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Secondo caso: la questione del crocifisso.

CONFLITTI “TRAGICI” E CRISI DEL BILANCIAMENTO

3. Secondo caso: la questione del crocifisso.

La seconda questione controversa che si intende trattare è quella relativa all’esposizione dei simboli religiosi negli spazi pubblici “istituzionali” (scuole, aule di tribunale, seggi elettorali, uffici pubblici, ecc.) che, nel nostro ordinamento, si pone specificamente con riferimento al simbolo del crocifisso.

Anche in questo caso, si intende affrontare la tematica focalizzando l’attenzione sui conflitti che la animano e che hanno reso il crocifisso l’oggetto di una contesa che “spacca” la società civile italiana74. Le forti dispute esistenti intorno a tale questione sono, infatti, il segno dell’insanabile conflitto valoriale che c’è alla base di essa, essendo evidente che i valori su cui si fondano le diverse posizioni in contrasto sono percepiti, dai rispettivi sostenitori, come irrinunciabili e più “giusti” degli altri. In questo senso, sono diversi gli indici che mostrano la problematicità della questione: in primis, particolarmente indicativa è la circostanza che le decisioni dei giudici che l’hanno affrontata spesso non sono

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Il tema verrà, quindi, affrontato prescindendo dall’analisi di tutte le altre questioni problematiche che esso pone, come quelle riguardanti il fondamento normativo dell’esposizione del crocifisso – che è costituito esclusivamente da disposizioni di natura regolamentare dell’epoca pre-costituzionale, da cui derivano i dubbi circa la loro attuale vigenza, la loro eventuale sindacabilità da parte della Corte costituzionale ed il rispetto o meno del principio di legalità – o la giurisdizione competente a decidere le relative controversie. Per un esame completo delle diverse questioni in cui si articola la vicenda del crocifisso, si vedano i numerosi contribuiti contenuti in R. BIN –G. BRUNELLI –A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), La laicità crocifissa? Il nodo

state in grado di giungere ad una composizione equilibrata degli interessi antagonisti; poi, c’è da dire che, in ogni caso – quindi anche nell’eventualità di decisioni che appaiono giuridicamente “eque” – tali pronunce vengono lette in modo “partigiano”, cioè come il trionfo di uno schieramento sull’altro nella costante contesa che li mette di fronte, o – vedendola dal lato di chi non le condivide – come un’offesa ed una costrizione intollerabili75; per non parlare, infine, del fatto che, se non si è riusciti ancora a risolvere questa scottante questione, ciò è dovuto alla circostanza che i diversi soggetti istituzionali chiamati ad affrontarlo hanno puntualmente evitato di prendere una posizione sul merito della vicenda che fosse, effettivamente, risolutiva76.

3.1. I principi costituzionali rilevanti nella fattispecie.

Innanzitutto, appare opportuno individuare le coordinate costituzionali entro cui la questione in esame deve essere inquadrata, che sono costituite dalla libertà religiosa, dalla libertà di coscienza e dal principio di laicità dello Stato.

La libertà religiosa è riconosciuta espressamente dall’art. 19 della Costituzione, ai sensi del quale «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». Tale libertà – che vale nei confronti sia dello Stato che dei privati – riguarda la sfera privata e, quindi, la dimensione personale del fenomeno religioso, che, secondo quanto statuito dalla Corte costituzionale nella

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Basti pensare alle reazioni registrate non soltanto nell’opinione pubblica, ma anche tra gli esponenti di organi istituzionali, come, ad esempio, quelle che seguirono alla pronuncia del Tribunale di L’Aquila (ord. 22 ottobre 2003, resa in sede cautelare, su cui infra, par. 3.3.1) con cui era stata disposta la rimozione del crocifisso dalle aule della scuola materna ed elementare della città di Ofena (AQ): in particolare, si fa riferimento all’invio degli ispettori presso quel Tribunale da parte del Ministro della Giustizia, per verificare eventuali responsabilità disciplinari del magistrato (cfr. Il Messaggero, 29 ottobre 2003) ed alla decisione del Sindaco della cittadina di disporre l’acquisto di crocifissi e la loro distribuzione per l’affissione in ogni spazio pubblico comunale, nonché la chiusura della scuola stessa (disposta per tutelare «l’incolumità psichica dei bambini»: cfr. La Repubblica, 31 ottobre 2003) in attesa di ottenere la sospensione di tale ordinanza cautelare, e – dopo averla ottenuta – l’innalzamento di una croce alta tre metri proprio davanti alla scuola, «a ricordo dell’intolleranza di un individuo che non voleva la croce nelle nostre aule» (cfr. La Stampa, 2 novembre 2003).

