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La diversa concezione del diritto di proprietà: un esempio della divergenza di vedute tra livello nazionale e livello europeo.

PROBLEMATICHE APPLICATIVE DELLA SOVRAPPOSIZIONE DI CARTE DEI DIRITT

3. La diversa concezione del diritto di proprietà: un esempio della divergenza di vedute tra livello nazionale e livello europeo.

Dall’analisi della disciplina dell’espropriazione, anche nella sua variante illegittima, emerge, con tutta evidenza, la netta differenza esistente tra la tutela costituzionale del diritto di proprietà e quella ad esso riservata dall’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU.

Tale divergenza di vedute trova la propria ragion d’essere principalmente nel diverso peso attribuito al parametro della “funzione sociale”: elemento centrale ed imprescindibile per la regolamentazione giuridica della proprietà all’interno dell’ordinamento italiano e, al contrario, pressoché assente nella disciplina posta dalla norma convenzionale115.

Infatti, nel nostro sistema costituzionale la funzione sociale è stata concepita non tanto come limite alla proprietà, quanto come vera e propria essenza della stessa. Ciò è emerso sin dai lavori dell’Assemblea costituente, caratterizzati da una generalizzata «volontà di strutturare la norma costituzionale116 in modo tale da consentire che, nei ricorrenti contrasti tra interesse proprietario e interesse sociale, fosse legittima la prevalenza legislativamente accordata a quest’ultimo», al fine di determinare «un mutamento qualitativo, che attiene al fondamento stesso dell’attribuzione al privato dei poteri proprietari»117.

L’opera dei Costituenti ha avuto, quindi, l’effetto di una vera e propria “rivoluzione copernicana” sulla disciplina del diritto di proprietà. Esso, infatti, non è stato più visto – sotto un’ottica individualistica, secondo quella che era la classica concezione liberale – come una situazione giuridica soggettiva assoluta, le cui limitazioni costituivano necessariamente delle eccezioni (come tali soggette

115

La non coincidenza delle concezioni del diritto di proprietà esistenti nell’ordinamento nazionale ed in quello convenzionale è stata, peraltro, espressamente messa in evidenza anche dalla Corte di Cassazione nelle pronunce n. 11887/2006 e n. 12810/2006 (vale a dire nelle ordinanze che hanno originato, rispettivamente, le sentenze n. 349 e n. 348 del 2007 della Corte costituzionale), laddove è stato rilevato che «la concezione liberale del diritto di proprietà che fa da sfondo all’interpretazione resa dalla Corte dei diritti sull’art. 1, 1^ prot. add. […] non appare perfettamente in linea con il disegno dell’Assemblea costituente (nell’art. 42 Cost., ma anche, più in generale, nell’art. 41 Cost.) di mediare le facoltà dominicali (e imprenditoriali) con l’utilità pubblica».

116

Ovviamente si fa riferimento all’art. 42 della Costituzione.

117

Cfr. S.RODOTÀ, Art. 42, in G.BRANCA –A.PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della

Costituzione, Bologna-Roma, 1982 (spec. pp. 110 e 112), il quale precisa che la scelta operata dai

Costituenti costituisce «non un criterio di bilanciamento, […] ma di selezione tra interessi contrapposti», in tal modo volendo sottolineare l’opzione di principio a favore di una sovraordinazione dell’interesse sociale su quello individuale del singolo proprietario («a tutte le grandi forze presenti nell’Assemblea costituente è comune l’intenzione (o almeno la volontà proclamata) di modificare il quadro di principi all’interno del quale far operare la disciplina proprietaria. Per raggiungere questo obiettivo si ricorre al riferimento alla funzione sociale»: cfr. p. 112).

ad un’applicazione rigorosamente restrittiva), ma è stato riconsiderato – sotto un’ottica solidaristica – alla luce del riferimento alla funzione sociale, intesa come «principio ordinatore della disciplina della proprietà»118. Ciò ha comportato, naturalmente, una variazione dell’intensità della tutela riconosciuta agli interessi proprietari, ormai «depotenziata»119, anche per l’ampliamento delle restrizioni120 ad essi applicabili (pure in via analogica), ma, più in generale, derivante dal fatto che la funzione sociale si è imposta quale «necessario criterio di interpretazione o reinterpretazione del materiale legislativo»121 in materia di proprietà.

