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Diritti in conflitto. Tra scelte "tragiche" e moltiplicazione dei livelli di tutela

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PREMESSA

In passato, l’affermazione e la tutela dei diritti fondamentali erano viste, oltre che come una conquista di civiltà, come un terreno condiviso su cui porre le fondamenta dell’ordinamento giuridico e, più in generale, dell’intera società (nazionale e non solo). Al giorno d’oggi, tale concezione non è certamente venuta meno, ma è cambiato il modo di approcciarsi al sistema dei diritti. Essi, come è stato opportunamente rilevato in dottrina, «non sono più affermati, sono soprattutto discussi: la dimensione dei diritti fondamentali assume sempre più l’aspetto di una lotta, di una tensione fra visioni diverse e contrastanti, apparentemente inconciliabili»: nelle società attuali, i diritti sono «contesi»1.

Tale contesa si sviluppa su differenti piani. In particolare, per ciò che qui interessa, in un’ottica strettamente applicativa, essa riguarda due aspetti: da una parte, quello che attiene al rapporto che si viene a creare tra i singoli diritti tutelati dalla legge – e, ancor prima, dalla Costituzione – i quali si pongono, tra di loro, in rapporto conflittuale; dall’altra, invece, si fa riferimento alla contrapposizione tra i vari livelli ordinamentali di tutela, in ognuno dei quali ciascun diritto, sebbene identificato sotto una stessa “etichetta”, può essere inteso in modo non univoco e ricevere un diverso grado di protezione2.

Lo scopo di questo lavoro è quello di esaminare entrambi i suddetti profili di conflittualità e di mettere in luce i problemi che essi pongono in concreto, ovvero nell’ambito dell’attività di applicazione del diritto. Per far ciò, dunque, lo studio verrà svolto attraverso l’analisi di alcuni casi paradigmatici in cui il conflitto, nell’una o nell’altra versione, si è manifestato in maniera più evidente.

In merito al primo dei due ambiti di contesa che sono stati indicati, quello che cioè riguarda il conflitto tra diritti – di cui ci si occuperà nella prima parte di questo lavoro, costituita dai capitoli I e II – le ragioni di tale disputa sono da ricercare nella connotazione pluralistica del nostro ordinamento costituzionale e

1

Entrambe le citazioni sono tratte da M.D’AMICO, I diritti contesi, Milano, 2008, p. 11.

2

A questi due piani di “contesa”, M.D’AMICO, I diritti contesi, cit., ne affianca un terzo, che riguarda il rapporto tra i diversi “attori” istituzionali che, all’interno dello stesso ordinamento, possono essere coinvolti nella garanzia dei diritti fondamentali – il legislatore, da una parte, ed i giudici (costituzionali e comuni), dall’altra – in merito al quale l’A. sottolinea che «nella tensione fra la determinazione della consistenza dei diritti da parte del legislatore o del giudice, si coglie appieno la tensione fra l’affidare tale importante compito al potere politico, come potere rappresentativo, oppure a quello giudiziario, che invece rappresentativo non è» (p. 17). Questo piano di contesa, tuttavia, riguardando una questione attinente ai rapporti tra poteri, non sarà oggetto di trattazione in questo lavoro, che vuole invece indagare i profili problematici che si pongono nella tutela dei diritti in sede applicativa.

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nel mutamento che essa ha subìto rispetto all’epoca dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana: la conflittualità tra diritti – e, a monte, tra valori – è una caratteristica che cammina di pari passo con la nozione di pluralismo e che, quindi, è inevitabile in un ordinamento, come quello italiano, fondato proprio sul pluralismo dei valori.

Tuttavia, tale conflittualità appare oggi ancora più accesa ed estremizzata di quanto non fosse in passato. Ciò è dovuto, principalmente, all’evoluzione sociale e culturale in atto nel nostro (e non solo nel nostro) Paese, ma anche allo sviluppo in campo tecnico e scientifico.

L’evoluzione sociale e culturale ha fatto venir meno il vecchio assetto della società italiana, organizzata intorno a pochi valori fondamentali condivisi dalla grande maggioranza della popolazione: la società odierna è caratterizzata da una molteplicità di universi valoriali, i quali rivendicano un proprio spazio ed una adeguata tutela, entrando spesso in tensione l’uno nei confronti dell’altro. In questo senso, è estremamente eloquente la complessa diatriba riguardante l’esposizione dei simboli religiosi nei luoghi pubblici.

L’evoluzione tecnica e scientifica, invece, con le innovazioni portate in vari settori della vita della società, ha creato – tra le altre cose – nuove aspettative da cui sono derivate, a loro volta, nuove pretese meritevoli di tutela giuridica (e quindi nuovi diritti) ed ha, conseguentemente, aumentato anche le possibilità di conflitto con altri diritti (vecchi e nuovi). Basti pensare a tutte le novità registrate negli ultimi decenni in campo medico ed a tutte le tematiche riguardanti la bioetica, in cui si registrano conflitti (ad esempio, sul fine vita, sull’aborto, sulla fecondazione assistita, giusto per citare alcune tra le questioni più calde e dibattute) che, un tempo, non sarebbero stati neppure immaginabili.

L’analisi svolta nel capitolo I parte proprio dalla presa di coscienza di questo stato di cose, attraverso una breve ricostruzione delle sue origini e della sua progressiva evoluzione. Si passerà, quindi, ad inquadrare il problema dal punto di vista teorico, per poi analizzare le diverse strategie argomentative che sono state elaborate in dottrina per affrontare il fenomeno del conflitto tra diritti. In conclusione, l’attenzione verrà focalizzata su quello che è generalmente ritenuto lo strumento più adeguato per giungere ad una composizione dei conflitti, vale a dire la tecnica del “bilanciamento”, il cui obiettivo, come noto, è quello di individuare un punto di equilibrio tra gli interessi antagonisti – cui si giunge a seguito di reciproche concessioni – che garantisca, quanto meno, la salvaguardia del nucleo essenziale di ciascuno di essi.

Nel capitolo II, invece, si metterà in luce l’esistenza di situazioni conflittuali in cui l’inconciliabilità tra gli interessi in contesa appare irrisolvibile, anche facendo ricorso alla tecnica del bilanciamento (che, in siffatte ipotesi, sembra entrare in crisi), perché la loro coesistenza e contemporanea tutela è materialmente impossibile o perché le scelte valoriali che stanno alla base di ciascuno di essi sono affermate in modo assoluto e non ammettono concessioni di

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alcun genere, se non a costo di rinnegare la loro stessa essenza. L’analisi avrà ad oggetto due casi concreti, esemplificativi dei due profili in cui tale inconciliabilità può manifestarsi, in modo da verificare il modo in cui la giurisprudenza li ha affrontati e risolti: in particolare, si esamineranno le questioni del fine vita e dell’esposizione del crocifisso negli spazi pubblici.

La seconda parte del lavoro – composta dai capitoli III e IV – è volta, invece, ad analizzare le situazioni di conflittualità che derivano dalla moltiplicazione dei cataloghi dei diritti, che si affiancano a quello contenuto nella Carta costituzionale. In particolare, si vuole concentrare l’attenzione sul fatto che, in ciascuno dei diversi livelli ordinamentali di tutela, ogni diritto ha un suo specifico regime giuridico ed un suo standard di protezione. Da ciò consegue che può concretamente configurarsi un contrasto tra le differenti concezioni di uno specifico diritto esistenti nei singoli sistemi, nonostante in ciascuno di essi venga etichettato con lo stesso nomen iuris.

Si concentrerà l’attenzione soprattutto sulle due Carte europee dei diritti – la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – muovendo dallo studio dell’evoluzione del loro rapporto con il nostro ordinamento giuridico (capitolo III).

Si passerà poi, nel capitolo IV, all’esame delle problematiche applicative derivanti dalla sovrapposizione dei differenti livelli di tutela dei diritti, con particolare riferimento a quelle nascenti dai rapporti con la CEDU, rispetto ai quali la conflittualità tra le diverse letture di un medesimo diritto è emersa in maniera sistematica, dando vita ad infiniti contrasti giurisprudenziali tra le Corti nazionali e la Corte di Strasburgo (a differenza di quanto avviene per ciò che riguarda i rapporti con l’ordinamento comunitario, in relazione al quale, peraltro, si ritiene che eventuali conflitti siano maggiormente gestibili, come si cercherà di spiegare).