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Ciò è quanto opportunamente rilevato da G.BRUNELLI, Simboli collettivi e segni individuali

di appartenenza religiosa: le regole della neutralità, in ASSOCIAZIONE ITALIANA DEI COSTITUZIONALISTI, Annuario 2007. Problemi pratici della laicità agli inizi del secolo XXI, Atti del XXII Convegno Annuale, Napoli, 26-27 ottobre 2007, Padova, 2008, p. 275 ss., la quale sottolinea come tale «nodo costituzionale» sia ancora irrisolto «per l’incapacità o la non volontà dei vari attori istituzionali di scioglierlo», tanto da giungere ad affermare che, «messi alla prova impegnativa del simbolico religioso, i meccanismi istituzionali e giurisdizionali della democrazia pluralista si sono inceppati».

sentenza n. 334 del 1996, «per l’ordinamento costituzionale può essere solo manifestazione di libertà»77.

La protezione accordata ad essa riguarda sia il suo profilo positivo che quello negativo. La libertà religiosa positiva si concretizza in una serie di facoltà, che sono poi quelle specificamente previste dal testo della disposizione costituzionale sopra riportata – consistenti nella possibilità di professare liberamente la propria fede in forma individuale o collettiva, di fare propaganda religiosa e di esercitare il culto, in privato o in pubblico – cui se ne aggiungono delle ulteriori, riconducibili alla combinazione con altre norme della Carta fondamentale78. La libertà religiosa negativa, invece, si configura come l’altro lato della medaglia, che si ricava soltanto implicitamente dall’art. 19 Cost., e consiste nella facoltà, costituzionalmente tutelata, di non professare alcuna fede, di non esercitare il culto, di non essere coinvolti nell’esercizio del culto ed anche di non esternare la propria posizione rispetto al fenomeno religioso79: da ciò deriva che la libertà religiosa, «come diritto soggettivo, importa anche la protezione dell’ateo e del miscredente, i quali non possono essere costretti, in modo alcuno, diretto o indiretto, a compiere atti che implichino una professione di fede religiosa, o una manifestazione di culto, o l’esser soggetto passivo di propaganda religiosa»80.

Strettamente connessa con entrambi i profili della libertà religiosa è la libertà di coscienza, la quale non è espressamente prevista da una specifica disposizione costituzionale, ma la cui protezione è stata riconosciuta come un presupposto indispensabile della salvaguardia della stessa libertà religiosa81. Ciò in quanto la tutela della libertà di coscienza si pone “a monte” di quella della vera e propria libertà religiosa, atteso che, prima ancora che le singole facoltà in cui

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Cfr. Corte cost. n. 334/1996, punto 3.1 del considerato in diritto, in cui si precisa anche che «qualunque atto di significato religioso, fosse pure il più doveroso dal punto di vista di una religione o delle sue istituzioni, rappresenta per lo Stato esercizio di libertà per i propri cittadini: manifestazione di libertà che, come tale, non può essere oggetto di una sua prescrizione obbligante».

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Tra queste, «la facoltà di manifestare con ogni mezzo il proprio pensiero in materia religiosa (art. 21); la facoltà di corrispondere con altri in modo libero e segreto nella materia stessa (art. 15); la facoltà di riunirsi con altre persone a scopo di religione o di culto (art. 17); la facoltà di fondare associazioni con fini di religione o di culto o di aderire a quelle esistenti (art. 18); e, più in generale, la facoltà di esercitare tutti i diritti garantiti dalla Carta, in funzione della libertà religiosa» (così F. FINOCCHIARO, Art. 19, in G. BRANCA – A. PIZZORUSSO (a cura di),

Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1977, pp. 238-301, spec. p. 258). 79

F.FINOCCHIARO, Art. 19, cit., p. 259, a proposito di questo profilo della libertà religiosa – che, a suo parere, è «impropriamente qualificato come negativo» – afferma che «la norma in esame […] assicura anche il diritto di rifiutare qualsiasi professione di fede, di non ascoltare alcuna propaganda, di non partecipare ad alcun atto di culto».

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Cfr., ancora, F.FINOCCHIARO, Art. 19, cit., p. 259.