Questa chiave di lettura del diritto di proprietà, innovativa rispetto al passato, ha trovato sostanziale conferma nella giurisprudenza costituzionale122 in

118

Cfr. F.MACARIO, Art. 42, in R.BIFULCO –A.CELOTTO –M.OLIVETTI, Commentario alla

Costituzione, Torino, 2006, pp. 864-882, spec. p. 869. 119

Cfr. S.RODOTÀ, Art. 42, cit., p. 113.

120

Qualificate come «elementi strutturali e fisiologici» della configurazione dell’istituto data dal nostro legislatore (cfr. F.MACARIO, Art. 42, cit., p. 870).

121

Cfr., ancora, S.RODOTÀ, Art. 42, cit., p. 117.

122

Di opinione decisamente contraria è, a tal proposito, S.RODOTÀ, Art. 42, cit., a parere del quale la Corte costituzionale, a partire dagli anni sessanta (ed in particolare con le sentenze n. 6/1966 e n. 55/1968), avrebbe inaugurato una giurisprudenza – relativa non alla sola disciplina dell’espropriazione, ma a diversi profili attinenti al diritto di proprietà – volta ad operare un progressivo «rafforzamento della tutela proprietaria», indice di una linea di politica del diritto ritenuta «complessivamente confliggente con il disegno della Costituzione». L’A. è particolarmente duro nel valutare la strada seguita dai giudici costituzionali – caratterizzata, a suo dire, dall’introduzione di «notevoli ed arbitrari elementi di contraddizione» – tanto da arrivare a parlare di «stravolgimento del sistema costituzionale», di «rovesciamento della prospettiva costituzionale» e, addirittura, di vera e propria «modifica costituzionale». Le ragioni di una siffatta critica all’operato della Consulta derivano dalla considerazione che, mentre la scelta dei Costituenti in materia di proprietà era volta a dare primario rilievo alla sua funzione sociale – che, come visto, ne costituiva il vero «principio ordinatore» – al contrario, la Corte costituzionale avrebbe adottato un orientamento in cui «il criterio sostanziale non è più rappresentato dall’interesse sociale, ma da quello del proprietario». Inoltre, l’A. – che parte dal presupposto che il disegno costituzionale (con la previsione di una riserva di legge relativa) aveva attribuito al legislatore futuro il compito di tutelare la proprietà, con la possibilità di scegliere discrezionalmente come conformare l’istituto – contesta anche la giurisprudenza costituzionale in materia di espropriazione (ed in particolare la sentenza n. 5 del 1980), ritenendo che essa avrebbe sostanzialmente “legato le mani” al legislatore nell’esercizio del suo potere conformativo della proprietà, laddove ha collegato la misura dell’indennità di esproprio «al valore del bene, determinato dalle sue caratteristiche essenziali e dalla destinazione economica», giungendo in tal modo «ad ignorare completamente la logica che aveva ispirato […] l’aggancio alla legge». Tuttavia, tali critiche appaiono eccessive, apparendo volte ad esaltare, in misura sproporzionata, l’original intent del legislatore costituente, le cui scelte – è bene ricordarlo – sono comunque il frutto di un “compromesso” tra le varie forze politiche presenti nell’Assemblea (sulla natura compromissoria dell’art. 42 Cost., si veda anche P.RESCIGNO, Proprietà (dir. priv.), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1988). Inoltre, limitandosi alle critiche mosse alla sentenza n. 5/1980 in materia espropriativa, questa volontà di difendere l’originario disegno costituzionale sembra aver fatto perdere di vista all’A. l’incidenza concreta delle norme annullate con tale pronuncia, le quali finivano per applicare un criterio (quello del valore agricolo medio) per la determinazione

