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CATALOGO DEI DIPINTI AUTOGRAFI*

Nel documento Carlo Saraceni (pagine 195-200)

* Sono state segnalate con un *, posto vicino al titolo del dipinto, tutte quelle opere esaminate attraverso la visione diretta.

1. ADORAZIONE DEI MAGI, 1598-1602

(fig. 1)

Monaco (già), collezione privata.

Iscrizioni: ai piedi della Vergine «CAROL. SARACENO».

Attribuito a Saraceni da Voss (1924), il dipinto venne in seguito confermato al pittore da Amadore Porcella (1928), Giuseppe Fiocco (1929) e Anna Ottani Cavina (1968). La studiosa poi, pur dichiarando di non conoscere il dipinto de visu, poiché irreperibile, lo ritenne inseribile tra le opere del Saraceni che rileggevano le proposte figurative veronesiane interpretandole in maniera più moderna. Aggiunse che l’esempio saraceniano non dovette sfuggire all’attenzione di Ter Brugghen quando quest’ultimo realizzò il medesimo soggetto (già Londra, coll. priv., secondo il Longhi realizzato nel 1614, Ottani Cavina, 1968, fig. 22). Nell'opera dell'artista nordico, infatti, San Giuseppe, la Vergine, il Gesù Bambino e il Re Mago presentano la stessa posizione, in controparte, dell'opera di Saraceni. Nel dipinto di Ter Brugghen i personaggi sono poi più grandi e quindi illusoriamente più vicini allo spettatore, accentuandone «l’impronta contemporanea e umanissima» (Ottani Cavina, 1968).

Pur non avendo avuto modo a mia volta di esaminare direttamente il dipinto di Saraceni, dalla firma riportata su di esso, «CAROL. SARACENO», e a giudicare dalla riproduzione fotografica, mi sembra di poter ritrovare cifre stilistiche già individuate tra i dipinti della prima produzione saraceniana. Il ragazzo intento a suonare il flauto, sopra al cavallo bianco, ricorda da vicino il San Martino nel San Martino e il povero di Berlino, Staatliche Museen (1608 ca., cat. 30; fig. 30). Il volto della Vergine poi, è affine a quello della Venere negli Amori di Marte e Venere della Fondazione Thyssen-Bornemisza a Madrid (1602-1605), presentando la medesima mimica facciale con la bocca leggermente aperta, in gesto di stupore (cat. 9; fig. 9).

A supporto di una collocazione entro il primo decennio del Seicento, e precisamente tra il 1598 e il 1602, sta, oltre alla durezza rilevabile nelle pieghe delle vesti e nelle posizioni statiche, già individuate in opere di questi anni come la Madonna di Loreto per San Bernardo alle Terme (1600- 1602, cat. 3; fig. 3), il neoveronesismo. L'Adorazione, infatti, recupera la struttura compositiva del dipinto di medesimo soggetto di Paolo Caliari e oggi conservato presso la National Gallery di Londra (datato 1573, fig. I.9). Saraceni aveva potuto osservare il dipinto del maestro cinquecentesco quando si trovava nella chiesa di San Silvestro a Venezia.

Alla composizione, inoltre, il pittore aggiunge un'invenzione tratta invece dal mondo del suo primo maestro veneziano: Palma il Giovane. Il particolare della Vergine che alza con la mano sinistra il lembo del lenzuolo che avvolge il Gesù bambino, infatti, sembrerebbe derivare dalla Adorazione dei

Quest'opera è quindi particolarmente interessante per il catalogo del Saraceni in quanto è ad oggi l'unica tela che probabilmente, visto il tipo di soggetto, Saraceni realizzò a Venezia quando stava realizzando il probabile praticantato presso la bottega di Palma il Giovane.