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Per M.RICCA, Art. 19, in R.BIFULCO –A.CELOTTO –M.OLIVETTI, Commentario alla

Costituzione, Torino, 2006, pp. 420-440, «una coscienza libera da condizionamenti e coartazioni di

matrice istituzionale rappresenta […] una prerogativa non dissociabile dalla tutela della libertà religiosa» (p. 429).

quest’ultima si articola, a dover essere custodite sono la libertà e la consapevolezza della scelta tra il credere o il non credere, tra l’aderire o il non aderire ad una confessione religiosa positiva82 (aspetti, questi, che costituiscono le “matrici”, rispettivamente, della libertà religiosa positiva e della libertà religiosa negativa). Peraltro, la riconduzione della libertà di non credere nel campo di applicazione dell’art. 19 Cost. – dopo un iniziale atteggiamento di chiusura83 – è ormai da tempo pacificamente riconosciuta dalla Corte costituzionale, la quale, a partire dalla sentenza n. 117 del 1979, ha affermato che «il nostro ordinamento costituzionale esclude ogni differenziazione di tutela della libera esplicazione sia della fede religiosa sia dell’ateismo»84, atteso che la libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa integra un diritto che «rappresenta un aspetto della dignità della persona umana»85.

Il principio di laicità dello Stato, invece, consiste nel «dovere di trattare tutte le fedi (religiose e non…) con eguale rispetto e considerazione»86. Il suo

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F.FINOCCHIARO, Art. 19, cit., p. 261, definisce la libertà di coscienza, in ambito religioso, come «la libertà di seguire la religione che si voglia o di non seguire alcuna religione o di avere una visione del tutto laica e immanentista del mondo e della vita», quindi come una «libertà psicologica», per la cui salvaguardia «lo Stato dovrebbe eliminare i fattori che pregiudicano la formazione di consapevoli orientamenti personali» (p. 262). È ovvio che, in questa sede, la libertà di coscienza viene esaminata con esclusivo riferimento al fenomeno religioso, pur nella consapevolezza che essa non si esplica soltanto in tale campo. Come rilevato da M.RICCA, Art. 19, cit. p. 429, infatti, «l’interrogarsi della coscienza pertiene a qualsiasi sforzo razionale di orientamento nel mondo che l’individuo persegua coerentemente ed in modo sistematico. Il libero esplicarsi della coscienza copre dunque un circuito di esperienza più ampio di quello relativo alla libertà religiosa, quantunque questa sia impensabile senza di esso».

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La Corte costituzionale, in una prima fase della propria giurisprudenza, ha infatti negato che l’ateismo – inteso in senso ampio, come «situazione del non credere» – potesse rientrare nell’ambito della garanzia costituzionale posta dall’art. 19, atteso che esso «comincia dove finisce la vita religiosa» (cfr. Corte cost. n. 58/1960).

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Cfr. Corte cost. n. 117/1979 (punto 3 del considerato in diritto), in cui, peraltro, la Consulta ha sottolineato che «la libertà di coscienza, riferita alla professione sia di fede religiosa che di opinione in materia religiosa, non è rispettata sol perché l’ordinamento statuale non impone a chicchessia atti di culto […]; la libertà è violata, infatti, anche quando sia imposto al soggetto il compimento di atti con significato religioso» (punto 4 del considerato in diritto).

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Cfr. Corte cost. n. 334/1996, punto 3.1 del considerato in diritto, in cui si precisa esplicitamente – alla luce di quanto si è detto nel testo – che la libertà di coscienza, in materia religiosa, trova specifica garanzia, oltre che nell’art. 21, negli articoli 2, 3 e 19 della Costituzione. Si veda anche Corte cost. n. 467/1991, in cui si afferma espressamente che «la libertà di manifestazione dei propri convincimenti morali o filosofici […] o della propria fede religiosa» rientra nel novero dei diritti inviolabili dell’uomo e che «la sfera intima della coscienza individuale deve esser considerata come il riflesso giuridico più profondo dell’idea universale della dignità della persona umana che circonda quei diritti, riflesso giuridico che, nelle sue determinazioni conformi a quell’idea essenziale, esige una tutela equivalente a quella accordata ai menzionati diritti, vale a dire una tutela proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essi riconosciuti nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana» (punto 4 del considerato in

diritto). 86

fondamento costituzionale – secondo quanto statuito dalla Consulta nella sentenza n. 203 del 1989 – è da rinvenire negli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Carta fondamentale: ciò significa che esso incorpora, in sé, diversi profili, tra loro inscindibili, attinenti al modo in cui lo Stato deve affrontare il fenomeno religioso, con riguardo sia alla sua dimensione individuale che a quella collettiva. Infatti, rientrano nel novero del principio di laicità, da una parte, la tutela del diritto inviolabile della libertà religiosa, sia positiva che negativa (artt. 2 e 19 Cost.) – da garantire indiscriminatamente a tutti (credenti appartenenti a qualsiasi confessione e non credenti) – e del principio di uguaglianza e di non discriminazione per motivi di religione (art. 3 Cost.); nonché, dall’altra, la separazione degli “ordini”, civile e religioso (art. 7 Cost.), e la garanzia dell’uguale libertà delle diverse confessioni religiose davanti alla legge (art. 8 Cost.)87.

