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LA COMMISSIONE DI PALAZZO DUCALE E IL RAPPORTO CON I CONTARINI E ALTRE FAMIGLIE VENEZIANE

Nel documento Carlo Saraceni (pagine 100-110)

II CAPITOLO: CARLO SARACENI E IL CARAVAGGISMO (1606-1619)

III: CAPITOLO: IL RITORNO A VENEZIA

3.2 LA COMMISSIONE DI PALAZZO DUCALE E IL RAPPORTO CON I CONTARINI E ALTRE FAMIGLIE VENEZIANE

Comprensibile è capire perché l’artista, malgrado i numerosi e importanti incarichi romani assegnatigli tra il 1616 e il 1618 nella Sala Regia del Quirinale e nella Chiesa di Santa Maria dell’Anima, decidesse di tornare a Venezia forse, come propose Rodolfo Pallucchini267, proprio su invito della Serenissima per realizzare l’importante tela con Il Doge Dandolo che incita alle

crociate (Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio, cat. 83; fig. 83). Più difficile è

invece scoprire le ragioni che spinsero la Serenissima a scegliere per questo prestigioso incarico Carlo Saraceni, che aveva passato gran parte della sua vita a Roma, piuttosto che uno dei numerosi        

265 Longhi, 1943, p. 24. 266 Ottani Cavina, 1968, p. 55. 267 Pallucchini, 1981, p. 95.

artisti che già lavoravano a Venezia. Mancini (1617-21), infatti, scriveva: «E' stato chiamato ultimamente a Venezia dove non si dubita che sodisfarà»268, mentre Baglione annotava: «Ultimamente andossone a Venezia a dipingere nella sala del Consiglio un'istoria, che la principiò e non la finì: poichè si ammalò, e volendosi governare di sua testa, con pigliare non so che quinta essenza, passò all'altro mondo di 40 anni circa»269.

Fu forse la notorietà raggiunta dal veneziano nella capitale pontificia a favorire la commissione del dipinto di Palazzo Ducale, con il merito di mostrare altresì che il tessuto artistico lagunare si stava aprendo in maniera ufficiale alla cultura figurativa in voga nell’Urbe. Per l'assegnazione dell'incarico Saraceni fu però indubbiamente aiutato anche dai legami che aveva stretto a Roma con influenti personaggi lagunari quali il cardinale Matteo Priuli o Pietro e Giorgio Contarini dagli Scrigni.

Difatti, se solitamente sono messi in relazione questi ultimi due con la commissione a Saraceni del 'telero' per Palazzo Ducale, come ha sottolineato recentemente Vincenzo Mancini270, questa poteva essere stata anche favorita dal rapporto intercorso tra Saraceni e il cardinale Matteo Priuli, presso la cui casa romana il pittore svolse le funzioni di coppiere nel 1617, secondo quanto riportava Girolamo Gualdo271. Facilmente il pittore poté lì trovare il sostegno per il ritorno in patria e ricevere

l'assegnazione dell'importante commissione grazie al Priuli poiché nel 1618 fu eletto doge il padre Antonio.

Come riporta Baglione, ed è ormai noto, Saraceni non poté portare a compimento il lavoro poiché si ammalò e venne sostituito dal suo collaboratore Jean Le Clerc. Nel dipinto di Palazzo Ducale il cavaliere con cappello piumato al centro o ancora la natura morta in primo piano a sinistra, costituita dalla spada e dai panni, appartengono al mondo figurativo del veneziano, mentre l’esecuzione pittorica rivela la grafia del Le Clerc nella pennellata veloce e nei tratti rettilinei e discontinui che profilano i personaggi. Tuttavia, l'uniformità pittorica delle ultime pennellate non permette di decifrare con chiarezza se anche Saraceni fosse intervenuto direttamente sulla tela o se avesse ideato solo la composizione. Indubbiamente quest'ultima riviene al suo estro e al suo modo di decorare ampi spazi, come negli affreschi della cappella Ferrari a Santa Maria in Aquiro e negli scomparti della Sala Regia al Palazzo del Quirinale a Roma (catt. 65, 66; figg. 65, 66). Entro quella «trama prospettica nettamente costruita» in mezzo alla folla tumultuante ritroviamo il particolare delle logge da cui si sporgono gli astanti (tra cui il doge), già presente negli affreschi del Quirinale. Tuttavia la frammentazione in più episodi è sottolineata da una sensibilità «più minuta e portata

        268 Mancini, 1617-21, p. 254.

269 Baglione, 1642, p. 147. 270 Mancini, 2010, p. 156. 271 Gualdo jr. [1650] 1972, p. 90.

quasi al cicaleccio» tutta del Le Clerc che si sostituisce a quella «più pacata e unitaria del Saraceni»272.