L’evidenza del problema è tale che esso si è manifestato addirittura con riferimento ad un classico diritto della tradizione liberale: il diritto di proprietà. Per dar conto, in concreto, di tale situazione, si ritiene, quindi, opportuno partire dall’esposizione del caso che più di ogni altro ha mostrato l’esistenza di tale divergenza di vedute tra livello nazionale e livello convenzionale: il caso dell’espropriazione forzata per causa di pubblica utilità.

Partendo da un’analisi dettagliata di tale fattispecie, in cui si cercherà di far emergere proprio il diverso modo di intendere i contenuti essenziali del diritto di proprietà (alla luce della diversa disciplina dell’istituto dell’espropriazione, legittima ed illegittima), si proporranno alcune considerazioni “di sistema”, che traggono spunto dal caso esaminato.

Innanzitutto, si analizzerà proprio tale diversità di concezioni (stesso nomen iuris, diversi contenuti) del diritto di proprietà, mettendo in evidenza l’evoluzione della disciplina dell’istituto dell’espropriazione, per dimostrare la

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tendenza del nostro ordinamento ad “appiattirsi” sulle soluzioni fornite a livello europeo (tendenza, in realtà, generalizzata e non riferibile al solo diritto di proprietà), fino quasi a smentire la concezione di tale diritto esistente nella nostra Costituzione.

Quindi ci si soffermerà sull’ormai consolidato obbligo di interpretazione conforme alla CEDU, che appare come la massima espressione di tale adeguamento “passivo” del nostro sistema a quello convenzionale.

Da ciò, come si avrà modo di spiegare, derivano, a cascata, una serie di altri inconvenienti, ognuno dei quali sarà oggetto di riflessione critica e che, qui di seguito, ci si limita intanto a richiamare.

In primo luogo, i giudici nazionali si ritrovano a dover sottostare alla lettura del testo della Convenzione data dai giudici europei, dovendo necessariamente piegare le norme nazionali al rispetto di un parametro rigido, sulla cui interpretazione non hanno alcun margine per incidere. Ciò comporta anche la circostanza che si finisce per dare esclusiva prevalenza alla concezione europeistica di un diritto, piuttosto che a quella interna.

Un’altra manifestazione di questo “appiattimento” della giurisprudenza nazionale sugli orientamenti emersi in ambito convenzionale consiste nel fatto che viene recepito anche il bilanciamento tra interessi contrapposti operato a livello europeo, il quale si basa su logiche spesso non corrispondenti a quelle che caratterizzano il nostro bilanciamento, finendo così per trascurare profili ritenuti fondamentali nell’ordinamento interno (in tal senso, è emblematico l’esempio, relativo al diritto di proprietà, della scarsa considerazione dei limiti volti a garantire l’interesse generale o l’utilità sociale, espressione del contrasto tra l’impronta individualistica della CEDU e l’impronta solidaristica tipica della nostra Costituzione).

Ed ancora, si pone l’ulteriore rilevante questione che, dall’obbligo di interpretazione convenzionalmente conforme, deriva il rischio che il giudice comune “bypassi” il controllo della Corte costituzionale circa la conformità delle norme CEDU al parametro costituzionale, dandovi diretta applicazione: circostanza, questa, che determina l’emarginazione del Giudice delle leggi dal sistema di tutela dei diritti fondamentali. Situazione resa ancor più esasperata dal fenomeno della disapplicazione delle norme di legge nazionali contrastanti con la Convenzione europea e con la giurisprudenza di Strasburgo, il quale ha preso piede nella giurisprudenza comune, nonostante la Corte costituzionale ne abbia ripetutamente escluso (anche di recente) la legittimità con riferimento ai rapporti tra diritto interno e diritto convenzionale.

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PARTE PRIMA

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CAPITOLO I

IL CONFLITTO TRA DIRITTI

1. Da dove nascono i conflitti?

La problematica dei conflitti tra i vari diritti ed interessi che ricevono tutela costituzionale trova la propria genesi in quella che costituisce una della caratteristiche fondamentali della Costituzione italiana, vale a dire la sua connotazione pluralistica.

La nostra Carta fondamentale, come noto, è il risultato di un vero e proprio “patto” con cui le forze politiche facenti parte dell’Assemblea costituente, mosse da obiettivi e interessi divergenti, hanno raggiunto un compromesso tra principi contrapposti, spesso inconciliabili1. Compromesso che si è realizzato attraverso la stesura di una Costituzione “lunga”, «perché un consenso così vasto si è potuto realizzare soltanto sommando, e non selezionando, le istanze, gli interessi e i valori delle diverse componenti», ed “aperta”, «nel senso che non pretende di individuare il punto di equilibrio tra i diversi interessi, ma si limita ad elencarli, a giustapporli, lasciando alla legislazione successiva di individuare il punto di bilanciamento»2.

Pertanto, i possibili conflitti nascenti tra tali forze sono stati incorporati nella struttura pluralistica della Costituzione stessa, senza la pretesa di risolverli una volta per tutte, ma puntando, piuttosto, ad istituire regole e procedure che consentissero di giungere, in futuro, ad una mediazione tra interessi e principi confliggenti, ma ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale.

È stato rilevato, in dottrina, come sia proprio la collocazione del conflitto sociale all’interno, piuttosto che al di fuori, del «“giardino” delle istituzioni e delle procedure costituzionali» a segnare la differenza tra costituzioni “rigide” e costituzioni “flessibili”3. Mentre le costituzioni odierne, caratterizzate da un certo

1

Si tratta di una caratteristica propria di molte costituzioni del Novecento, le quali «non sono altro che equilibri convenzionali – armistizi strategici – tra forze contrapposte»: cfr. M.DOGLIANI,

La costituzione italiana del 1947 nella sua fase contemporanea, in www.costituzionalismo.it. 2

Entrambe tali definizioni sono tratte da R.BIN –G.PITRUZZELLA, Diritto costituzionale, X ed., Torino, 2009, p. 120.

3

Così R.BIN, Che cos’è la Costituzione?, in Quad. cost., n. 1/2007, pp. 11-52 (spec. p. 21), il quale critica la lettura classica che si dà della distinzione tra costituzioni rigide e flessibili, che fa leva sulla previsione o meno di un procedimento aggravato di revisione costituzionale, preferendo, piuttosto, spostare il problema sul piano della collocazione del conflitto sociale: «cercare nel testo stesso di una Costituzione i segni della sua capacità di imporsi al legislatore e ai giudici, di essere regola superiore, inderogabile, direttamente applicabile, mi pare del resto alquanto ingenuo» (p.

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grado di rigidità, hanno l’ambizione di governare il conflitto sociale attraverso la sua inclusione nell’ambito delle istituzioni costituzionali, le carte “flessibili” lo tenevano lontano dal circuito della rappresentanza politica. In altri termini, l’idea di Costituzione “flessibile” è la forma istituzionale di un’ideologia che lascia fuori dal “campo costituzionale” il conflitto sociale e restringe il novero dei diritti e delle libertà che godono di garanzie costituzionali, limitandolo a quelli di interesse della classe dominante, con esclusione di tutti gli altri.

La “rigidità” che contraddistingue la nostra Costituzione è, al contrario, la conseguenza di un superamento definitivo di quella «concezione monodimensionale»4, ed è chiamata a svolgere un ruolo ben diverso da quello delle costituzioni “flessibili” dell’epoca liberale. Essa, infatti, offre un quadro pluralistico di interessi antagonisti, la cui concorrenza non è affatto risolta attraverso una loro selezione e composizione secondo un ben definito ordine di priorità, ma anzi è riconosciuta come dato strutturale ed insuperabile5. Ci dice quali valori non possono essere totalmente sacrificati, ma non quelli che devono necessariamente prevalere.

La Costituzione italiana è, quindi, espressione della volontà non di delineare l’assetto definitivo dei rapporti di forza, ma di guardare al futuro, rinviando la mediazione tra interessi e pretese contrapposte a momenti successivi e demandando alla capacità dei soggetti istituzionali il compito di determinare e modificare di continuo i punti di equilibrio.

In sostanza, le società attuali assegnano alla Costituzione «il compito di realizzare la condizione di possibilità della vita comune, non il compito di realizzare direttamente un progetto determinato di vita comune»6. È, dunque, la Costituzione la base a partire dalla quale è possibile, per le opposte forze sociali che in essa trovano garanzia di legittimità, imprimere allo Stato un indirizzo di un segno o di un altro, nell’ambito delle possibilità offerte dal compromesso costituzionale: «questa è la condizione delle costituzioni democratiche al tempo

17).

4

Anche questa espressione è di R.BIN, Che cos’è la Costituzione?, cit., p. 19.

