• Non ci sono risultati.

L’interpretazione convenzionalmente conforme.

PROBLEMATICHE APPLICATIVE DELLA SOVRAPPOSIZIONE DI CARTE DEI DIRITT

4. L’interpretazione convenzionalmente conforme.

L’evoluzione subita, soprattutto negli ultimi anni, dalla disciplina nazionale dell’espropriazione e dell’occupazione illegittima è esemplificativa di come, in realtà, nel nostro ordinamento si sia ormai sviluppata la tendenza ad “appiattirsi” sulle posizioni assunte in ambito convenzionale, senza opporre una adeguata resistenza a salvaguardia della lettura costituzionale dei diritti (come avvenuto, nel caso specifico, in relazione al diritto di proprietà).

Ciò è dovuto, principalmente, alla generalizzazione del canone dell’interpretazione conforme alla CEDU, per come interpretata dalla Corte di Strasburgo.

Come si è visto supra139, la rilevanza della Convenzione sul piano interpretativo è stata riconosciuta, nel nostro ordinamento, già dalla sentenza n. 388 del 1999 della Corte costituzionale, ma la vera svolta si è avuta, anche sotto tale profilo, con le due sentenze dell’ottobre 2007 (n. 348 e n. 349).

È in esse, infatti, che, per la prima volta, la Consulta riconosce l’esistenza di un vero e proprio vincolo obbligatorio di interpretazione delle norme interne in conformità con il dettato CEDU140, senza però limitarsi a richiamare il solo testo della Convenzione. Infatti, alla luce della «caratteristica peculiare» di quest’ultima di aver previsto la competenza specifica di un organo giurisdizionale, i giudici costituzionali affermano che «tra gli obblighi internazionali assunti dall’Italia con la sottoscrizione e la ratifica della CEDU vi è quello di adeguare la propria legislazione alle norme di tale trattato, nel significato attribuito dalla Corte specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione»141

. La novità apportata, sul piano interpretativo, dalle due storiche decisioni

139

Cfr. cap. III, par. 1.2.

140

In termini generali (cioè con riferimento a tutti i trattati internazionali stipulati dal nostro Paese e non soltanto alla CEDU), E.LAMARQUE, Il vincolo alle leggi statali e regionali derivante

dagli obblighi internazionali nella giurisprudenza comune, cit., ritiene che il canone

dell’interpretazione conforme «non rappresenta una novità per l’autorità giudiziaria», atteso che i giudici «da sempre riescono ad assicurare prevalenza ai vincoli internazionali pattizi (precedenti) sulle leggi interne (successive) invocando – fra gli altri criteri ermeneutici – la presunzione di conformità di queste ultime rispetto ai primi». Si tratta, però, di una conformità fondata sulla «presunzione che lo Stato italiano […] non abbia inteso sottrarsi all’obbligo internazionale che si era in precedenza assunto» (e, quindi, di un vincolo di natura internazionale), mentre, con le sentenze del 2007 (ed in particolare con la n. 349), la Corte individua un vincolo di natura costituzionale (secondo quanto esplicitato dalla stessa A., che infatti parla di «fondamento positivo nel testo costituzionale»).

141

Cfr. Corte cost. n. 348/2007, punto 4.6 del considerato in diritto. Tale concetto è stato ripreso anche dalla sentenza n. 349, laddove si sottolinea che le disposizioni della CEDU devono essere valutate, all’interno dell’ordinamento nazionale, «nell’interpretazione del giudice cui tale compito è stato espressamente attribuito dagli Stati membri», atteso che è proprio l’interpretazione «centralizzata» della Corte di Strasburgo a garantire l’uniformità e la coerenza del sistema di tutela dei diritti fondamentali previsto dalla Convenzione (punto 6.2 del considerato in diritto).

del Giudice delle leggi è, quindi, duplice: non soltanto l’imposizione, a carico degli organi giurisdizionali interni, dell’obbligo (costituzionale) di interpretazione conforme a CEDU142 (in luogo del precedente utilizzo di essa come semplice “supporto” interpretativo), ma anche l’estensione di tale vincolo, assoluto ed incondizionato, al rispetto della giurisprudenza di Strasburgo143, stante che le norme convenzionali «vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea» (sent. 348).