E' probabile che, coma ha proposto Pallucchini273, i fratelli Pietro e Giorgio Contarini (Venezia 1578-1632; Venezia 1584-1660), che accolsero l’artista durante la sua permanenza a Venezia, ebbero una parte decisiva nell'assegnazione dell'incarico. Saraceni aveva avuto la possibilità di conoscere precedentemente Giorgio a Roma, quando quest’ultimo stava svolgendo i propri studi, e conseguentemente anche suo fratello maggiore Pietro274. Lo stretto legame di amicizia tra Carlo Saraceni e Giorgio Contarini è poi sottolineato dalla dedica a Giorgio di un componimento scritto da padre Maurizio Moro in occasione della morte del pittore nel 1620 e intitolato Dogliose lagrime

nella morte del celebre Pittore il Sig. Carlo Saraceni Venetiano, et lodi all’illustrissimo Sig.

Giorgio Contarini da’ Scrigni, dedicate. Dal padre D. Mauritio Moro.

Il successo riscosso dalle ultime opere di Saraceni a Venezia fu forse favorito dai Contarini, che lo ospitarono nella loro casa a San Trovaso e forse anche nella loro villa di Piazzola del Brenta. Tuttavia, sia nel testamento di Saraceni che nell'inventario post mortem dei beni dell'artista rimasti in casa Contarini alla sua morte, non sono ricordate opere realizzate espressamente per i due fratelli durante il suo soggiorno veneziano del pittore275. Una possibile commissione è la Scena di

Naufragio realizzata per la loro villa a Piazzola del Brenta e ancora in situ (cat. A.45; fig. A45). Il

dipinto però è stato in passato ritenuto alternativamente opera di Saraceni quanto di Le Clerc ma, pur presentando una composizione consona al veneziano per i «personaggi orientali in turbante»276, è più probabilmente ascrivibile al lorenese277. Come propose Ottani Cavina278, l'opera fu forse avviata da Saraceni ma portata a termine dal suo allievo, ipotesi che appoggiamo rilevando una stesura pittorica a pennellate rapide più consona al lorenese che al veneziano.

Che Jean Le Clerc succedesse al Saraceni nelle commissioni già assegnate al veneziano, come nel caso del telero di Palazzo Ducale e del Naufragio (fig. IV.21), fu conseguenza abbastanza naturale, anche perché i due Contarini, alla morte del pittore, divennero protettori anche del lorenese che, come riportava Saraceni nel suo testamento, risiedeva a sua volta in casa Contarini a San Trovaso. Tra l'altro, se Giorgio fu particolarmente legato a Saraceni, tanto che il pittore lo elesse come suo esecutore testamentario con la richiesta anche di occuparsi personalmente di recapitare i propri denari alla consorte Grazia rimasta a Roma, fu probabilmente grazie a Pietro Contarini se, il 23 aprile 1621, Le Clerc ottenne il titolo onorifico di cavaliere di San Marco. E' proprio l'«Illustrissimo        

272 Pallucchini, 1981, p. 100. 273 Pallucchini, 1981, p. 96. 274 Pitacco, 2007 p. 250.

275 Anche se, come abbiamo rilevato, precedentemente Saraceni aveva realizzato per i Contarini a Roma, intorno al 1614, la

Maddalena penitente oggi nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia (cat.; fig.).

276 Ottani Cavina, 1968, p. 110.

277 Come ha altresì recentemente proposto Aurigemma (Aurigemma, 2010, p. 478). 278 Ibidem.

Signor Pietro Contarini»279 a essere segnalato quale garante delle nobili origini del lorenese nel documento in cui viene conferito il cavalierato a Jean Le Clerc.