Nella sentenza citata, inoltre, la Corte costituzionale ha fissato una precisa connotazione del principio di laicità dello Stato, cui ha riconosciuto il rango di «principio supremo» dell’ordinamento, costituendo «uno dei profili della forma di Stato delineata nella Carta costituzionale della Repubblica», ed ha specificato che esso «implica non indifferenza dello Stato di fronte alla religione ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale»88.

Ciò significa, quindi, che lo Stato deve mantenere un certo distacco nei confronti della religione, in ossequio al principio della separazione degli “ordini”, il quale costituisce un elemento «che caratterizza nell’essenziale il fondamentale o “supremo” principio costituzionale di laicità o non confessionalità dello Stato», da cui consegue che «la religione e gli obblighi morali che ne derivano non possono essere imposti come mezzo al fine dello Stato»89. Tale atteggiamento distaccato, tuttavia, secondo la Corte non deve concretizzarsi in un mero disinteresse nei confronti del fenomeno religioso (laicità in senso negativo), ma deve essere volto a creare le condizioni per favorire l’esercizio delle facoltà in cui si può articolare la libertà religiosa di ciascuno (laicità in senso positivo)90, purché ciò avvenga nel cost., 2006, pp. 27-49, spec. p. 33, riprendendo l’espressione di R. Dworkin «equal concern and respect».

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Oltre che il divieto di trattamenti speciali restrittivi a carico di associazioni ed istituzioni in ragione del loro carattere ecclesiastico o del fine religioso o di culto da essi perseguito (art. 20 Cost.).

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Cfr. Corte cost. n. 203/1989, punto 4 del considerato in diritto. Tale caratterizzazione del principio di laicità dello Stato è stata, peraltro, costantemente ribadita dalla giurisprudenza costituzionale successiva (si vedano, tra le altre, le sentenze n. 259/1990, n. 195/1993 e n. 508/2000).

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Cfr. Corte cost. n. 334/1996, punto 3.2 del considerato in diritto. In tale pronuncia, peraltro, la Consulta ha rimarcato la portata del fondamentale principio di separazione degli ordini, specificando che «non è dato allo Stato di interferire, come che sia, in un “ordine” che non è il suo, se non ai fini e nei casi espressamente previsti dalla Costituzione» (punto 3.1 del considerato in

diritto). 90

pieno rispetto del principio di uguaglianza e del pluralismo confessionale e culturale che caratterizza il nostro ordinamento (e, dunque, senza che ci siano discriminazioni in ragione della confessione di appartenenza o del fatto di essere credenti o non credenti).

In definitiva, quindi, il principio di laicità dello Stato deve essere inteso come un atteggiamento di neutralità91, equidistanza ed imparzialità da parte di quest’ultimo nei confronti del fatto religioso, in tutte le sue possibili espressioni, a garanzia di un pluralismo paritario.

Tuttavia, questa concezione del principio di laicità dello Stato non si è affermata fin da subito nel nostro ordinamento costituzionale. Per diversi anni, infatti, la stessa Corte costituzionale ha preservato la posizione privilegiata riservata alla religione cattolica (lasciata in eredità dal regime pre-costituzionale), facendo leva sul c.d. criterio quantitativo, vale a dire sul fatto che essa era la confessione di appartenenza della maggioranza – rectius, della «quasi totalità»92 – della popolazione93. Tale parametro è stato, però, progressivamente abbandonato dalla Consulta, la quale, negli anni ’70, ha cominciato a dare rilievo all’esigenza di equiparare il regime giuridico previsto per le religioni minoritarie a quello religione, in R. BIN – C. PINELLI (a cura di), I soggetti del pluralismo nella giurisprudenza

costituzionale, Torino, 1996, p. 39 ss., secondo cui «l’unica posizione che lo Stato può assumere

nei confronti dei sentimenti religiosi e della libertà di coscienza è di perfetta indifferenza quanto ai rapporti “verticali”, e di intransigente protezione del diritto individuale di libertà negativa, quanto ai rapporti “orizzontali”».