5

Cfr., ancora, R. BIN, Che cos’è la Costituzione?, cit., p. 20, il quale individua nella regolazione del conflitto tra i vari interessi inconciliabili recepiti dalla Costituzione l’«oggetto sociale» della stessa. In linea con quanto detto, l’A. attacca, invece, la teoria dell’interpretazione

magis ut valeat, definendola un “equivoco” che si sostanzia nell’attribuire alla Costituzione

repubblicana la natura di “programma” da attuare mediante l’attività di legislazione ordinaria, e sostenendo, al contrario, che essa, a causa della sua connotazione pluralistica, non può contenere un programma prestabilito che aspetta solo di essere messo in atto. Semmai contiene valori e principi che di volta in volta, in futuro, andranno bilanciati e composti.

6

Cfr. G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, Torino, 1992 (spec. p. 9), il quale continua sottolineando che «l’assunzione del pluralismo nelle forme di una costituzione democratica è semplicemente una proposta di soluzione e di coesistenze possibili, cioè un “compromesso delle possibilità”, non un progetto rigidamente ordinante che possa essere assunto come a priori della politica dotato di forza propria», atteso che «oggi tra diritto costituzionale e adesione unilaterale a un progetto politico particolare chiuso c’è contraddizione» (pp. 10 e 14).

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del pluralismo»7.

Ma l’evidente molteplicità e contraddittorietà dei valori, principi ed interessi che trovano riconoscimento nella Carta costituzionale non ne costituisce un difetto8 e non appare corretto, in ogni caso, far discendere dal pluralismo costituzionale una presunta incoerenza ed asistematicità della Costituzione, la quale, anzi, consiste in un «complesso di norme che il costituente ha posto volendo egli stabilire un tutto dotato di senso e coerenza»9. Certo, è possibile che, a causa dell’open texture dei principi costituzionali e delle formule non sempre chiare utilizzate dal costituente, sia necessaria un’opera interpretativa piuttosto complessa e che può condurre all’individuazione di significati diversi da interprete ad interprete. Ma ciò non toglie che la Costituzione esprima «intenzionalmente un sistema di valori e di principi fondamentali […] messi in relazione reciproca tra loro in modo che a certi “diritti” siano contrapposti determinati “interessi pubblici”, a certe opzioni di valore corrispondano determinati principi costituzionali […] e così via»10.

La coesistenza di valori e principi sulla quale la Costituzione si fonda richiede, però, che ciascuno di essi sia assunto in una valenza non assoluta, bensì compatibile con quelli con i quali deve convivere: è necessaria quella «mitezza costituzionale», che Zagrebelsky ha qualificato come «carattere essenziale del diritto degli Stati costituzionali odierni», da cui deriva l’esigenza di una «aurea medietas» nella vita collettiva, fatta di atteggiamenti moderati, ma pur sempre positivi e costruttivi11.

7

Cfr., nuovamente, G.ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 9.

8

«La natura innegabilmente pluralistica e intimamente contraddittoria della costituzione non è una triste realtà; può invece costituirne uno dei maggiori punti di forza»: così L.H.TRIBE –M.C. DORF, Leggere la Costituzione, Bologna, 2005, p. 36. Nello stesso senso anche R.BIN, Che cos’è

la Costituzione?, cit., secondo cui il recepimento della opposte visioni che dividevano i costituenti

costituisce una «caratteristica strutturale ineliminabile» della Costituzione repubblicana, tale che, se invece di incorporare il conflitto, fosse stata affermata la sua soluzione, «sarebbe semplicemente stata una costituzione diversa, […] meno adatta ad affrontare la complessità sociale» (p. 23).

9

Cfr. A. BALDASSARRE, Interpretazione e argomentazione nel diritto costituzionale, in

www.costituzionalismo.it. 10

Così, ancora, A.BALDASSARRE, Interpretazione e argomentazione nel diritto costituzionale, cit.

11

Cfr. G.ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., pp. 11 e 13. L’A., sfruttando l’immagine della “mitezza”, ha voluto mettere in evidenza come «ciascun principio e ciascun valore, se intesi nella purezza di un loro concetto assoluto, si risolverebbero nell’impossibilità di ammetterne altri accanto», mentre è necessario realizzare «non la prevalenza di un solo valore e di un solo principio, ma la salvaguardia di tanti, contemporaneamente. L’imperativo di non contraddizione […] non dovrebbe impedire il perseguimento del compito, proprio della jurisprudentia, di realizzare positivamente la “pratica concordanza” delle diversità e perfino delle contraddizioni […] attraverso accorte soluzioni cumulative, combinatorie, compensative che portino i principi costituzionali a svilupparsi insieme, piuttosto che ad avvizzirsi insieme» (pp. 13-14). L’A., a tal proposito, richiama il concetto di “pratica concordanza” (tratto da K. HESSE, Grundzüge des

(10)

Nell’ambito del quadro pluralistico offerto dalla Costituzione, in definitiva, «carattere assoluto assume solo una meta-valore che si esprime nel duplice imperativo del mantenimento del pluralismo dei valori […] e del loro confronto leale»12.

1.1. Il nuovo volto del pluralismo nell’ordinamento costituzionale italiano.

Dopo aver messo in evidenza la natura “armistiziale” della Costituzione del 1948 e la sua connotazione inevitabilmente pluralistica, occorre porre ora l’attenzione su quello che era il contesto in cui la nostra Carta fondamentale è venuta alla luce e sulla trasformazione che esso ha subito negli anni.

Come detto, la Costituzione repubblicana si configura, innanzitutto, come un “patto”, un compromesso, fatto di rinunce e concessioni, tra diverse forze politiche concorrenti, ciascuna delle quali si faceva portatrice delle istanze di una certa parte della società. Era dunque la centralità del ruolo dei partiti politici a caratterizzare la nostra democrazia pluralistica all’epoca dell’Assemblea costituente. La società italiana era organizzata intorno alla figura del partito politico di massa, che era «strumentale ad una società divisa in blocchi omogenei di interessi sociali contrapposti»13: il partito costituiva il collettore degli interessi di una specifica fascia della società, che si rispecchiava nell’ideologia da questo professata.

Il nostro sistema costituzionale si ispirava, quindi, al modello del c.d. Parteienstaat, o “Stato dei partiti”14

, che ha costituito la forma della democrazia pluralistica italiana nei primi quarant’anni dell’esperienza repubblicana, durante i quali i partiti sono stati i veri protagonisti della politica, la quale non esisteva al di fuori di essi (mentre lo Stato, a sua volta, rappresentava «il teatro della politica dei partiti»)15.

si indica il compito da realizzare in tutti i casi di “intersecazione” e di “collisione” tra diritti ed altri beni giuridici, costituzionalmente protetti.

12

Cfr., nuovamente, G.ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 11. Così anche R.BIN, Che cos’è

la Costituzione?, cit., il quale a sua volta afferma che «il “relativismo” è la filosofia ufficiale della

costituzione, i cui unici valori “supremi” attengono al mantenimento del relativismo stesso, del pluralismo non “riducibile” a unità, dell’obbligo della composizione pacifica dei conflitti» (p. 30).

13

Cfr. O.CHESSA, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in V. TONDI DELLA MURA –M.CARDUCCI –R.G.RODIO (a cura di), Corte costituzionale e processi di

decisione politica, Torino, 2005, pp. 17-89 (spec. pp. 51-52). 14

L’espressione è tratta da C.SCHMITT, Der Hüter del Verfassung, Berlin, 1931, trad. it. Il

custode della Costituzione, Milano, 1981, p. 135, ed è ripresa da O.CHESSA, Corte costituzionale e

trasformazioni della democrazia pluralistica, cit., p. 51. 15

Cfr., nuovamente, O. CHESSA, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia

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Tuttavia, non si può certamente più affermare che il modello dello “Stato dei partiti” seguiti a costituire un paradigma valido ai nostri giorni, atteso che, a seguito della crisi che esso ha attraversato, è ormai un dato evidente la perdita di centralità del partito politico all’interno dell’ordinamento. Ciò ha prodotto un mutamento nella fisionomia della democrazia pluralistica italiana, che, venendo meno questo scenario, ha determinato una frammentazione della struttura sociale e, conseguentemente, un’articolazione pluralistica delle istanze emergenti in seno alla società civile molto più variegata di quanto non fosse in passato.