La fama dei due Contarini che avevano già rivestito importanti cariche, dentro e fuori la repubblica, non poté che giovare molto sia a Saraceni che a Jean Le Clerc. Pietro era stato ambasciatore a Torino durante l'Interdetto (1606-08), ma anche a Parigi (1613-16), dove fu nominato cavaliere da Luigi XIII, Londra (1617-18), Madrid (1618-21) e Roma (1623-27), mentre Giorgio, dopo aver studiato a Roma, rivestì varie cariche di governo a Venezia, entrando nel Consiglio dei Dieci nel 1648280 Pietro e Giorgio furono poi divulgatori a Venezia, oltre che dell'arte caravaggesca del Saraceni, anche di nuovi stimoli artistici. Anche Domenico Fetti poté contare sulla protezione dei due fratelli, che lo ospitarono dal 1622 nella loro casa di San Trovaso e che lo coinvolsero in una fitta trama di relazioni, procurandogli probabilmente una serie di commissioni, tra cui quella di un dipinto per il Senato citato dalle fonti. L'orazione funebre in onore di quest’artista, stampata nel 1623 a Mantova, venne dedicata a Giorgio Contarini. Purtroppo non ci è pervenuto nessun inventario della loro collezione e per immaginare la tipologia della quadreria che possedettero i due mecenati, termine che come ha sottolineato Stefania Mason281 gli si addice meglio di collezionisti,

l'unica traccia proviene dal lascito del loro discendente Alvise II detto Girolamo Contarini alle Gallerie dell'Accademia di Venezia nel 1838. Nell'inventario del 1841 della Pinacoteca Contarini, infatti, sono annoverate delle opere di «Renieri, Strozzi e Rembrandt, ma soprattutto grandi capolavori del pieno Rinascimento, come le Allegorie di Giovanni Bellini»282 insieme a copie e opere di bottega.

Per l’evoluzione pittorica del Saraceni negli ultimi mesi di vita a Venezia, si possono analizzare anche le opere dell’artista provenienti da questo legato e oggi conservate alle gallerie dell’Accademia di Venezia. Queste erano, oltre alla Maddalena penitente già citata (cat. 57; fig. 57, cfr. Cap. I e II), che comunque fu dipinta intorno al 1614 a Roma, una Morte della Vergine (cat. 80; fig. 80), una Flagellazione (cat. 79; fig. 79) e una Negazione di san Pietro (cat. 81; fig. 81).

La Flagellazione, sebbene sia stata ritenuta inizialmente autografa da Voss, Longhi, Porcella e Weizsäcker, in seguito fu supposta copia di bottega da Ottani Cavina e Moschini Marconi (cfr. cat. 79; fig. 79). Il dipinto presenta stringenti connessioni con la grafia della Morte della Vergine e la medesima illuminazione notturna della Negazione di san Pietro. Se la Morte della Vergine poi può essere stata eseguita a Venezia insieme all'altra versione quasi identica a questa, realizzata per il conte palatino Sebastien Full von Windach in questi stessi anni e conservata all'Alte Pinakothek di Monaco (cat. 76; fig. 76), è indubbio che la prima versione di questa variante della nota e fortunata        

279 ASVe, Cancelleria inferiore, Doge, b. 174, cc. 507-508. 280 Pitacco, 2007, p. 250.

281 Mason, 2007, p. 11. 282 Ibidem.

serie di Morti e Transiti della Vergine del Saraceni venne realizzata a Roma, che é raffigurata in un'incisione del Le Clerc datata e firmata a Roma nel 1619 (fig. III.1)283. Nell’incisione, come nella versione di Venezia e di Monaco, Saraceni decide di rappresentarsi nel personaggio all’estrema sinistra con lo sguardo e le mani giunte verso l’alto in atto di preghiera. L'autoritratto del pittore (presente anche nel dipinto di stesso soggetto a Santa Maria della Scala) è stato individuato attraverso il confronto con il Ritratto di Carlo Saraceni, conservato presso l'Accademia di San Luca e realizzato da un anonimo autore del XVII secolo (fig. III.2).

Attraverso forse i Contarini alcune opere di Saraceni arrivarono anche nell'importante collezione veneziana di Bartolomeo della Nave (Venezia ? 1571/79-1632)284, che doveva avere un età prossima a Pietro Contarini e che come lui morì nel 1632. Bartolomeo aveva indubbiamente origini diverse da Pietro Contarini: il suo bisnonno, originario di Bergamo, proseguì a Venezia il commercio familiare delle spezie e così fece a sua volta Bartolomeo nella bottega del padre situata nella parrocchia di San Bartolomeo a Rialto.