Come vedremo, un certo neoveronesismo lo conserveranno altresì opere più tarde e realizzate probabilmente a Roma, poiché uniranno a soluzioni compositive e palette veronesiane dei particolari caravaggeschi, come Mosé ritrovato dalle figlie del faraone della Fondazione Roberto Longhi a Firenze (cat. 35; fig. 35) o Giacobbe che discute con Labano Giacobbe per avergli dato

Lea al posto di Rachele della National Gallery di Londra (1605-07, cat. 21; fig. 21)

Bibliografia: Voss, 1924, pp. 90, 450; Porcella, 1928, pp. 381, 401; Fiocco, 1929, p. 17; Ottani Cavina, 1968, pp. 45, 108, n. 38, fig. 43.

2. ANDROMEDA, 1600-1602*

(fig. 2)

Digione, Musée des Beaux Arts, Inv. Ca. 694 Olio su tavola, cm 26 x 22

Provenienza: Lascito Anatole Devosge, 1850; Inventario manoscritto del 1874, n. 18. Restauri: Una fascia lignea di 17 cm è stata aggiunta lungo la larghezza.

Il dipinto fu attribuito al suo arrivo al Museo nel 1850 al Parmigianino e in seguito alla scuola di Fointenbelau.

Sebbene poi Longhi già nel 1622 avesse assegnato in una nota manoscritta il dipinto al Saraceni, reiterando l’attribuzione nel 1943 con una collocazione nella prima attività del pittore, e Isarlo (1941) lo pubblicasse come «replica di Saraceni», Ivanoff (1962) ascrisse l’Andromeda a un «epigono della scuola di Fointenbelau influenzato dall’Elsheimer», pur avvicinandola all’Annunciazione (cat. 74; fig. 74) di Santa Giustina da lui attribuita a Jean Le Clerc.

La critica successiva, tuttavia, fatta eccezione per Guillaume (1980), che attribuiva il dipinto al Saraceni con punto interrogativo e avanzava il nome di Lubin Baugin, accettò l’ascrizione al pittore veneziano, ivi compresa Ottani Cavina nella monografia sul pittore.

Brejon de Lavergnée (1989), in seguito, escludendo definitivamente l’autografia di Baugin o di Guy François, non concordava con la critica precedente nell’individuare molti rapporti tra l’opera in esame e i dipinti di medesimo soggetto del Cavalier d’Arpino.

A nostro avviso è tuttavia innegabile, alla luce del fatto che Saraceni riprese opere del Cesari anche in altre opere della prima fase romana (si veda ad esempio l’Incoronazione di Maria, 1602-1604, di collezione privata londinese; cat. 6; fig. 6), che il veneziano abbia qui rielaborato due diverse composizioni ideate dal d’Arpino per il medesimo soggetto.

Se fino ad oggi il dipinto, infatti, è stato messo in relazione con la sola versione di Andromeda del Museum of Art di Providence, realizzata intorno al 1592-93 dal Cesari (Röttgen, 2002, pp. 258-260, n. 36), per la posizione del Perseo inclinato sul cavallo in atto di mostrare la testa di Medusa al drago, la composizione sembrerebbe altresì riprendere, nella posizione di Andromeda con la testa inclinata verso il basso e del Perseo a cavallo che si dirige verso destra anziché sinistra, alla seconda versione del d’Arpino ideata nel 1593-95 (di questa versione si conoscono varie repliche autografe ma sicuramente la più importante è conservata presso la Gemäldegalerie di Berlino; Röttgen, 2002, pp. 286-287, n. 57).

Saraceni vi aggiunse poi delle varianti personali, come la posizione di Andromeda con il piede destro rialzato e il solo braccio sinistro incatenato alla roccia retrostante, più vicina semmai all’Andromeda di Paolo Veronese (Rennes, Musée des Beaux Arts; Pignatti e Pedrocco, 1995, t. II, pp. 368-369, n. 256.) e alla traduzione grafica che Hans Rottenhammer, amico e collega del

Saraceni a Venezia con ogni probabilità, realizzò del modello d’arpinesco (Perseo e Andromeda, Dessau, Gemäldegalerie, fig. I.23).