Il pluralismo complesso della società contemporanea è, infatti, ben più ampio del pluralismo partitico: ai partiti tradizionali si è andata sostituendo una molteplicità di gruppi di interesse spesso in contrapposizione o parziale sovrapposizione tra loro, mentre la società ha acquisito sempre più una conformazione multietnica, multiculturale, multietica. Insomma, si è in presenza di un nuovo panorama costituzionale, ormai svincolato dal sistema dei partiti e dalla sua capacità di tenere insieme la pluralità di istanze provenienti dal tessuto sociale ed in cui i principi, gli interessi e i valori concorrenti – e spesso in contrasto tra loro – non sono più quelli portati avanti dalle forze politiche, ma quelli emergenti dalle “microparticelle” che compongono la società odierna.

Un altro fattore, poi, che ha influito in maniera determinante sulla trasformazione – e, quindi, sulla conformazione attuale – della nostra democrazia pluralistica è costituito dall’attività decisionale della Corte costituzionale.

In particolare, assume specifica importanza l’affermazione della dottrina dei “principi supremi”, che ha trovato il suo punto qualificante nella sentenza n. 1146 del 1988. In tale decisione, come noto, il Giudice delle leggi ha statuito che «la Costituzione italiana contiene taluni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali», con ciò riferendosi non solo ai «principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale», ma anche ai «principi che, pur non essendo espressamente menzionati tra quelli assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana», tra i quali ha espressamente ricompreso i «diritti inalienabili della persona umana»16.

Da ciò derivano almeno due ordini di considerazioni.

La prima riguarda l’idea che i principi supremi dell’ordinamento costituzionale, quanto meno nel loro nucleo essenziale, valgano più di altre norme o leggi costituzionali: da qui il superamento della tradizionale classificazione delle fonti basata esclusivamente sui criteri formali di gerarchia e competenza17. I principi, secondo quanto affermato dalla Corte, hanno una valenza superiore non

16

Cfr. Corte cost. n. 1146/1988, punto 2.1 del considerato in diritto.

17

Sul punto, si veda S.BARTOLE, La Corte pensa alle riforme istituzionali?, in Giur. cost., 1988, p. 5570 ss.

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solo in ragione della fonte da cui si traggono, ma anche per il loro contenuto, per la loro “appartenenza” all’ordine dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione: in tal modo si affianca, quasi si sovrappone, alla gerarchia formale (tra fonti), una gerarchia sostanziale (tra norme). Quanto detto discende dal fatto che, in forza della pronuncia della Corte, la sindacabilità delle leggi costituzionali presuppone l’individuazione, come loro parametro, di un nucleo di norme formalmente identiche alle altre (in quanto poste da una fonte gerarchicamente equivalente), ma a differenza di queste considerate immodificabili in quanto supreme: «presuppone dunque l’utilizzazione di un criterio materiale per distinguere queste norme dalle altre»18.

La seconda considerazione, invece, riguarda la trasformazione del presupposto su cui si fonda la validità dei principi affermati nella Carta costituzionale19.

Infatti, secondo la dottrina dei “principi supremi” – inaugurata proprio dalla citata sentenza del 1988 – questi ultimi in tanto sono considerati inderogabili o immodificabili in quanto si pongono come assolutamente condizionanti l’intero ordinamento, «nel senso che in esso si irradiano e lo pervadono al punto che da essi non possa mai prescindersi, che con essi si debba necessariamente fare i conti, quali siano le regole legali (anche costituzionali) che lo costituiscono»20.

Essa determina l’abbandono della concezione dei principi costituzionali come «fini politici fondamentali, “portati” dai partiti», per oggettivarli e renderli patrimonio comune a tutti i soggetti dell’ordinamento. In altre parole, li sgancia dalla volontà storica delle compagini partitiche presenti in Assemblea costituente: «i principi costituzionali non sono più la trascrizione di concessioni reciproche, dettate dal calcolo strategico […]: ora sono […] valori condivisi intersoggettivamente, con una legittimazione ultrapartitica»21. La loro validità non poggia più su un compromesso fatto di reciproche concessioni e rinunce al fine di

18

Così M. DOGLIANI, La sindacabilità delle leggi costituzionali, ovvero la

“sdrammatizzazione” del diritto costituzionale, in Le Regioni, n. 3/1990, p. 774 ss. (spec. p. 778). 19

Sul tema della validità costituzionale – che, data la sua estrema vastità e complessità, non può certamente essere approfondito in queste pagine, volte soltanto a porre le premesse per trattare la questione, decisamente diversa, del conflitto tra diritti – si rimanda a O. CHESSA, Libertà

fondamentali e teoria costituzionale, Milano, 2002 (spec. cap. IV) ed all’ampia letteratura ivi

richiamata.

20

Cfr. F. MODUGNO, I principi costituzionali supremi come parametro nel giudizio di

legittimità costituzionale, in F.MODUGNO –A.S.AGRÒ –A.CERRI (a cura di), Il principio di unità

del controllo sulle leggi nella giurisprudenza costituzionale, Torino, 1997, p. 280 ss. (spec. pp.

297-298). L’A., inoltre, sottolinea come «la logica che presiede alla Costituzione come un tutto, al mantenimento e allo sviluppo dei principi assolutamente condizionanti è quella dei valori, alla prima irriducibile, anche se con essa interferente». E ancora evidenzia che «quando si parla di principi supremi non si parla di norme superiori ad altre, a tutte le altre, ma di entità diverse irriducibili al normativo, al mondo della norma».

21

Entrambe le citazioni da ultimo riportate nel testo sono tratte da O. CHESSA, Corte

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trovare un punto di equilibrio e non riposa più, dunque, neanche sulle forze politiche fautrici di quel compromesso.

Quindi, venendo meno il legame tra Costituzione e forze politiche, sulle quali poggiava la sua validità, si avverte il bisogno di ricercare un nuovo fondamento di essa, su cui converga il consenso della collettività.

Secondo una certa dottrina, nell’attuale ordinamento costituzionale, i principi fondamentali vigono in quanto sono oggetto di quello che è stato definito «overlapping consensus» o «consenso per intersezione»22. Ciò significa che la «“morale costituzionale” che sorregge la validità di una costituzione non è dunque l’esito di un patto, la risultante (sempre variabile) tra diverse e contrapposte

22

L’«overlapping consensus» o «consenso per intersezione» è un concetto espresso da J. RAWLS, Political liberalism (1993), trad. it. Liberalismo politico, Milano, 1994, e richiamato da O. CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit., p. 283 ss., al fine di meglio illustrare il modello della «consuetudine di riconoscimento». Quest’ultimo A. individua la norma di riconoscimento su cui si fonda la normatività della costituzione (e la sua superiorità rispetto alla legge) non nel «comando di un soggetto sovrano» (tramite il quale «non si riesce a fondare la normatività superlegislativa della costituzione, cioè la gerarchia tra costituzione e legge»), bensì nel fatto di «incorporare taluni assunti etici socialmente condivisi come basilari ed irrinunciabili» (contenuti etici che permettono, invece, di fissare una gerarchia tra costituzione e legge, poiché sono «sottratti alla disponibilità del potere politico», secondo un principio che, secondo l’A., è stato recepito anche dalla Corte costituzionale con l’affermazione della dottrina dei “principi supremi” nella citata sentenza n. 1146/1988). Tale norma di riconoscimento della prescrittività della costituzione, su cui si fonda la sua validità, ha origine consuetudinaria, in quanto poggia su una diffusa accettazione sociale, derivante dal convincimento della giustezza materiale dei contenuti etici recepiti dalla costituzione scritta: per tale ragione, si parla, quindi, di “consuetudine di riconoscimento”. Tuttavia, l’A. rileva che, nel «pluralismo “avanzato”» attuale, non tutti i contenuti etici emergenti nel tessuto sociale (i quali «coincidono con le attribuzioni di valore compiute storicamente da un contesto umano delimitato, quale prodotto della sua cultura e delle sue credenze morali») possono ambire al riconoscimento dello status costituzionale, atteso che, stante la loro moltiplicazione, ciò comporterebbe il rischio di un indebolimento della prescrittività costituzionale. Occorre, quindi, limitarsi a quei valori «che veramente siano in grado di proporsi ed affermarsi come il comune denominatore di svariate (e sfrangiate) componenti di un assetto sociale complesso»: in definitiva, è necessario circoscrivere il campo del “costituzionalmente rilevante”. Ed è qui che entra in gioco il concetto di matrice rawlsiana di “consenso per intersezione”, il quale serve a spiegare come, nell’ambito di una società caratterizzata dalla compresenza di una molteplicità di “dottrine comprensive”, ovvero di «numerose visioni generali […] della vita, più o meno ampie e meditate», la superiorità costituzionale (e l’unità sociale che su questa si basa) può essere fondata su quelle assunzioni etiche che «formano una “concezione politica della giustizia”» (intendendo, con tale locuzione, una concezione della giustizia che ha per oggetto solamente gli “elementi costituzionali essenziali”), vale a dire che possono costituire quel minimo comune denominatore su cui converge il consenso (detto, appunto, “per intersezione”) di una «pluralità di dottrine comprensive ragionevoli» (quindi, delle diverse visioni generali della vita). E i contenuti che esprimono tale minimo comune denominatore, su cui converge il “consenso per intersezione” della pluralità delle componenti sociali, «coincidono sostanzialmente con quelli della “giustizia come equità” […], cioè con i principi di giustizia corrispondenti ai diritti fondamentali (di libertà e di partecipazione politica)» (cfr. O.CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit., p. 285).