Bartolomeo dalla Nave frequentava forse i Contarini, dato che sia dalla Nave che i Contarini conobbero Vincenzo Scamozzi che fu incaricato dai Contarini di realizzare la facciata del loro palazzo a San Trovaso nel 1609 e presentò nella sua Idea (1615) «il Signor Bortolo dalla Nave mercante honorato in questa Città»285. Saraceni poteva avere conosciuto Dalla Nave anche per tramite di Palma il Giovane che, secondo la tesi di Stefania Mason, raffigurò Bartolomeo nel

Ritratto di collezionista conservato presso il Birmingham Museum e Art Gallery di Birmingham286,

e che sicuramente frequentò il facoltoso collezionista che fu, come riportava Ridolfi nel 1648, tra i suoi «particolari fautori»287. Negli inventari di Bartolomeo dalla Nave sono ricordate tre opere del Saraceni: una Giuditta e Oloferne, identificabile con la versione oggi conservata al Kunsthistorisches Museum di Vienna (cat. 67; fig. 67), una Susanna e i vecchioni e un Cristo

presentato al popolo. Si conoscono solo due dipinti, ad oggi attribuiti a Saraceni, che inscenano

questi ultimi due soggetti e purtroppo, in entrambi i casi, solo dalle loro riproduzioni fotografiche. Un dipinto con Susanna e i vecchioni conservato a Weimar presso lo Shlossmuseum (cat. A.116;        

283 Nell’incisione è annotato: «Carrolus (sic) Saracenus Inventor et pinxit Ioannes Le Clerc incidebat. Romae Anno M.D. CXIX». Dell’incisione, impressa a Roma alla pace presso Jacobus de Rubeis (Giano de Rossi) nel 1649, si conosce un 2° stato di quattro al Museo Civico di Bassano (Coll. Rem. XXXIX 1049-4209, acquaforte e bulino, mm 465 x 277) resa nota da Ottani Cavina (Ottani Cavina, op. cit., 1968, pp. 64, 70, 82, 119, fig. 34) e un altro 2° stato già in collezione privata parigina (acquaforte, mm 436 x 275; J. Thuillier, Jean Le Clerc in Claude Gellée et les peintres lorrains en Italie au XVII siècle, aprile-maggio 1982, Accademia di Francia a Roma, Roma 1982, Musée des beaux-arts de Nancy, mai-juillet 1982, Roma 1982, p. 92, n. 5) e conservata dal 1999 presso il Musée des Beaux Arts di Nancy (inv. n. TH.99.15.1146; C. PAUL, Les Mystérieux du XVIIe siècle in Les Mystérieux du XVIIe siècle.

Une enquête au cabinet d’art graphique, Nancy- Musée des Beaux Arts 9 ott.- 30 dic. 2002, Nancy 2002, pp. 15-16, 52, n. 5).

Tuttavia si segnala che l’incisione del Le Clerc non riproduce esattamente, come sembrò proporre Ottani Cavina (op. cit, 1968, p. 64, 119), la versione oggi a Monaco per la differenza nel particolare dell’uomo a sinistra con i capelli mossi, rappresentato con una leggera calvizie nel dipinto.

284 Futlehner, 2007, p. 258.

285 Lauber, 2007, p. 258 (con bibliografia). 286 Mason, 1990,

fig. A124), infatti, è stato proposto come realizzazione di Saraceni in collaborazione con la bottega da Pierre Rosenberg e Jean Pierre Cuzin, mentre l'unico Cristo presentato al popolo, oggi noto, è la versione di collezione privata pubblicata da Ottani Cavina nel 1976 come realizzazione del veneziano, sebbene la studiosa lo presentasse con la titolazione di Cristo fra i dottori (collezione privata, cat. 8; fig. 8)288.