La successiva giurisprudenza della Corte costituzionale ha espressamente confermato, in termini estremamente rigorosi, la spettanza del monopolio interpretativo della Convenzione a favore della Corte europea, precludendo la possibilità di sindacarne l’attività ermeneutica non soltanto ai giudici comuni, ma

142

Tanto che la Corte ha considerato l’espletamento del tentativo di interpretazione convenzionalmente conforme da parte del giudice comune come una condizione di ammissibilità della eventuale questione di legittimità costituzionale per violazione indiretta dell’art. 117, primo comma, Cost. (in relazione alla CEDU come norma interposta), che può essere proposta soltanto nel caso in cui il contrasto tra norma interna e norma convenzionale non sia risolvibile in via interpretativa (un esempio concreto di pronuncia di inammissibilità per mancato esperimento dell’interpretazione conforme a CEDU è costituito da Corte cost. n. 239/2009). Tale meccanismo ricorda quello relativo all’obbligo di esperire il tentativo di interpretazione conforme a Costituzione – a lungo sollecitato, negli anni passati, dalla Corte costituzionale, e che costituisce ora un vero e proprio requisito di ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale (assieme alla rilevanza ed alla non manifesta infondatezza) – dovuto proprio al fatto che la Corte «ha indubbiamente costruito il “controllo di convenzionalità” come “controllo di costituzionalità”; meglio: ha incanalato il primo nell’ambito del secondo, assoggettandolo così alle sue regole» (cfr. P. GAETA, “Controllo di convenzionalità” e poteri del giudice nazionale: i difficili approcci

dell’ermeneutica giudiziale, in appinter.csm.it). Tuttavia, tale circostanza non annulla ogni

differenza tra i due tipi di controllo. Infatti, nel caso dell’interpretazione conforme a Costituzione, i giudici comuni hanno la possibilità di svolgere la loro attività interpretativa nei confronti sia della norma ordinaria che del parametro costituzionale, ciò che ha permesso alla Costituzione di «penetra[re] nell’ordinamento attraverso questo duplice flusso ermeneutico, ascendente (dalla norma ordinaria al parametro costituzionale) e discendente (dal parametro costituzionale alla norma ordinaria), nel quale magistratura ordinaria e Corte costituzionale hanno svolto un’azione congiunta, rivestendo ruoli mobili e, quasi, intercambiabili: sicuramente, flessibili», proprio perché l’interpretazione conforme «esige un’interpretazione “attiva” non della sola norma primaria, ma insieme ad essa della disposizione costituzionale» (cfr. M.BIGNAMI, L’interpretazione del giudice

comune nella «morsa» delle Corti sovranazionali, in Giur. cost., n. 2/2008, p. 595 ss.). Non può

dirsi, invece, lo stesso per l’interpretazione conforme a CEDU che, per il principio del monopolio ermeneutico della Convenzione a favore della Corte di Strasburgo, appare una «operazione logicamente zoppa», per cui «il “verso” ermeneutico è solo ascendente, perché il parametro interposto è offerto in forma autoritativa al giudice comune» (cfr. P. GAETA, “Controllo di

convenzionalità” e poteri del giudice nazionale: i difficili approcci dell’ermeneutica giudiziale,

cit.), che non ha accesso alla determinazione del suo significato attraverso la propria attività interpretativa.

143

Occorre, tuttavia, ricordare che il valore sostanzialmente vincolante delle decisioni della Corte EDU era già stato riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, a partire dalle sentenze delle Sezioni Unite civili della Cassazione nn. 1338, 1339, 1340 e 1341 del 26 gennaio 2004.

anche a se stessa144.