(14)

attribuzioni di valore riconducibili alle diverse e contrapposte forze sociopolitiche che partecipano alla codificazione costituzionale»23: i principi, ormai, non appartengono più alla Costituzione come “compromesso”, perché sono divenuti «il fondamento e il prodotto di un agire comunicativo che non si regge sulla concretezza di forze ed interessi ben determinati»24.

In ultima analisi, con la dottrina dei “principi supremi”, i programmi e le strategie dei partiti perdono la loro dimensione costituzionale, i principi costituzionali non corrispondono più ai fini politici, ma anzi essi, affrancati da qualsivoglia ideologia o programma riconducibile a questa o quella forza politica, valgono a prescindere dal fatto che siano portati da un soggetto determinato: il legame tra Costituzione e partito politico si dissolve nel nuovo volto del pluralismo costituzionale, in cui i principi di fondo si sono resi indipendenti ed hanno acquisito una propria autonoma connotazione e legittimazione.

Ciò significa che si è spostato anche l’asse dei potenziali conflitti, che non riguardano più i diversi gruppi sociali, che si rispecchiavano nei valori propugnati dalle singole forze politiche, ma contrappongono direttamente i singoli individui che si riconoscono, di volta in volta, in tali principi, interessi e valori – e che, quindi, rivendicano i diritti che di questi costituiscono l’espressione – i quali sono ormai patrimonio comune a tutti.

2. L’evoluzione del pluralismo nel campo dei diritti: l’ampliamento del catalogo tramite la lettura dell’art. 2 della Costituzione come norma a fattispecie “aperta”.

Al giorno d’oggi, il pluralismo del nostro ordinamento costituzionale non è più caratterizzato soltanto dalla molteplicità dei principi, interessi, valori e diritti recepiti espressamente in Costituzione, ma è ulteriormente implementato dal riconoscimento del rango costituzionale a fattispecie non tipizzate, che sono espressione dell’evoluzione della coscienza sociale e che trovano nel testo della Carta un appiglio di carattere generale, potendo essere ad essa ricollegate soltanto in via interpretativa.

Con riferimento ai diritti fondamentali, l’attribuzione dello status costituzionale ad ognuna di queste nuove situazioni giuridiche soggettive ed il conseguente ampliamento del relativo catalogo sono stati resi possibili soprattutto grazie ad una lettura “aperta” dell’art. 2 della Costituzione, la cui interpretazione – appunto, come norma a fattispecie “aperta” piuttosto che come norma a fattispecie “chiusa” – è stata oggetto di uno dei più accesi dibattiti che hanno animato la dottrina costituzionalistica e la giurisprudenza (non solo costituzionale) in Italia.

23

Cfr. O.CHESSA, Libertà fondamentali e teoria costituzionale, cit., p. 288.

24

Cfr. O.CHESSA, Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, cit., p. 54.

(15)

I sostenitori della tesi che vede nell’art. 2 una norma a fattispecie “aperta”, ritengono che tale disposizione possa – rectius, debba – essere intesa in senso estensivo, in modo da far riferimento non soltanto alle singole figure di diritti espressamente previste e tutelate nel testo costituzionale, ma anche alle fattispecie non tipizzate. Al contrario, per la seconda delle due tesi citate (quella restrittiva), la formula dell’art. 2 Cost. avrebbe una funzione meramente riassuntiva, di sintesi, rispetto ai singoli diritti enumerati nella parte prima della Costituzione (artt. 13 e ss.), che sarebbero, quindi, gli unici a poter essere qualificati come «inviolabili».

Conseguentemente, seguendo la prima impostazione, il catalogo dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e tutelati dalla nostra Costituzione sarebbe un catalogo aperto anche a quei diritti “nuovi” che sono emersi nella società civile dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e che non erano stati previsti – e, in molti casi, non erano neppure prevedibili – dai costituenti, diritti che riceverebbero copertura costituzionale proprio grazie all’ampia e generica formula di cui all’art. 225.

Al contrario, i sostenitori della tesi restrittiva ritengono che tali nuovi diritti possono ricevere tutela a livello costituzionale nel solo caso in cui siano riconducibili ad una (o più) delle fattispecie enumerate nella Carta fondamentale, alla luce di un’interpretazione estensiva delle singole disposizioni che specificamente le prevedono, per cui il catalogo dei diritti inviolabili sarebbe limitato a quelli espressamente previsti in Costituzione ed ai possibili sviluppi degli stessi e sarebbe, perciò, un catalogo “chiuso”26.

25

Principale fautore di questa tesi è A. BARBERA, Art. 2, in G.BRANCA –A.PIZZORUSSO (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna-Roma, 1975, secondo cui tale clausola di apertura deve funzionare a favore di quei valori che sono frutto dell’evoluzione culturale e storica della società e che sono condivisi all’interno di essa (piuttosto che ai contenuti del diritto naturale, che, invece, prescindono da tale evoluzione), i quali, proprio per la loro diffusa accettazione sociale, sono gli unici che riescono ad assumere forza normativa all’interno dell’ordinamento. Alla sua posizione hanno aderito diversi altri autorevoli studiosi, tra i quali A. PIZZORUSSO, Lezioni di

diritto costituzionale, Roma, 1978; F. CUOCOLO, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Milano, 1996; P.PERLINGIERI, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino-Napoli, 1972.

26

Tra i sostenitori della tesi che vede nell’art. 2 della Costituzione una norma a fattispecie “chiusa” si annoverano P.F. GROSSI, Introduzione ad uno studio sui diritti inviolabili nella

Costituzione italiana, Padova, 1972; P.BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984; A.BALDASSARRE, Diritti inviolabili, in Enciclopedia giuridica, XI, Roma, 1989 (nonché in A. BALDASSARRE, Diritti della persona e valori costituzionali, Torino, 1997); A. PACE,

Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, III ed., Padova, 2003; P.CARETTI, I diritti

fondamentali. Libertà e Diritti sociali, II ed., Torino, 2005 (spec. p. 136 ss.). Secondo tali studiosi,

l’art. 2 Cost. avrebbe la funzione di attribuire la qualifica dell’inviolabilità ai soli diritti previsti dalle successive disposizioni costituzionali, pur con la precisazione – da parte di alcuni di essi – che tale chiusura non va intesa in maniera rigida ed assoluta, bensì in senso ampliabile, “lavorando” sulle norme esistenti, in modo da dare una lettura aggiornata dei diritti espressamente menzionati in Costituzione (in questi termini, soprattutto A. PACE, Problematica delle libertà

(16)

Tale dibattito ha visto come protagonista anche la Corte costituzionale, la cui giurisprudenza ha subìto, negli anni, una graduale evoluzione.