materia di espropriazione per pubblica utilità123. Infatti, come è emerso dall’analisi posta in essere, fin dalla sentenza n. 61 del 1957, la Consulta ha riconosciuto la rilevanza degli «scopi di pubblica utilità» e delle «finalità di progresso sociale» che ispirano la Carta costituzionale nella determinazione dell’indennizzo di esproprio, ritenendo che esso deve corrispondere «al massimo di contributo e di riparazione che, nell’ambito degli scopi di interesse generale, la Pubblica Amministrazione può garantire all’interesse privato» e negando, di conseguenza, copertura costituzionale alla regola della riparazione pari al valore di mercato del bene. E ciò in base alla considerazione secondo cui «non è ammissibile che proprio la Costituzione, con tutte le finalità di progresso sociale che la ispirano, abbia inteso, relativamente all’indennizzo, arrestarsi e ritornare al criterio dell’effettiva corrispondenza al valore venale dell’immobile, che già leggi precedenti, nella considerazione di finalità sociali, avevano superato»124.

La Corte costituzionale si è, quindi, mossa nel solco di tali principi, riaffermando sempre la centralità del parametro della funzione sociale nella regolamentazione del fenomeno espropriativo, anche quando questo era originato da un’occupazione illegittima di beni di proprietà privata. Anzi, l’istituto dell’occupazione espropriativa ha trovato la propria giustificazione teorica proprio nella volontà di garantire la realizzazione delle finalità di interesse generale, «in quanto esplicazione concreta della funzione sociale della proprietà»125.

E la funzione sociale della proprietà – intesa dalla stessa Corte come il «dovere di partecipare alla soddisfazione di interessi generali, nel che si sostanzia la nozione stessa del diritto di proprietà come viene modernamente intesa e come è stata recepita dalla nostra Costituzione»126 – ha trovato espresso riconoscimento anche nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, le quali, come visto, hanno inaugurato l’attuale stagione della giurisprudenza costituzionale, tutta volta a riconoscere la massima tutela possibile ai diritti dei proprietari espropriati, in ottemperanza ai parametri dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Infatti, in tali pronunce, la Corte, pur decidendo secondo un’ottica di maggiore protezione degli interessi proprietari, ha ribadito l’importanza della funzione sociale nell’ambito della regolamentazione del diritto di proprietà posta dall’art. 42 della Costituzione, specificandone la «stretta relazione all’art. 2 Cost.,

dell’indennità di esproprio del tutto avulso da qualsiasi considerazione circa le caratteristiche reali del bene, con il rischio di dar vita a situazioni gravemente discriminatorie, perché in evidente contrasto con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione.

123

Una sintetica (e più recente) analisi della giurisprudenza costituzionale in materia di espropriazione, in cui si esamina anche il rapporto con l’original intent del legislatore costituente, si può trovare in G.BELFIORE, Costituente, legislatore e Corti: il caso dell’espropriazione per

pubblica utilità, in F.GIUFFRÈ –I.NICOTRA (a cura di), Lavori preparatori ed original intent nella

giurisprudenza della Corte costituzionale, Torino, 2008, p. 273 ss. 124

Cfr. Corte cost. n . 61/1957, nonché, in termini pressoché identici, Corte Cost. n. 5/1960.

125

Cfr. Corte cost. n. 384/1990, cit., nonché le successive sentenze riportate supra (par. 2.2.2).

126

che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale»127 e mettendo in risalto come una disciplina troppo sbilanciata a favore dei diritti dei singoli proprietari comporterebbe livelli troppo elevati di spesa, i quali potrebbero finire per «pregiudicare la tutela effettiva di diritti fondamentali previsti in Costituzione».

