 2001 (testo unico sulle espropriazioni, d’ora in avanti t.u.e.) – che ha posto quella «organica disciplina per tutte le espropriazioni» cui faceva riferimento l’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992, conv. in l. n. 359/1992 – stabilendo, all’art. 37, primo comma, che l’indennità di espropriazione di un’area edificabile «è determinata nella misura pari all’importo, diviso per due e ridotto nella misura del quaranta per cento, pari alla somma del valore venale del bene e del reddito dominicale rivalutato […] e moltiplicato per dieci». In tal modo, si è attribuito carattere definitivo a quel meccanismo di calcolo, originariamente previsto a titolo provvisorio.

2.1.2. L’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il fenomeno espropriativo è stato oggetto di una copiosa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha sempre seguito un orientamento volto a garantire un’adeguata protezione ai diritti sanciti nella CEDU, tra cui figura, in particolare, il diritto di proprietà, specificamente tutelato dell’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1.

Sin dalla sentenza Sporrong e Lönnroth c. Svezia del 23 settembre 1982, la Corte di Strasburgo ha fissato il principio secondo cui, nell’ambito delle procedure di espropriazione, l’ingerenza dello Stato deve sempre avere una base legale ed avvenire rispettando il «giusto equilibrio» tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo.

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Cfr. Corte cost. n. 283/1993, punto 6.3 del considerato in diritto.

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La Corte ha, infatti, rilevato che, non vertendosi in materia penale, era da ritenersi in generale consentito al legislatore di adottare una nuova disciplina dell’indennità espropriativa con efficacia retroattiva, la quale non contrastava neppure con il principio di ragionevolezza, essendo volta a colmare una situazione di «carenza normativa» (venutasi a creare a seguito delle sentenze nn. 5/1980 e 223/1983). Tali statuizioni, in merito alla legittimità dell’efficacia retroattiva della norma in esame, sono state ribadite dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 414/1993 e nella sentenza n. 442/1993.

Con riferimento al profilo attinente alla congruità della riparazione dovuta a seguito di espropriazione per pubblica utilità, tale principio si è tradotto (sentenza James c. Regno Unito del 21 febbraio 1986), da un lato, nell’affermazione che l’art. 1 del Protocollo allegato alla Convenzione non garantisce sempre un risarcimento integrale del danno subìto, in quanto legittime ragioni di pubblica utilità possono giustificare un ristoro inferiore al valore venale dell’immobile espropriato, con la precisazione che spetta comunque al legislatore nazionale individuare cosa sia “di pubblica utilità”20 (in applicazione della teoria del “margine di apprezzamento statale”) e sempre che tale valutazione sia dotata di una base “ragionevole”. Dall’altro lato, però, la Corte ha statuito che la suddetta norma esige comunque la corresponsione di un indennizzo ragionevolmente proporzionato al valore venale del bene, il quale garantisca un giusto equilibrio tra i diversi interessi in contrasto, espressione di un principio di proporzionalità tra la perdita della proprietà ed il ristoro patrimoniale che ne consegue21.

Tuttavia, qualche anno più avanti (decisione Ex Re di Grecia c. Grecia del 28 novembre 2002), i giudici di Strasburgo, pur confermando il principio secondo cui la riparazione dovuta al proprietario espropriato non deve necessariamente raggiungere il valore pieno ed intero dei beni, ne hanno ridimensionato la portata, precisando che le sole ipotesi di espropriazioni che giustificano la corresponsione, da parte delle pubbliche amministrazioni, di un indennizzo in misura ridotta sono quelle che perseguono specifici obiettivi di pubblica utilità, come la realizzazione di riforme economiche o di giustizia sociale, nonché quelle volte a comportare cambiamenti del sistema costituzionale. Quindi, da tale novero sono rimasti esclusi i casi di espropri isolati, in relazione ai quali soltanto il pagamento di un indennizzo pari al valore venale del bene ablato è stato ritenuto ragionevolmente proporzionato al sacrificio imposto al proprietario22.

Un’ulteriore specificazione dei requisiti necessari a qualificare come “congruo”, alla luce dei principi fissati dalla Convenzione, il ristoro patrimoniale dovuto al proprietario espropriato è stata fornita dalla Corte europea quando si è trovata ad esaminare la disciplina italiana in tema di indennizzo di esproprio (e,

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Atteso che le autorità statali, a differenza del giudice internazionale, hanno «una conoscenza diretta della loro società e dei bisogni della stessa» e che, in particolare, «la decisione di adottare leggi recanti la privazione di proprietà implica di solito l’esame di questioni politiche, economiche e sociali» (cfr. Corte EDU 21 febbraio 1986, James c. Regno Unito, par. 46).

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Tali principi sono stati ribaditi anche nelle sentenze 9 dicembre 1994, I santi monasteri c.

Grecia, e 25 marzo 1999, Papachelas c. Grecia. Inoltre, nella stessa decisione James (par. 54) ed

in altre successive (cfr. Corte EDU 30 giugno 2005, Jahn c. Germania), il giudice europeo ha anche affermato che la pubblica amministrazione non può privare della proprietà un soggetto senza la corresponsione di un qualsiasi indennizzo, se non in casi del tutto eccezionali.

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Questo indirizzo più restrittivo della Corte di Strasburgo è stato ribadito nelle successive sentenze Jahn c. Germania del 22 gennaio 2004 e Broniowski c. Polonia del 22 giugno 2004, oltre che specificamente ripreso dalla decisione della Grande Chambre del 29 marzo 2006 nella causa

precisamente, la norma posta dall’art. 5-bis del d.l. n. 333/1992, aggiunto dalla legge di conversione n. 359/1992)23.

Nella sentenza Scordino c. Italia del 29 luglio 2004, oltre a confermare i principi posti nelle loro precedenti pronunce in materia di espropriazione per pubblica utilità, i giudici sovranazionali hanno introdotto un nuovo elemento da tenere in considerazione nel giudizio di congruità della riparazione spettante al proprietario, costituito dalla valutazione delle «modalità d’indennizzo previste dalla legislazione interna» (par. 97)24. Nel caso specifico, la Corte ha giudicato il prezzo percepito dai proprietari ricorrenti incongruo rispetto al valore della proprietà espropriata – ritenendo, quindi, non rispettato il criterio del giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo – non soltanto in ragione del meccanismo di calcolo fissato dalla norma interna25, ma anche considerando «l’intervallo che è