La Consulta, infatti, ha per lungo tempo sostenuto la tesi secondo cui l’art. 2 costituisce una norma a fattispecie “chiusa”, meramente riassuntiva del catalogo contenuto nelle successive disposizioni della Carta fondamentale. Tale

assume particolare rilievo la critica con cui si evidenzia che, attraverso il richiamo dell’art. 2 Cost., spesso si dà copertura costituzionale a situazioni giuridiche disciplinate dalla legge ordinaria o da accordi internazionali (o anche del tutto prive di specifica tutela) senza considerare il rischio dell’insorgenza di conflitti potenzialmente insanabili con altre norme costituzionali, e specificamente con quelle che disciplinano diritti. Conflitti che spesso si vengono a creare perché non si tiene in debito conto il fatto che, normalmente, all’affermazione di un diritto a favore di un soggetto consegue in automatico l’insorgere di un corrispondente obbligo a carico di un altro, o comunque una restrizione di un altrui diritto (sempre di livello costituzionale), cosa che si verifica per tutti quei diritti che godono della c.d. “efficacia orizzontale” (vale a dire che possono essere fatti valere nei confronti degli altri privati, oltre che nei rapporti con lo Stato). Occorre rilevare, peraltro, che, alla luce di tali critiche, lo stesso Barbera, a circa trent’anni di distanza dall’esposizione della propria teoria interpretativa sull’art. 2 Cost., ha rivisitato le conclusioni cui era giunto, precisandone gli aspetti più controversi e, in un certo senso, “correggendo il tiro” (cfr. A. BARBERA, “Nuovi diritti”: attenzione ai confini, in L. CALIFANO (a cura di), Corte

costituzionale e diritti fondamentali, Torino, 2004, pp. 19-39). In particolare, l’A., pur

confermando l’impostazione generale e le principali conclusioni della propria teoria, si è posto l’interrogativo se non si corra il rischio, allontanandosi eccessivamente dagli enunciati normativi, di «aprire varchi troppo ampi», consapevole del fatto che, spesso, l’allargamento del catalogo dei diritti viene utilizzato per dare ingresso, all’interno dell’ordinamento, ad ipotetiche situazioni soggettive che sono più che altro espressione di «sia pur sublimate esigenze politiche» (relativamente alle quali mostra la perplessità derivante dal fatto di riconoscere loro, indistintamente, un rango costituzionale), e condividendo, altresì, il timore di Pace che tale allargamento possa «indebolire la protezione delle libertà classiche». Per tali ragioni, dunque, superando la perentorietà delle posizioni assunte nello scritto del 1975, ha sostenuto l’utilità di porre alcuni paletti «per evitare di snaturare la categoria delle libertà costituzionali».

Una posizione peculiare è, invece, quella di F. MODUGNO, I «nuovi diritti» nella

giurisprudenza costituzionale, Torino, 1995, il quale, pur riconoscendo espressamente la

possibilità che si configurino nuovi diritti, emergenti nella coscienza sociale, senza che ciò implichi necessariamente un’alterazione del catalogo costituzionale, sostiene che, in realtà, è assolutamente errato il modo in cui la dottrina ha tradizionalmente affrontato tale problematica. Tale A. critica apertamente entrambe le tesi contrapposte, ponendosi in una posizione che pare intermedia tra le due: dal suo punto di vista, il valore materiale che sta alla base della garanzia dei diritti inviolabili – e che quindi deve assumere rilievo centrale in tale tematica – è la libertà della persona umana, che, in quanto valore dalle molteplici potenziali sfaccettature (non sempre tutte previste e/o prevedibili), non può essere circoscritta a previsioni determinate e specifiche (quali sarebbero i diritti enumerati in Costituzione), ragion per cui i diritti inviolabili, espressione di tale valore di base, trovano un generale riconoscimento nell’art. 2 Cost., a prescindere dalla loro tipizzazione nelle singole disposizioni costituzionali. Tuttavia, detto ciò, ritiene che il catalogo dei diritti contenuto nella nostra Costituzione, se correttamente inteso, è «onnicomprensivo», stante l’elasticità delle disposizioni costituzionali sui diritti, che permettono di enucleare tutte le possibili manifestazioni del valore libertà (nella sua accezione positiva, al fine di consentire il «libero sviluppo della personalità»), anche quelle che si configurerebbero come “nuovi diritti” (che, pertanto, possono essere considerati come uno sviluppo delle fattispecie tipizzate).

(17)

orientamento è stato seguito sin dalla risalente sentenza n. 11 del 1956, nella quale la Corte, pur affermando che l’art. 2 pone il principio del «riconoscimento di quei diritti che formano il patrimonio irretrattabile della personalità umana», ha precisato che «la Costituzione, alla generica formulazione di tale principio, […] fa seguire una specifica indicazione dei singoli diritti inviolabili», adottando, quindi una posizione favorevole al carattere chiuso di tale catalogo, che ha costantemente ribadito in numerose sentenze successive27. Posizione che trova, peraltro, conferma nell’atteggiamento di chiusura che la Corte ha assunto in merito alla possibilità di dare riconoscimento costituzionale a nuove figure di diritti esclusivamente sulla base dell’art. 228.

Questo orientamento costante è stato, tuttavia, oggetto di alcune oscillazioni nella giurisprudenza della Consulta, la quale, nel corso degli anni, ha più volte riconosciuto la riconducibilità di alcune figure di diritti, non espressamente tipizzate nel testo della Carta fondamentale, all’art. 2 della Costituzione29.

I suddetti accenni di apertura del catalogo dei diritti rappresentano le avvisaglie della svolta nella giurisprudenza costituzionale relativa all’interpretazione dell’art. 2 Cost., arrivata nel 1987 con la sentenza n. 561, in cui la Corte ha riconosciuto la libertà sessuale (e, più in generale, il diritto a disporre

27

Si vedano, a titolo esemplificativo, le sentenze nn. 29/1962, 37/1969, 33/1974, 238/1975 e 98/1979. Tale orientamento è stato, peraltro, ulteriormente rafforzato dalla considerazione che l’art. 2 «deve essere necessariamente ricollegato alle altre norme costituzionali per identificare, anche nei loro limiti, tali diritti inviolabili» (sent. n. 102/1975), tanto da portare la Consulta ad affermare che, «esclusa la violazione della norma della Costituzione che tutela specificamente ogni singolo diritto inviolabile, è automaticamente esclusa anche la violazione dell’art. 2» (sent. n. 283/1987, ma si tratta di un’affermazione già contenuta nelle precedenti pronunce n. 77/1972 e n. 57/1976).

28

Come si evince, ad esempio, dalle sentenze n. 56/1975 (attinente ad un asserito diritto all’autonomia contrattuale), n. 98/1979 (relativa al preteso diritto del transessuale a far riconoscere e registrare un sesso esterno diverso dall’originario) e n. 17/1981 (inerente al principio della pubblicità del dibattimento, cui non è stato riconosciuto lo status di diritto inviolabile dell’uomo).

29

I giudici costituzionali, infatti, hanno ricompreso tra i diritti inviolabili dell’uomo fattispecie come la libertà di contrarre matrimonio (sent. n. 27/1969), il diritto all’immagine, propria e dei propri congiunti (sent. n. 38/1973), il diritto di rettifica nell’informazione televisiva (sent. n. 225/1974), la tutela del concepito (sent. n. 27/1975), il diritto al risarcimento integrale del danno all’integrità fisica, anche a favore dei prossimi congiunti (sent. n. 132/1985), il diritto del transessuale di realizzare la propria identità sessuale nella vita di relazione (sent. n. 161/1985) ed il diritto alla inviolabilità della psiche (sent. n. 54/1986): tutte situazioni soggettive che hanno potuto fare ingresso nel catalogo dei diritti inviolabili in virtù del loro collegamento con l’art. 2, qualificato dall’allora Presidente, Antonio La Pergola, come lo «schema generale dei diritti inviolabili e doveri di solidarietà di fronte alla persona umana, che è circondata dalle garanzie di questa statuizione costituzionale», che costituisce una «clausola aperta con la quale si connette […] la specifica garanzia di altra statuizione costituzionale» (cfr. A.LA PERGOLA, Relazione del

Presidente della Corte costituzionale per l’anno 1986, rinvenibile nel sito internet della Corte, www.cortecostituzionale.it).

(18)

liberamente del proprio corpo) come diritto soggettivo assoluto, dotato di «autonomo rilievo» e «che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 impone di garantire»30. A partire da tale sentenza innovativa, infatti, la Corte ha cominciato ad ampliare il catalogo dei diritti inviolabili, ricomprendendo in esso figure31 che trovano garanzia e tutela a livello costituzionale esclusivamente in base alla disposizione di cui all’art. 2.

3. I conflitti tra diritti e la loro classificazione.

Come è stato rilevato in precedenza, la evidente molteplicità e contraddittorietà dei valori, principi ed interessi che trovano riconoscimento in Costituzione «non costituisce affatto un fenomeno occasionale né un difetto di essa, bensì […] una caratteristica legata alla sua più intima natura»32, derivante dalla circostanza che essa «si è formata attraverso la giustapposizione di principi incompatibili, la sovrapposizione di affermazioni e contemporanee smentite, di

30

Il fatto che si sia trattato di una vera e propria svolta rispetto all’orientamento seguito fino a quel momento dalla Corte trova conferma nella relazione di fine anno (1987) dell’allora Presidente Saja, il quale ha ammesso che la Corte ha riconosciuto che l’art. 2 Cost. contiene un «elenco aperto», attraverso il quale la giurisprudenza costituzionale può individuare «altre posizioni soggettive inviolabili», seppur con la precisazione che si tratta di un’apertura non incondizionata, ma che può essere realizzata soltanto «attraverso gli strumenti dell’interpretazione storico-evolutiva» (cfr. F. SAJA, Relazione del Presidente della Corte costituzionale per l’anno 1987, rinvenibile nel sito internet della Corte, www.cortecostituzionale.it).