Dal canto suo, lo statuto della proprietà predisposto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo diverge sotto diversi aspetti da quello posto dalla nostra Costituzione128.

Innanzitutto, il riferimento, contenuto nell’art. 1 del Protocollo addizionale n. 1, al «rispetto dei [propri] beni»129 implica, di per sé, una tutela più estesa di quella prevista dall’art. 42 Cost., atteso che il concetto di “bene” appare più ampio di quello di “proprietà”, stante la sua portata autonoma rispetto agli ordinamenti giuridici nazionali130. Pertanto, secondo la giurisprudenza della Corte europea, ai fini dell’applicazione di tale norma, non è rilevante la circostanza che il richiedente goda o meno di un diritto di proprietà nell’ordinamento interno, essendo, invece, sufficiente la titolarità di un qualsiasi diritto o interesse avente un valore patrimoniale.

Ma ciò che qui più interessa è l’ampiezza della tutela riconosciuta in

127

Cfr. Corte cost. n. 348/2007, punto 5.7 del considerato in diritto.

128

Un’interessante analisi di tale tematica si può trovare in A.GUAZZAROTTI, Interpretazione

conforme alla CEDU e proporzionalità e adeguatezza: il diritto di proprietà, in M.D’AMICO –B. RANDAZZO (a cura di), Interpretazione conforme e tecniche argomentative, Torino, 2009, pp.161- 200.

129

Come noto, la disposizione in esame recita testualmente: «1. Ogni persona fisica e giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. 2. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende». Secondo la Corte EDU, tale disposizione contiene tre norme distinte: «la prima, che è espressa nella prima frase del primo comma e riveste carattere generale, enuncia il principio del rispetto della proprietà; la seconda, che figura nella seconda frase dello stesso comma, concerne la privazione della proprietà e la sottomette a determinate condizioni; quanto alla terza, espressa nel secondo comma, riconosce agli Stati contraenti il potere, tra gli altri, di regolamentare l’uso dei beni conformemente all’interesse generale» (cfr., ex plurimis, Corte EDU 23 settembre 1982,

Sporrong e Lönnroth c. Svezia, par. 61; 21 febbraio 1986, James c. Regno Unito, par. 37; e 25

marzo 1999, Iatridis c. Grecia, par. 55).

130

In merito all’ampiezza del concetto di “bene”, occorre, però, rilevare che spesso la Corte di Strasburgo ha utilizzato tale termine come sinonimo di “proprietà” (cfr. Corte EDU, 13 marzo 1978, Marckx c. Belgio, par. 63). Per ciò che riguarda, invece, la sua portata autonoma rispetto agli ordinamenti nazionali, si vedano, ad esempio, le sentenze Gasus Dosier – und Fördertechnik

GmbH c. Paesi Bassi del 23 febbraio 1995 (par. 53) e Matos e Silva Lda. e altri c. Portogallo del

16 settembre 1996 (par. 75). Questa “autonomia” nella ricostruzione del concetto di bene (o di proprietà) è volta a garantire l’uniformità e la coerenza interna della giurisprudenza CEDU in materia, atteso che non è ammissibile che, a seconda dello Stato interessato dalle singole pronunce, possa mutare la portata di esso.

ambito europeo al diritto di proprietà. Limitando l’esame alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di espropriazione (legittima o illegittima), ciò che emerge a prima vista è la netta prevalenza degli interessi individuali rispetto all’interesse generale, dovuta ad una disciplina certamente più garantista rispetto alla normativa costituzionale italiana131, la quale, secondo parte della dottrina, ha prodotto delle «rotture evidenti» tra il sistema di tutela nazionale e quello garantito dalla CEDU132.