Nonostante non sia dato sapere se le versioni già in collezione Dalla Nave vadano identificate con queste opere, va sottolineato che queste ultime sono realizzazioni giovanili del Saraceni, collocabili intorno al 1602-05 mentre la Giuditta e Oloferne di Dalla Nave, e oggi presso il museo viennese, è una realizzazione matura, inseribile intorno al 1616-17. Bartolomeo quindi, aveva potuto acquistare almeno le prime due quando si era recato in viaggio a Roma verso il 1610. Tuttavia, come ha messo in luce Rossella Lauber nel suo studio su questo collezionista, nella malacopia di una lettera da Brescia, vergata da Palma il Giovane sul verso di uno dei suoi fogli di studi e collocabile verso il 1610-11, il pittore si rallegrava del ritorno di Bartolomeo a Venezia da Roma dichiarandosi però dispiaciuto perchè questi non aveva «fatto acquisto di qualche bella opera», per potersi rendere conto «della verità». Dalle parole di Palma il Giovane non è quindi chiaro se Bartolomeo non avesse semplicemente comprato solo delle opere che Palma il Giovane ritenesse «belle» o se non avesse acquistato alcuna opera a Roma, rendendo probabile l'ipotesi che le opere di Saraceni, da lui possedute, provenissero nella sua collezione dopo la morte di Saraceni nel 1620, oppure in quello stesso anno, in cui il pittore avrebbe potuto portarle con se a Venezia per far conoscere le proprie realizzazioni in patria.

Interessante è comunque rilevare anche che, stando a quanto riportava Moschetti nel suo Pulice (1625)289, tra i facoltosi visitatori della raccolta dalla Nave a Venezia vadano annoverati gli Aldobrandini, i più importanti committenti e sostenitori dell'arte di Saraceni a Roma.

L'acquisto, diretto o indiretto, di opere di Saraceni da parte di Bartolomeo dalla Nave testimonia comunque la fortuna raggiunta da questo artista anche nel territorio lagunare, considerato che, secondo le fonti, la collezione dalla Nave fu tra le più rinomate e apprezzate di Venezia.

Sarebbe poi importante sapere se i cinque dipinti di Saraceni ricordati negli inventari dei beni di Andrea Lumaga, a Venezia dal 1633 o 1634290, fossero presenti nella città sin da prima e eventualmente in quale collezione. Queste opere, una Marta e Maddalena in una stanza, una

Flagellazione di Cristo, i Santi Cosma e Damiano a mezza figura, una Giuditta a mezza figura e un Sant’Antonio da Padova, rappresentavano tutte delle «figure al naturale» ad eccezione della Flagellazione di Cristo, che era connotata da «figure intiere picole di Carlo Venetiano».

        288 Ottani Cavina, 1976, pp. 83-84 nota 3, fig. 31 289 Lauber, 2007, p. 258 (con bibliografia). 290 Cecchini, 2007, p. 286.

Probabilmente quest'ultima era vicina alla versione proveniente dal legato Contarini conservata alle Gallerie dell'Accademia di Venezia (cat. 79; fig. 79) e realizzata da Saraceni tra il 1619 e il 1620. Il dipinto con Marta e Maddalena era descritto come «Uno con Marta che stà convertendo Madalena in una stanza piena di galanterie figure intiere più del naturale di Carlo Venetiano», facendo desumere che quest'opera potesse essere molto vicina alla copia realizzata dalla bottega del Saraceni e conservata al Musée des Beaux Arts di Nantes (cat. A. 39; fig. A.39), in cui la composizione riprende il famoso dipinto di medesimo soggetto realizzato da Caravaggio verso il 1597-98291, conservato nell'Institute of Art di Detroit292.

Singolare per la fortuna critica di Saraceni a Venezia al suo arrivo nella città lagunare è anche la presenza, testimoniata dal Boschini nelle sue Minere della pittura veneziana nel 1664293, di un

Riposo durante la fuga in Egitto del Saraceni nel «soffitto sopra il Banco» nella Scuola dei Tintori

(vicina alla Chiesa dei Servi) a Cannaregio, opera irreperibile che, come ha proposto Ottani Cavina (1968), doveva essere simile alla pala di Frascati realizzata intorno al 1611-12 (cat. 47; fig. 47). Se così fosse, è curioso che una realizzazione così caravaggesca, inusuale per l’ambiente lagunare all’epoca, non sia stata ricordata in altre fonti e sarebbe interessante capire come e quando fosse arrivata a Venezia.

3.3 SEBASTIEN von FÜLL WINDACH

Nel testamento di Saraceni, fatta eccezione per il San Francesco in estasi lasciato dal pittore ai frati francescani della chiesa del Redentore, affinché questi pregassero «per la sua anima» (cat. 86; fig. 86), tutti i dipinti citati erano destinati alla collezione del conte palatino e mecenate bavarese Sebastian Füll von Windach. E' intrigante evidenziare che tra i pochi committenti diretti documentati di Saraceni a Venezia nel Seicento, oltre ai Contarini e al governo della Serenissima, ve ne fosse uno di nazionalità tedesca. D’altro canto, come già anticipato, Carlo non ebbe tempo di licenziare molte opere nella città lagunare, poiché il soggiorno fu breve.