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In realtà, in dottrina non è pacificamente riconosciuta la possibilità di qualificare la nozione di laicità come neutralità. Infatti, da una parte, c’è chi, come O.CHESSA, La laicità come uguale

rispetto e considerazione, cit., p. 34, ritiene che la neutralità sia «qualcosa di più della equità,

imparzialità ed equidistanza, poiché comprende la rigida “non ingerenza” nella dimensione religiosa, la ferma astensione rispetto al fatto religioso, che viene così relegato alla sola dimensione privata ed individuale. Lo stato neutrale è, appunto, tale proprio perché neutralizza la valenza politica – e quindi “pubblica” – del conflitto religioso, circoscrivendo la questione della fede dentro la sfera della coscienza personale». Dall’altra parte, invece, può annoverarsi la posizione di G.BRUNELLI, Simboli collettivi e segni individuali di appartenenza religiosa: le

regole della neutralità, cit., la quale riconosce che la nozione di laicità come neutralità è discussa e

non pacifica, «perché in essa molti credono di riconoscere un atteggiamento antireligioso dello Stato», ma ritiene che tale lettura non sia corretta, in quanto, a suo parere, «neutrale è lo spazio pubblico di convivenza […], nell’ambito del quale non è consentito discriminare (in positivo o in negativo) per ragioni che attengono a scelte e preferenze individuali dei singoli, quali il credo religioso. […] La neutralità […] è garanzia di pluralismo, direi di un pluralismo paritario». Condivide questa seconda chiave di lettura L.CARLASSARE, Crocifisso: una sentenza per l’Europa

‘non laica’, in www.costituzionalismo.it, 30 maggio 2011, secondo la quale «laicità significa

neutralità».

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Cfr. Corte cost. n. 125/1957.

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La Consulta, sulla base di tale criterio, ha fatto salve, tra le altre, le norme di maggior tutela per la religione cattolica previste dal codice penale (in tal senso, si vedano le sentenze n. 125/1957, n. 79/1958 e n. 14/1973), nonché le disposizioni procedurali che prevedevano che la formula del giuramento dei testimoni nei processi penali – che doveva essere reso «dinanzi a Dio» – non incidesse «né sulla libertà di pensiero, né sulla libertà di coscienza» (cfr. Corte cost. n. 58/1960).

riservato alla confessione cattolica94, fino ad arrivare ad una svolta con la sentenza n. 925 del 1988, nella quale ha finito per qualificare come «inaccettabile ogni tipo di discriminazione che si basasse soltanto sul maggiore o minore numero degli appartenenti alle varie confessioni religiose»95.

3.2. Crocifisso e principio di laicità.

Passando a trattare, più nello specifico, la questione relativa alla presenza del crocifisso negli spazi pubblici istituzionali, occorre subito precisare che, nell’affrontarla, non ci si può limitare ad assumere un’ottica che tenga conto soltanto della libertà religiosa e di coscienza, essendo invece necessario prendere in considerazione il principio di laicità (nella cui nozione, di ampia portata, è ricompresa anche la salvaguardia delle suddette libertà), per verificare la compatibilità con esso di tale esposizione. Questa precisazione serve a tracciare subito la differenza con la diversa fattispecie consistente nell’indossare, anche in pubblico, simboli personali di appartenenza religiosa (capi di abbigliamento o monili): in tal caso, infatti, si rientra nella sfera di libertà religiosa del singolo individuo, che è sicuramente compatibile con il principio di laicità recepito nel nostro ordinamento e non incide sulla neutralità dello spazio pubblico.

Nell’ipotesi di esposizione di un simbolo religioso sulla parete di una scuola, di un’aula giudiziaria, o di altri luoghi pubblici, invece, non ci si trova nella sfera di libertà personale dell’individuo (come nel caso appena descritto), bensì in una sfera di competenza pubblica. In una siffatta evenienza occorre, pertanto, chiedersi se l’ordinamento possa consentire – o, addirittura, come concretamente avviene nel nostro paese, imporre – che un simbolo religioso, come il crocifisso, possa essere appeso su una parete che, essendo espressione

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Già nella sentenza n. 14/1973 la Corte, pur continuando a fare applicazione del criterio quantitativo, ha rivolto un monito al legislatore al fine di «estendere la tutela penale contro le offese del sentimento religioso di individui appartenenti a confessioni diverse da quella cattolica», mentre, nella sentenza n. 117/1979, come già rilevato, ha statuito che «non ci può essere differenza di tutela tra la libera esplicazione della fede religiosa e quella dell’ateismo», ritenendo privo di rilievo il fatto che gli atei rappresentassero «una microscopica e trascurabile minoranza».