Dalla realizzazione del tedesco Saraceni riprese, infatti, più che la posizione dell’Andromeda (sebbene questa presenti altresì le braccia attanagliate in una posizione scomposta e innaturale verso l’alto e non in maniera composta dietro la schiena, come nelle varie versioni del Cesari), la scelta compositiva di raccoglierle i capelli a sottolineare un volto corrucciato e di coprirla in parte con un panno mosso dal vento, creando in tal modo un insieme più drammatico rispetto alle Andromede, quasi irreali nella serenità dei loro volti, del d’Arpino.

É poi qui individuabile il già avviato interesse da parte dell’artista per i paesaggi nordici nella scelta del pittore di non riprendere il paesaggio inscenato nei dipinti del Cesari, per lasciar spazio all’immaginario e all’onirico tramite un idealisticamente infinito orizzonte marino.

Rispetto alle versioni di d’Arpino, Saraceni rende la rappresentazione più sensuale tramite la semitrasparenza del drappo che avvolge Andromeda e il volto impaurito di quest’ultima nell’osservare il drago. A tal proposito va sottolineato che Saraceni probabilmente poté ammirare direttamente una delle versioni di questo soggetto di d'Arpino, e forse prima di realizzare la propria variante, presso la collezione di Olimpia Aldobrandini come propose Laura Testa (2010, p. 648). La studiosa, infatti, (1998, p. 136) aveva individuato nell'inventario del 1606 dei beni posseduti da Olimpia Aldobrandini senior un'Andromeda del Cavalier d'Arpino.

Come ha rilevato Brejon de Lavergnée (1989), eliminando il paesaggio e rendendo l’espressione di

Andromeda e quindi la scena più drammatica, il veneziano riesce qui a fare coabitare tra loro il

manierismo italiano e internazionale con l’incisione nordica, l’arte di Elsheimer e del Caravaggio. Con ogni probabilità, come rilevò lo studioso, il dipinto doveva essere una commissione di un

amateur visto il formato ridotto e il tipo di soggetto.

L’individuazione delle influenze sopra citate e la vicinanza della fisionomia di Andromeda a quelle delle Veneri rappresentate nel Bagno di Marte e Venere già in collezione privata a New York e nel

Bagno di Marte Venere e Mercurio di collezione privata romana (catt. 5, 4, figg. 5, 4), del 1600-

1602, portano ad inserire il dipinto nella medesima fase e comunque prima delle due versioni degli

Amori di Marte e Venere di Madrid (cat. 9; fig. 9) e di San Paolo (del 1602-1605, cat. 14; fig. 14),

in cui l’artista dimostra un già avviato interesse per il mondo figurativo del Caravaggio.

Bibliografia: Catalogo, 1860, n. 1078; 1869, n. 1125; Magnin, 1914, p. 68; Guillaume, 1980, n. 126 (Carlo Saraceni ?); Longhi, 1943, p. 46 (C. Sarceni); Ivanoff, 1962, p. 76 (scuola di Fontainbleau); Ottani Cavina, 1967, pp. 218-219, 223, fig. 279 (C. Saraceni); Ottani Cavina, 1968, pp. 45, 98, figg. I, 39 (C. Saraceni); Nicolson, 1970, p. 312; Salerno, 1970, p. 245; Rosenberg, 1971, p. 106; Ottani Cavina, 1976, p. 83 nota 3; Cuzin e Rosenberg, 1978, pp. 186, 191, fig. 10; Pallucchini, 1981, p. 92 ; [g.p.] Papi, 1989, p. 879; [A. O. C.] Ottani Cavina, 1985, p. 188; Chvostal, 1996, p. 815 (C. Saraceni); Papi, 1997, p. 145; Marini, 1999, pp. 99-100 (C. Saraceni); Marini, 2001, p. 263 (C. Saraceni); Testa, 2002, pp. 165, 178 nota 34 (C. Saraceni); Swoboda, 2005, p. 504 (C. Saraceni). Testa, 2010, pp. 648, 657 nota 19.

Nel documento Carlo Saraceni (pagine 195-200)