31

Quali – sempre a titolo meramente esemplificativo – il diritto ad abbandonare il proprio paese (sent. n. 278/1992), il diritto all’identità personale (sentenze n. 13/1994 e n. 297/1996), il diritto alla vita (sent. n. 223/1996), il diritto alla propria formazione culturale (sent. n. 383/1998) e, più di recente, il «diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone […] il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri», riconosciuto con riferimento all’unione omosessuale, qualificata come formazione sociale «idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione», secondo quanto statuito dall’art. 2 Cost. (sent. n. 138/2010). Un esempio emblematico del cambio di rotta operato dai giudici della Consulta può essere individuato nell’evoluzione subìta dalla giurisprudenza relativa al diritto all’abitazione, che la Corte, prima del 1987, aveva espressamente escluso dal catalogo dei diritti inviolabili, per poi cambiare opinione con le sentenze n. 404 del 1988 e n. 559 del 1989 (in cui il «diritto sociale all’abitazione» viene espressamente ricompreso in tale catalogo). Infine, occorre dar conto anche del fatto che la Corte costituzionale ha spesso fatto un uso retorico del richiamo all’art. 2 Cost., volto a rafforzare la tutela di posizioni soggettive comunque riconducibili alle altre disposizioni costituzionali che disciplinano i singoli diritti: in questo senso si vedano, ad esempio, le sentenze nn. 215/1987, 183/1988, 13/1994, 297/1996, 50/1998, 167/1999, 120/2001 e 494/2002.

32

Cfr. R.BIN, Che cos’è la Costituzione?, cit., p. 23. Si veda, nello stesso senso, anche R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano, 2004, il quale evidenzia come, «secondo alcuni, sarebbe addirittura un tratto definitorio dei principi l’essere ciascuno di essi in conflitto con altri» (p. 295).

(19)

finti compromessi tra posizioni inconciliabili»33.

Una manifestazione di tale caratteristica strutturale della nostra Carta fondamentale è rappresentata, in particolare, dalla conflittualità tra i vari diritti in essa recepiti (sotto forma, appunto, di principi e non di regole34), i quali costituiscono una estrinsecazione dei diversi valori ed interessi che hanno ottenuto riconoscimento costituzionale. Conflittualità che consiste in quella situazione in cui due o più diritti non possono essere soddisfatti contemporaneamente e che trova, peraltro, ulteriore fondamento nella circostanza che essi non vivono in isolamento, ma si trovano in una situazione di continua reciproca interazione, da cui deriva la conseguenza che, all’affermazione di un diritto, spesso consegue automaticamente la compressione di un diritto altrui, ugualmente garantito dalla Costituzione, o l’imposizione di un corrispondente “obbligo” a carico di un altro soggetto privato. Da ciò consegue che ciascun diritto, sebbene sia enunciato in termini “assoluti”35, spesso – rectius, quasi sempre – risenta, nella sua concreta disciplina applicativa, della “relativizzazione” derivante dalla concorrenza di altri diritti o interessi costituzionalmente rilevanti36.

33

Cfr. R. BIN, Ragionevolezza e divisione dei poteri, in Diritto e questioni pubbliche, n. 2/2002, pp. 115-131 (spec. p. 122), laddove l’A. puntualizza che, nella nostra Costituzione, «ogni principio viene predicato assieme al suo limite, ogni regola è posta con la sua eccezione, ogni potere è attribuito assieme al suo contropotere».

34

In merito alla distinzione tra “principi” e “regole”, si veda R.GUASTINI, Teoria e ideologia

dell’interpretazione costituzionale, in Giur. cost., n. 1/2006, pp. 743-783, il quale definisce

“regola” «un enunciato condizionale che connette una qualunque conseguenza giuridica ad una classe di fattispecie», mentre qualifica come “principio” ogni norma che sia «“fondamentale” […] nel sistema giuridico o in un suo sottosettore», nonché «strutturalmente “indeterminata”» (p. 768). Per G.ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 149, tale differenza consiste nel fatto che «alle regole “si ubbidisce” e perciò è importante stabilire con precisione i precetti che il legislatore enuncia per mezzo delle formulazioni che le contengono; ai principi invece “si aderisce”, e perciò è importante comprendere il mondo dei valori, le grandi opzioni di civiltà giuridica di cui sono parti, alle quali le parole non fanno che una semplice allusione» (tale A., peraltro, a proposito dell’opportunità di far ricorso, nelle costituzioni attuali, alla formulazione di norme di principio, sottolinea come «la dimensione del diritto per principi sia quella più adatta alla sopravvivenza di una società pluralista, la cui condizione è il continuo riequilibrio attraverso transazioni di valori»: cfr. p. 172).

Nell’istituire la distinzione tra queste due tipologie di norme giuridiche, determinante è stato il contributo di R. DWORKIN, Taking Rights Seriously (1978), trad. it. I diritti presi sul serio, Bologna, 1982, secondo cui «la differenza tra principi giuridici e regole giuridiche è di carattere logico», per cui le regole «sono applicabili nella forma del tutto-o-niente», mentre i principi «hanno una dimensione che le regole non hanno: quella del peso e dell’importanza» (pp. 93 e 96).

35

Assolutezza da cui R. BIN, Diritti e argomenti. Il bilanciamento degli interessi nella

giurisprudenza costituzionale, Milano, 1992, deduce che essi «in astratto […] non sono mai in

posizione di reciproca incompatibilità logica» (p. 33).

36

In tal senso, G. ZAGREBELSKY, Il diritto mite, cit., p. 171, afferma che «per rendere possibile la coesistenza dei principi e dei valori occorre che essi perdano precisamente il carattere che consentirebbe eventualmente la costruzione a partire da uno di essi di un sistema formale chiuso, cioè la loro assolutezza. Concepiti in termini assoluti, i principi si renderebbero rapidamente nemici l’uno dell’altro». Tuttavia, precisa l’A., «nelle Costituzioni pluraliste non può

(20)

Alla luce di tali considerazioni, data la stretta connessione con la connotazione pluralistica del nostro ordinamento costituzionale, è quindi evidente che anche la presenza di conflitti tra diritti fondamentali ne costituisce una caratteristica strutturale ineliminabile. Se a ciò si aggiunge il rilevato ampliamento del catalogo dei diritti di rango costituzionale – posto in essere sulla base della lettura “aperta” dell’art. 2 della Costituzione, ormai generalmente ammessa anche dalla giurisprudenza della Consulta – il quale determina una “esasperazione” di tale conflittualità, dovuta al moltiplicarsi delle istanze che possono “interferire” con i diritti tradizionalmente garantiti, risulta evidente l’assoluta centralità del problema dei conflitti nell’attuale sistema costituzionale di protezione dei diritti.

In dottrina, è stata avanzata una classificazione di tali situazioni antinomiche in tre grandi categorie: i conflitti intra-diritti, i conflitti inter-diritti ed i conflitti tra interessi individuali ed interessi collettivi37. I primi sono conflitti tra differenti istanze del medesimo diritto, come può verificarsi, ad esempio, nel caso del diritto ad ottenere una risorsa scarsa (tipo un determinato trattamento sanitario, quale può essere un trapianto, anche se si tratta, in realtà, di un’ipotesi che sembra riferibile ad una molteplicità di diritti sociali)38. I secondi (conflitti inter-diritti), invece, sono conflitti tra istanze particolari di diritti diversi39, imputabili a soggetti

essere così. I principi e i valori devono essere tenuti sotto controllo per evitare che, assolutizzandosi, diventino tiranni».