Presumibilmente il pittore era entrato in contatto con Windach ancora a Roma quando stava lavorando per la comunità tedesca a Santa Maria dell'Anima tra il 1617 e il 1618. Com’è ormai risaputo, infatti, Saraceni strinse nell'Urbe importanti amicizie con la colonia tedesca.

       

291 Il dipinto del Merisi è verosimilmente da identificarsi con quello ricordato nell'inventario del 1606 dei beni del «Guardaroba» di Olimpia Aldobrandini rimasti dopo la sua morte avvenuta il 25 maggio di quell'anno (AA, Frascati, tomo I, fasc. 7, f. 26v; Testa, 1990, pp. 240-241; Testa, 1998, pp. 130-135). Saraceni, frequentatore della quadreria Aldobrandini, avrebbe quindi potuto agevolmente copiare e riprendere la composizione.

292 Vodret, 2009, p. 86, fig. 56. 293 Boschini, 1664, Cannaregio, p. 472.

Le opere citate nel testamento e da consegnare al conte palatino erano: un Transito della Vergine, un San Francesco, una Negazione di San Pietro e un dipinto con San Girolamo, Maddalena,

Sant’Antonio e San Francesco. Tra queste, l’unica che certamente fu eseguita a Venezia è la pala

con i quattro santi, visto che è la sola ad essere annotata come espressamente richiesta al pittore da Füll von Windach. Quest'opera è identificabile con quella, di analogo soggetto, oggi conservata nella Galleria di Shlessheim (cat. 85; fig. 85) e in cui, sebbene si concordi con la critica nel rilevare una composizione saraceniana, è ravvisabile la collaborazione di Le Clerc nella realizzazione del san Girolamo e del sant’Antonio, costruiti con rapidi guizzi di biacca e caratterizzati dai piccoli occhi incavati, tipici della maniera del francese mentre, come analizzeremo (cap. V), potrebbe riconoscersi una partecipazione di Alessandro Turchi nella figura della Maddalena. Il Transito della

Vergine e il San Francesco realizzati per il conte palatino sono poi identificabili, come ha proposto

la storiografia precedente, vista la loro provenienza, nei dipinti di analogo soggetto conservati, sin dall’Ottocento, presso l’Alte Pinakothek di Monaco (catt. 76, 82; figg. 76, 82). Tuttavia, va ricordato che il dipinto mariano di Monaco raffigura più una Morte che un Transito, in quanto la Vergine è rappresentata in trono con gli occhi chiusi, come d'altro canto nella già citata versione di Venezia della collezione Contarini, vicinissima a questa e all'incisione del 1619 del Le Clerc. La versione del San Francesco posseduta dal conte palatino, e citata nel testamento, è invece individuabile nel San Francesco in estasi conservato presso l'Alte Pinakothek di Monaco (cat. 82; fig. 82), vista la sua prossimità al San Francesco in estasi della chiesa del Redentore (cat. 86; fig. 86), ed è, insieme alla versione della chiesa, una delle migliori espressioni pittoriche saraceniane degli ultimi anni, tra il 1619 e il 1620. La pala di Monaco ha un formato maggiore rispetto a quella di Venezia (242 x 165 rispetto a 181 x 151) e reca ben in vista la firma del suo autore sul tavolo a destra: «CARLO SARACENI VENETIANO F(ecit)». La firma sembra quasi significare, come Pallucchini sottolineava294, l'orgoglio del pittore per la sua venezianità su cui poneva l'accento in un'opera destinata a un mecenate straniero. La versione di Monaco presenta una tavolozza più ricca e vivida rispetto a quella della chiesa del Redentore: quest'ultima tela risulta infatti più monocroma e scura, mentre nella versione di Monaco la tessitura cromatica è attentamente giostrata tra il grigio della parete e quello d'intonazione lievemente più olivastra dei sai dei due santi da cui si staccano il bellissimo lapislazzuli e il vermiglio delle vesti dell'angelo. Rodolfo Pallucchni ricorda che le due

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