Peraltro, l’obbligo di rispettare la giurisprudenza della Corte europea è stato posto dal nostro Giudice delle leggi senza temperamenti né eccezioni, e senza modulare l’efficacia vincolante della stessa in base al tipo di pronuncia. Infatti, la Consulta non ha fatto alcuna distinzione tra sentenze rese nei confronti dell’Italia (che vincolano il nostro Paese ai sensi dell’art. 46 CEDU) e pronunce rese nei confronti di altri Stati, tra giurisprudenza consolidata (che costituisce “diritto vivente”) e non consolidata, tra sentenze emesse da una singola Camera e decisioni della Grande Camera, tra pronunce rese all’unanimità e pronunce accompagnate da opinioni dissenzienti, tra sentenze di condanna e sentenze di non violazione, e – nel novero delle sentenze di condanna nei confronti dell’Italia – neppure tra quelle che riscontrano l’esistenza di una violazione strutturale e quelle che, invece, constatano una violazione singola145.

Si potrebbe ritenere che la rigidità del suddetto vincolo sia stata mitigata, seppur in minima parte, dalla statuizione, contenuta nella sentenza n. 311/2009, secondo cui esso comporta l’obbligo di rispettare la «sostanza» della giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Ciò vorrebbe dire che i giudici nazionali sarebbero vincolati a prestare ossequio soltanto ai principi ispiratori delle rationes decidendi delle pronunce rese dalla Corte sovranazionale, al fine ultimo di garantire una tutela adeguata ed effettiva dei diritti protetti dalla Convenzione, tale cioè da non inficiare irragionevolmente il livello di protezione assicurato in ambito europeo.

Il vincolo, quindi, non riguarderebbe indiscriminatamente tutti i contenuti delle pronunce rese dai giudici di Strasburgo, ragion per cui le giurisdizioni nazionali avrebbero la facoltà, in virtù del margine di apprezzamento statale, di discostarsi, almeno in parte, dai parametri fissati in quella sede.

In realtà, a parere di chi scrive, il riferimento alla “sostanza” della giurisprudenza CEDU non sembra aver modificato più di tanto l’impostazione adottata dalla Corte costituzionale a partire dalle pronunce dell’ottobre 2007,

144

Sul punto si rinvia a quanto detto in precedenza, cap. III, par. 1.4.

145

Cfr. E.LAMARQUE, Gli effetti delle sentenze della Corte di Strasburgo secondo la Corte

costituzionale italiana, cit., p. 958, la quale rileva che una configurazione così rigida del vincolo

interpretativo a tutta la giurisprudenza di Strasburgo «non pare imposta da alcuna norma della Convenzione» (certamente non dall’art. 46, che vincola soltanto lo Stato nei cui confronti è stata resa la pronuncia, né dall’art. 32, che invece si limita ad attribuire alla Corte europea la competenza su tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione). Secondo l’A., quindi, questa presa di posizione così rigorosa può essere spiegata ritenendola il frutto di una «intelligente, e probabilmente necessaria, operazione di politica giudiziaria», intrapresa dalla nostra Corte costituzionale per compensare, almeno in parte, le scelte – sicuramente poco gradite agli organi del Consiglio d’Europa – di vietare la disapplicazione delle norme interne contrastanti con la CEDU (che avrebbe permesso ai giudici comuni di dare applicazione diretta a quest’ultima) e di qualificare la Convenzione come fonte subordinata rispetto a tutta la Costituzione.