A differenza che nel nostro ordinamento, nel sistema CEDU è assente uno specifico riferimento alla “funzione sociale” della proprietà133 – che, quindi, non

131

Cfr. A.PACE, Costituzione europea e autonomia contrattuale. Indicazioni e appunti, in

www.associazionedeicostituzionalisti.it, in cui l’A., tuttavia, precisa che, a suo parere, la maggiore

garanzia per il proprietario privato non può essere visto come un vulnus alla funzione sociale prevista dalla nostra Costituzione, atteso che «nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la proprietà privata, pur nella diversità delle forme, non ha mai perso, sotto un profilo strutturale, i caratteri tipici del diritto soggettivo, la valutazione della funzione sociale essendo sempre rimasta a livello di conformazione legislativa».

132

Cfr. R. CONTI, L’occupazione acquisitiva, cit. (spec. p. 179), secondo cui la prevalenza riconosciuta alla tutela del diritto di proprietà rispetto all’interesse generale può essere spiegata con la circostanza che il concetto di diritto di proprietà fatto proprio dalla Convenzione «sembra assai vicino ad una concezione giusnaturalistica», in ragione della quale la proprietà viene vista come una «sorta di diritto naturale innato che costituisce elemento essenziale della dignità umana e che, come tale, rappresenta un valore fondamentale della persona» (p. 247).

133

Non sembra potersi dire lo stesso per ciò che riguarda l’ordinamento comunitario, nell’ambito del quale la giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado ha più volte affermato, in passato, che il diritto di proprietà (come gli altri diritti fondamentali) «non costituisce una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale», per cui può essere soggetto a restrizioni da parte della Comunità, «nel perseguimento dei suoi scopi di interesse generale» (cfr. Tribunale di primo grado, 14 luglio 1998, causa T-119/95, Hauer c.

Consiglio e Commissione, par. 39, nonché le decisioni della Corte di giustizia 13 luglio 1989,

causa 5/88, Wachauf c. Germania, par. 18; 10 gennaio 1992, causa C-177/90, Kühn c.

Landwirtschaftskammer Weser-Ems, par. 16; 15 aprile 1997, causa C-22/94, Irish Farmers Association e a. c. Irlanda, par. 27). Ciò sembrerebbe mostrare, quindi, una certa vicinanza dei

giudici comunitari all’orientamento seguito dalla Corte costituzionale italiana. Tuttavia, la disciplina del diritto di proprietà recepita nel testo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (e specificamente nell’art. 17, primo paragrafo) sembra, al contrario, mostrare, quanto meno sotto l’aspetto formale (con il riferimento testuale ad «ogni persona» quale titolare del diritto di proprietà e delle facoltà ad asso connesse), una matrice spiccatamente “individualistica” (cfr. A. LUCARELLI, Art. 17, in R.BIFULCO –M.CARTABIA –A.CELOTTO (a cura di), L’Europa dei diritti, cit., spec. p. 142 ss., il quale sottolinea che «il profilo individualistico […] è decisamente accentuato nell’art. 17, comprimendo, in parte, il nesso funzionale tra soddisfazione di bisogni individuali e bisogni collettivi» e che la nozione di «pubblico interesse», cui fa riferimento la Carta nell’ipotesi di privazione della proprietà, sembrerebbe avere una portata «più ristretta» di quella di «interesse generale», che l’art. 17 richiama in relazione alla regolamentazione dell’uso dei beni). La conferma del fatto che nella redazione della Carta si è optato per una lettura in chiave individualistica del diritto di proprietà, più vicina all’orientamento seguito nel sistema CEDU, viene dal testo della Spiegazione relativa all’articolo 17, in cui si puntualizza che, in base a quanto statuito dall’art. 52, par. 3, della Carta, «questo diritto ha significato e portata identici al diritto garantito dalla CEDU e le limitazioni non possono andare oltre quelle previste da quest’ultima».

può condizionare i diritti del singolo proprietario – e tale mancata previsione all’interno della Convenzione sembra essere correlata alla mancanza, in essa, di una prospettiva “solidaristica”134. La CEDU, infatti, nel disciplinare l’ipotesi in cui un soggetto venga privato della sua proprietà, pone come unico presupposto esplicito (oltre al rispetto del principio di legalità, su cui infra) l’esistenza di una «causa di pubblica utilità». Essa, tuttavia, non si configura certo come un elemento che caratterizza l’essenza stessa del diritto di proprietà – come accade nell’ordinamento costituzionale italiano con riferimento al parametro della funzione sociale – quanto, piuttosto, come una mera giustificazione del limite posto agli interessi del singolo individuo.