37

In merito a tale classificazione si vedano, tra gli altri, R.BIN –G.PITRUZZELLA, Diritto

costituzionale, cit., pp. 496-497; J.J.MORESO, Ferrajoli sobre los conflictos entre derechos, trad. it. Ferrajoli sui conflitti tra diritti (a cura di G.PINO), in Diritto e questioni pubbliche, n. 6/2006, pp. 133-141 (il quale, a sua volta, richiama J. WALDRON, Rights in Conflict, in J. WALDRON,

Liberal Rights, Cambridge, 1993, pp. 203-224); e G.PINO, Conflitti tra diritti fondamentali. Una

critica a Luigi Ferrajoli, in Filosofia politica, n. 2/2010, pp. 287-306. Una classificazione simile è

operata anche da A.MORRONE, Corte costituzionale e principio generale di ragionevolezza, in A. CERRI (a cura di), La ragionevolezza nella ricerca scientifica ed il suo ruolo nel sapere giuridico, Roma, 2007, pp. 239-286, il quale, tuttavia, distingue soltanto tra conflitti intra-valori e conflitti

inter-valori. Nella prima categoria l’A. ricomprende i casi in cui interessi omogenei siano riferibili

a soggetti diversi in posizione antagonistica, nonché quelli in cui si verifica un contrasto tra la dimensione soggettiva e la dimensione oggettiva di interessi afferenti ad uno stesso valore costituzionale; nella seconda, invece, fa rientrare i conflitti tra interessi antagonistici riferibili a valori costituzionali eterogenei, nonché i contrasti tra situazioni giuridiche soggettive ed interessi obiettivi dell’ordinamento costituzionale o, anche, tra diversi interessi obiettivi tra loro contrapposti. È quindi evidente che i conflitti che contrappongono interessi individuali ed interessi pubblici (che rientrano nella terza categoria individuata nel testo) vengono, in questo caso, ricondotti in parte nell’una e in parte nell’altra categoria, a seconda dell’omogeneità o dell’eterogeneità dei valori di riferimento per ciascuno degli interessi in contrasto. L’A. ha affrontato tale tematica, svolgendo un’analisi dettagliata della giurisprudenza costituzionale, anche in A.MORRONE, “Diritti contro diritti” nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in L. CALIFANO (a cura di), Corte costituzionale e diritti fondamentali, cit., pp. 89-107.

38

G.PINO, Conflitti tra diritti fondamentali, cit., tuttavia, fa rientrare in questa categoria anche i conflitti tra diritti dello stesso tipo (ad esempio, tra due o più diritti di libertà oppure tra due o più diritti sociali).

39

(21)

diversi (e gli esempi in merito sono innumerevoli, trattandosi dell’ipotesi decisamente più frequente) o, in certi casi, anche al medesimo soggetto (in questo senso, si può pensare al caso dell’eutanasia, in cui si scontrano il diritto alla vita ed il diritto all’autodeterminazione dello stesso individuo). Inoltre, i diritti potrebbero entrare in conflitto, oltre che con altri diritti, anche con altri beni costituzionalmente protetti, come un qualsiasi interesse pubblico dell’ordinamento costituzionale40 (anche qui gli esempi sarebbero molteplici, basti pensare all’ipotetico contrasto tra diritto di proprietà e funzione sociale della stessa o, ancora, tra il diritto di difesa e le esigenze di economia processuale o di ragionevole durata dei processi).

4. Le strategie argomentative volte ad escludere o a prevenire i conflitti tra diritti.

Passando, invece, alle tecniche volte a risolvere tali situazioni antinomiche, quella solitamente impiegata dalla Corte costituzionale – e suggerita anche dalla larga maggioranza della dottrina – è, come noto, la tecnica del “bilanciamento” (o “ponderazione”). Tuttavia, prima di trattare tale meccanismo, appare opportuno dar conto sinteticamente di quelle strategie argomentative che affrontano in maniera differente la problematica dei conflitti tra diritti, mettendone in discussione la loro stessa esistenza o, diversamente, suggerendo soluzioni alternative, volte a prevenirne l’effettiva insorgenza (e, conseguentemente, ad evitare il ricorso al bilanciamento per la loro composizione in via successiva).

Una prima posizione interessante è quella che propugna la tesi dell’assenza di conflitti tra diritti fondamentali. In teoria del diritto, essa è stata sostenuta, ad esempio, da Luigi Ferrajoli41, il quale giunge a tale conclusione partendo da una definizione teorica e formale di diritto fondamentale42 e, soprattutto, da una

soltanto i conflitti tra diritti di tipo diverso (e non, quindi, tra diritti differenti, ma appartenenti allo stesso tipo, perché questi sono ricompresi, come visto, nella categoria dei conflitti intra-diritti).

40

A tal proposito, è opportuno ricordare quanto rilevato da M.LUCIANI, Corte costituzionale e

unità nel nome dei valori, in R.ROMBOLI (a cura di), La giustizia costituzionale a una svolta. Atti

del seminario di Pisa del 5 maggio 1990, Torino, 1991, pp. 170-178, secondo cui non bisogna

dimenticare che «i diritti vanno colti nella ineliminabile relativizzazione che essi subiscono ad opera dei valori sociali concorrenti che la stessa Costituzione disegna come loro “limiti”», e ciò «perché il possedere una dimensione sociale è proprio dei diritti fondamentali costituzionali» (p. 173).

41

Si veda, in particolare, L.FERRAJOLI, I fondamenti dei diritti fondamentali, in L.FERRAJOLI,

Diritti fondamentali. Un dibattito teorico (a cura di E.VITALE), Roma-Bari, 2001, pp. 277-370.

42

Secondo Ferrajoli sono “diritti fondamentali” «tutti quei diritti soggettivi che spettano universalmente a ‘tutti’ gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci d’agire; inteso per ‘diritto soggettivo’ qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per ‘status’ la condizione di un soggetto prevista anch’essa da una norma giuridica positiva quale presupposto

(22)

classificazione di tali diritti in diverse categorie, legate da rapporti che, a suo parere, possono essere determinati a priori (di modo che la reciproca limitabilità e la prevalenza degli uni sugli altri possono essere definite prima ancora che si verifichi concretamente una situazione di conflitto).

In particolare, secondo tale Autore, i diritti fondamentali (cui si contrappongono i diritti patrimoniali, ritenuti, per definizione, subordinati ai primi) possono essere articolati in tre categorie: 1) i «diritti (primari) di libertà», consistenti in «diritti negativi o immunità», al cui interno rientrano le due sottocategorie delle «semplici immunità da lesioni o costrizioni (o libertà da)» (i c.d. diritti-immunità) e delle «facoltà di comportamenti non giuridici parimenti immuni da impedimenti (o libertà di, oltre che da)»; 2) i diritti sociali (detti anche «diritti positivi» ed anch’essi qualificati come “primari”), consistenti nella «aspettativa della commissione di prestazioni altrui»; 3) i «diritti (secondari) di autonomia» (detti anche «diritti-potere»), che spettano a tutti i soggetti capaci di agire e che si suddividono, a loro volta, in diritti civili e diritti politici, il cui esercizio è produttivo di effetti sulle libertà negative o positive altrui43.

Secondo l’Autore, nell’ambito di questa ricostruzione teorica, il fenomeno del conflitto tra diritti è da escludere o, comunque, da ridimensionare notevolmente.

Infatti, i «diritti (primari) di libertà […] tendenzialmente convivono senza reciproche interferenze»: in particolare, con riferimento alle due sottocategorie in cui questi si suddividono, i c.d. diritti-immunità sono da considerare illimitati, «dato che la loro garanzia non interferisce con altri diritti», mentre gli altri diritti di libertà incontrano il solo limite imposto dalla loro convivenza con gli altri diritti di libertà44. I diritti sociali, invece, possono incontrare limitazioni non nella presenza di diritti fondamentali di altro tipo, ma soltanto nei costi necessari per il

della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio». L’A. qualifica tale propria definizione come «teorica» in quanto non è formulata «con riferimento alle norme di un concreto ordinamento» (per cui non è «dogmatica»), ma, al contrario, «pur essendo stipulata con riferimento ai diritti fondamentali positivamente sanciti da leggi e costituzioni nelle odierne democrazie, prescinde dalla circostanza di fatto che in questo o in quell’ordinamento tali diritti siano (o non siano) formulati in carte costituzionali o in leggi fondamentali, e perfino dal fatto che essi siano (o non siano) enunciati in norme di diritto positivo». La definisce, inoltre, come «formale o strutturale» nel senso che «prescinde dalla natura degli interessi e dei bisogni tutelati con il loro riconoscimento quali diritti fondamentali, e si basa unicamente sul carattere universale della loro imputazione» (cfr. L. FERRAJOLI, Diritti

fondamentali, in L.FERRAJOLI, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, cit., pp. 3-40, spec. pp. 5 e 6).

43

Cfr. L.FERRAJOLI, I fondamenti dei diritti fondamentali, cit., pp. 285 e 292.

44

Cfr. L. FERRAJOLI, I fondamenti dei diritti fondamentali, cit., p. 330. Si tratta, peraltro, dell’unica ipotesi in cui viene ammessa la possibilità che si verifichi un conflitto, anche se l’A. preferisce utilizzare il concetto di “limite”, piuttosto che parlare di veri e propri “conflitti” tra diritti.

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