come emerge dal fatto che la Consulta ha espressamente e costantemente ribadito (persino nella stessa sentenza n. 311/2009) il divieto – per sé e per i giudici comuni – di sindacare l’interpretazione della Convenzione fornita dai giudici di Strasburgo146. Né può valere, in senso contrario, l’esplicito richiamo, operato in tale pronuncia, della sentenza della Cassazione civile n. 10415/2009 e di quella della Corte di Strasburgo del 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia147 (su cui si tornerà, più dettagliatamente, infra), indicate dalla Consulta come esempi di temperamento della rigidità di tale vincolo interpretativo. Infatti, da una parte, la Corte europea, nella propria decisione – pur ammettendo la possibilità che i giudici nazionali adottino un metodo di calcolo dell’indennità per irragionevole durata del processo che non corrisponda esattamente ai criteri da essa enunciati –

146

Nello stesso senso, si veda M. BIGNAMI, Costituzione, Carta di Nizza, CEDU e legge

nazionale: una metodologia operativa per il giudice comune impegnato nella tutela dei diritti fondamentali, cit., secondo cui il riferimento alla sostanza della giurisprudenza CEDU non apporta

alcuna novità all’impianto teorico elaborato dalla Corte costituzionale a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che definisce «vivo e vegeto».

147

Si tratta di due pronunce, rese in materia di irragionevole durata del processo, che riguardano specificamente l’indennizzo previsto dalla legge Pinto, da cui emergerebbe il carattere non precettivo, per il giudice nazionale, del criterio di calcolo generalmente adottato dalla Corte europea, secondo la quale l’indennizzo deve essere determinato tenendo conto di tutta la durata del processo. In particolare, la Corte di legittimità italiana, nel rilevare, da una parte, che «la Corte EDU […] censura il discostamento dal parametro minimo da essa fissato soltanto qualora sia manifestamente irragionevole» e, dall’altra, che «potrebbe porsi in contrasto con i principi costituzionali (anche in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza) un obbligo di indennizzo stabilito in relazione ad una fase e ad un tempo che necessariamente deve esserci», ha confermato l’orientamento in base al quale, ai fini della determinazione dell’indennizzo, occorre tener conto soltanto degli anni considerati “in eccedenza” rispetto ad una durata ragionevole del processo. E, ad ulteriore sostegno di tale conclusione, la Cassazione ha sottolineato che «è solo questa interpretazione che evita di approfondire ulteriori profili di non manifesta infondatezza di illegittimità costituzionale di un’esegesi che, attraverso rigidi automatismi e meccanismi presuntivi di non sicura ragionevolezza, in un sistema economico e di finanza pubblica caratterizzato dalla limitatezza delle risorse disponibili, rischia di porre la norma CEDU in esame (e l’interpretazione offertane dal giudice europeo) in contrasto con le norme costituzionali che riconoscono e tutelano i diritti fondamentali, sacrificandone alcuni, di pari, se non superiore livello». Dal canto suo, invece, la decisione della Corte di Strasburgo nella causa

Simaldone ha ricordato che «uno Stato parte alla Convenzione dispone di un margine di apprezzamento per organizzare una via di ricorso interna in maniera coerente con il proprio

sistema giuridico e con le proprie tradizioni, in conformità con il livello di vita del paese. La circostanza che il metodo di calcolo dell’indennità previsto in diritto interno non corrisponda esattamente ai criteri enunciati dalla Corte non è decisiva, a condizione che le giurisdizioni “Pinto” riescano a concedere delle somme che non siano irragionevoli rispetto a quelle accordate dalla Corte nelle cause simili» (par. 30). Tale passaggio della pronuncia in esame, quindi, sembra riconoscere ai giudici nazionali la possibilità di discostarsi dai criteri individuati dalla Corte europea nel dare applicazione ad una norma convenzionale, purché ciò avvenga entro limiti ragionevoli. Occorre, tuttavia, evidenziare anche che l’affermazione di tale principio non ha impedito alla Corte di Strasburgo, nel caso di specie, di condannare il nostro Paese al pagamento di un equo indennizzo a favore del ricorrente, per violazione dell’art. 6, par. 1, CEDU.

ha riaffermato, a scanso di equivoci, la propria peculiare competenza a «verificare, a posteriori, […] se il risarcimento accordato possa essere considerato come appropriato e sufficiente» (riservando, quindi, a se stessa l’ultima parola in proposito). Dall’altra, la sentenza della nostra Corte di legittimità è stata adottata in applicazione della legge n. 89/2001 (ed in particolare della disposizione di cui all’art. 2, terzo comma, lett. a)148, che «sul punto è vincolante»), sulla base della considerazione secondo cui il dovere di interpretazione conforme alla giurisprudenza CEDU «opera entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge»149.