E la giurisprudenza di Strasburgo, sebbene inizialmente abbia attribuito pari rilievo ad entrambi i termini del bilanciamento (l’interesse generale, da una parte, e la salvaguardia dei diritti del proprietario, dall’altra), considerando necessario il rispetto di un «giusto equilibrio» tra di essi, col tempo ha assunto una posizione sempre più volta a far prevalere l’interesse individuale. Indice di tale evoluzione dell’orientamento dei giudici europei è, ad esempio, la statuizione del principio generale secondo cui, anche in caso di espropriazione lecita, «solo un indennizzo integrale pari al valore del bene può essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto», ritenendo, quindi, limitata ad ipotesi eccezionali la possibilità di corrispondere al proprietario espropriato un indennizzo in misura ridotta135.

La divergenza di vedute tra i due sistemi di tutela emerge anche con riferimento al parametro della “pubblica utilità” (del cui contenuto in ambito europeo, differente da quello recepito nel nostro ordinamento, si parlerà nel successivo paragrafo 4.1) e, in maniera forse ancor più evidente, riguardo al principio di legalità. In ordine a quest’ultimo profilo, particolarmente eloquente è la giurisprudenza in tema di occupazione espropriativa, in relazione alla quale la Corte di Strasburgo – dopo aver, in un primo momento (sentenza Zubani del 1996), avallato la disciplina italiana, ritenendola rispettosa del principio di legalità per il solo fatto di prevedere, per legge, la garanzia dell’adeguatezza del risarcimento e del giusto bilanciamento tra interesse pubblico e privato – ha fissato, con la decisione Iatridis c. Grecia del 25 marzo 1999, il principio indefettibile in base al quale ogni privazione o limitazione del godimento di un bene deve avere una base legale e non essere arbitraria. Quindi, con le sentenze Carbonara e Ventura e Belvedere Alberghiera del maggio 2000, ha fornito un’interpretazione più rigorosa del principio di legalità, secondo cui, per non

134

Prospettiva solidaristica che, secondo F.BILANCIA, I diritti fondamentali come conquiste

sovranazionali di civiltà, Torino, 2002, non è stata sviluppata dalla Convenzione in quanto non di

sua competenza.

135

Tale principio è stato affermato a partire dalla sentenza Ex Re di Grecia c. Grecia del 28 novembre 2002 e ribadito in diverse altre pronunce successive, tra cui quella resa dalla Grande

incorrere in una violazione dell’art. 1, Prot. n. 1, CEDU, è necessaria la predisposizione di norme nazionali «sufficientemente accessibili, precise e prevedibili». In questo modo, la Corte ha introdotto una ricostruzione innovativa del canone di legalità, che tiene conto della “qualità” delle norme di legge e della loro intelligibilità, spingendosi anche a verificare la razionalità dei loro contenuti e la non arbitrarietà dei risultati a cui esse giungono, proprio al fine di meglio tutelare la posizione del singolo proprietario.

Le circostanze sopra riportate mostrano, dunque, come l’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo abbia allargato la forbice tra il sistema di tutela del diritto di proprietà esistente a livello europeo e quello presente nell’ordinamento costituzionale italiano, avendo accentuato l’orientamento volto ad ampliare la protezione degli interessi proprietari, in un’ottica marcatamente individualistica, che sembra ignorare (quasi) del tutto le finalità sociali che caratterizzano la connotazione dell’istituto fatta propria dalla