Pertanto, l’asserito temperamento del vincolo interpretativo, oltre a costituire un episodio isolato, è da considerare tale nei limiti in cui permette ai giudici nazionali di poter valutare caso per caso se occorre seguire pedissequamente il dettato della giurisprudenza europea o se, invece, ci si può discostare, almeno in parte, da esso, ma senza che ciò faccia venir meno il rispetto della ratio che sta alla base di ogni decisione della Corte di Strasburgo, la quale rimane l’unico soggetto legittimato ad interpretare il testo della Convenzione.

4.1. Il monopolio interpretativo della Corte di Strasburgo e l’adeguamento “passivo” dei giudici nazionali.

Dall’affermazione di questo “monopolio interpretativo” a favore della Corte di Strasburgo e dall’obbligo di prestare ossequio agli orientamenti emergenti in quella sede derivano, a cascata, una serie di problematiche che, oltre a complicare l’attività interpretativa dei giudici comuni nella risoluzione delle controversie nelle quali entrano in gioco anche le norme della CEDU, possono generare situazioni di vera e propria insofferenza da parte di questi ultimi di fronte al vincolo che sono rigorosamente tenuti a rispettare.

148

Ai sensi del quale, per la determinazione dell’indennizzo, «rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole».

149

In conformità a quanto costantemente affermato dalla Corte costituzionale (si vedano, in particolare, le sentenze n. 349/2007 e n. 311/2009). Nel caso specifico, la soluzione – stando allo schema operativo elaborato dalla Corte costituzionale a partire dalle sentenze gemelle del 2007 – avrebbe dovuto essere quella di sollevare questione di legittimità costituzionale della disposizione della legge Pinto, stante l’impossibilità di interpretarla in senso conforme alla giurisprudenza CEDU. Tuttavia, la Corte di Cassazione ha deciso di non sollevare la questione, ritenendola manifestamente infondata, non soltanto in ragione del fatto che la norma di legge interna non sembrava discostarsi in maniera irragionevole dal parametro fissato a livello europeo (e in ciò si può leggere il rispetto della “sostanza” della giurisprudenza CEDU), ma soprattutto sostenendo, con un’argomentazione molto forte ed incisiva, che il recepimento dell’orientamento della Corte di Strasburgo avrebbe avuto effetti irragionevoli e potenzialmente contrari alla Costituzione. La pronuncia dei giudici di legittimità sembra quindi dettata – almeno a parere di chi scrive – più da una reazione “di rottura” nei confronti del vincolo interpretativo (sul punto, si veda infra), che da una rilettura (costruttiva) dello stesso nel senso di rispettarne, quanto meno, la “sostanza”.

Innanzitutto, i giudici nazionali si ritrovano a dover sottostare alla lettura del testo della Convenzione fornita dalla Corte europea, dovendo necessariamente piegare le norme nazionali al rispetto di un parametro rigido, sulla cui interpretazione non hanno alcun margine per incidere.

Si tratta di un vincolo particolarmente stringente per gli organi giurisdizionali interni, i quali, quando devono dare applicazione a norme contenute in trattati internazionali, hanno normalmente la possibilità di ricostruirne il significato anche attraverso un’autonoma attività interpretativa; cosa che, invece, è loro proibita quando viene in gioco una norma della CEDU, stante la sua caratteristica peculiare di prevedere un giudice dotato di una competenza interpretativa esclusiva150.

Non solo. A ciò deve aggiungersi il notevole attivismo della Corte sovranazionale, la quale, a fronte di un iniziale self restraint nell’esercizio della propria attività interpretativa – volto a garantire uno standard minimo di tutela dei diritti protetti dalla Convenzione – ha ricavato dalle disposizioni convenzionali norme sempre più dettagliate.

Un esempio concreto di tale atteggiamento si rinviene proprio nella giurisprudenza europea in materia di espropriazione. Basti pensare, tra le varie ipotesi, a come la Corte EDU abbia dapprima riservato l’individuazione degli obiettivi di “pubblica utilità”151 – che giustificano la corresponsione di un indennizzo in misura ridotta – alle istituzioni nazionali, riconoscendo loro un’ampia discrezionalità nella determinazione del contenuto di tale parametro, salvo poi imporre la propria specifica ricostruzione di tale concetto, nell’ambito del quale possono rientrare soltanto le riforme economiche e di giustizia sociale o quelle che incidono sul sistema costituzionale, che richiedono la realizzazione di ampi programmi espropriativi152 (sentenza Ex Re di Grecia c. Grecia del 28 novembre 2002). Com’è evidente, si tratta di un’imposizione che smentisce l’apertura a favore del margine di apprezzamento riservato ai singoli Stati, la cui discrezionalità nell’individuazione di cosa possa essere definito “di pubblica utilità” risulta così “imbrigliata” dai parametri posti dalla giurisprudenza della Corte europea.

Questa “invasione di campo” perpetrata dai giudici di Strasburgo è ancora

150

Cfr. S.CASSESE, I tribunali di Babele, cit., il quale evidenzia che «alcuni trattati prevedono un apposito organismo giudicante: le loro norme saranno valutate sulla base dell’interpretazione data da tale organismo. Altri trattati non prevedono un organismo giudicante: le loro norme potranno essere interpretate liberamente dai giudici nazionali».

151

Sulla nozione di “pubblica utilità” assunta in ambito convenzionale, si veda – oltre a quanto già rilevato – M.L.PADELLETTI, Commento all’art. 1, Protocollo n. 1, in S.BARTOLE –B. CONFORTI – G. RAIMONDI, Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti

dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, nonché R. CONTI, L’occupazione

acquisitiva, cit. (spec. p. 181 ss.) 152

Con esclusione, quindi, degli espropri isolati, pur quando questi, secondo l’ordinamento nazionale, siano giustificati dal perseguimento di interessi della collettività.

più evidente nei casi in cui viene riscontrata una violazione strutturale della Convenzione, che ha dato vita alla prassi delle c.d. “sentenze pilota”153. Con esse, infatti, la Corte europea, decidendo un singolo giudizio – sulla medesima questione oggetto di numerosi altri ricorsi pendenti contro il medesimo Stato – individua non soltanto la violazione commessa e le misure individuali necessarie a ripristinare lo status quo ante o (quanto meno) ad indennizzare il ricorrente, ma indica specificamente anche le misure generali che lo Stato deve adottare per adeguarsi ai parametri sovranazionali ed evitare future condanne per la medesima violazione, «sebbene non spetti in teoria alla Corte determinare quali siano le misure da adottarsi da parte dello Stato membro coinvolto in giudizio, idonee a realizzare, da parte dello stesso Stato, gli obblighi impostigli dall’art. 46 della Convenzione»154.

Il crescente grado di invasività della giurisprudenza della Corte di Strasburgo all’interno degli ordinamenti nazionali comporta l’immediata conseguenza di comprimere – fin quasi, in certe ipotesi, a svuotarlo – il margine di apprezzamento statale sulle questioni sottoposte al suo esame: essa, infatti, non si limita più a deliberare «sull’an relativo all’obbligo da parte dello Stato nei confronti del quale è stata adottata una decisione di conformarsi alla stessa, ma anche sul quomodo, relativo alla indicazione delle misure nazionali che gli Stati