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6. La coscienza come mistero

6.9 Causalità, coscienza e libero arbitrio

Arrivati a questo punto del percorso dovremmo aver chiarito molte delle domande che inizialmente ci eravamo posti. Una questione tuttavia non è ancora

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A tal proposito basta pensare ad alcuni film recenti, ad esempio Inception (2010) , The Final Cut (2004), Minority Report (2002), Impostor (2002), The Cell (2000).

stata sfiorata: Freeman riesce davvero a dimostrare, come afferma nell’introduzione di CPC, che la capacità di scelta è propria del genere umano? Questa domanda non è banale perché, sebbene l’intero libro sia scritto a tale scopo, Freeman non parla di libertà di scelta che nell’introduzione e nelle ultime righe dell’ultimo capitolo, dicendo:

«Tutti noi manteniamo la capacità di adottare punti di vista particolari e unici e di compiere azioni impreviste, anche se non la esercitiamo. Il nostro cervello è una fonderia di significati nuovi, che raggiungono la nostra consapevolezza quando sono già auto-organizzati, dopo di che possiamo decidere di pubblicarli in rappresentazioni quali i libri, le poesie o i film, come mezzi per condividerli con gli altri come nuova conoscenza. Oppure possiamo scegliere di procedere a un riesame, di temporeggiare o rimanere in silenzio per rispetto, umiltà, trepidazione o pigrizia, ma queste sono ragioni e scuse, non sono agenti causali. La capacità biologica di compiere scelte e patirne le conseguenze è, per citare Thomas Jefferson, inalienabile. Non possiamo rinunciarvi neanche se lo vogliamo»189

In queste righe conclusive, perciò, Freeman ribadisce la nostra capacità di modellare significati e afferma che è sempre possibile utilizzarli e metterli in circolo nel mondo sotto forma di rappresentazione. La possibilità di scegliere, in queste righe, si configura come la possibilità di decidere se far conoscere al mondo i nostri peculiari significati oppure tenerli per noi. Bisogna notare, però, che la capacità di scelta in queste righe è asserita ma non dimostrata. Oltre al fatto che Freeman non ci dà mai una definizione di scelta o libero arbitrio, quello che sconcerta è che, almeno in apparenza, sembra mancare un passaggio essenziale: la connessione tra la scelta e la produzione di significati sempre nuovi (sulla cui dimostrazione si sono concentrati gli sforzi dell’intero libro). Come giustificare, dunque, questa mancanza? Una possibile risposta è che l’idea di Freeman non venga resa esplicita perché si colloca al livello intuitivo del senso

comune. Dal momento che, normalmente, sentiamo di fare una scelta ogni volta che abbiamo l’impressione di poter intervenire nel futuro e compiamo una sola azione tra le tante possibili nella speranza che essa permetta la produzione di una conseguenza desiderata. Alla base della scelta, perciò, c’è una fondamentale incertezza di fondo che ci impedisce di sapere a cosa, esattamente, daranno luogo i nostri atti. Detto altrimenti, dove è impossibile la predeterminazione abbiamo la scelta. Considerando questo, è proprio grazie al fatto che ognuno di noi possiede un mondo di significati modellato in modo assolutamente unico e personale che ha senso parlare di scelte: abbiamo la possibilità di scegliere perché a conti fatti non esiste nessuna garanzia che permetta ad altri di inferire previsioni certe sulle nostre azioni. L’esperienza precedente detiene un ruolo di primo piano già a partire dalla nostra categorizzazione del mondo, rendendo necessaria l’istituzione di compromessi ogni qualvolta ci si muove sul terreno sociale e si cerca di dare ad ogni concetto un uso condivisibile. Senza queste concessioni l’esperienza individuale sfocerebbe sempre nel solipsismo e comunicare non sarebbe possibile. Ogni nostra decisione nasce in un contesto specifico ed ha alle sue spalle una storia individuale che è unica ed è determinata da un’infinità di fattori diversi. Se non ci sono doppioni di noi stessi – e non ci sono, visto che, anche ammettendo due esseri con identico corredo genetico ed esperienziale nonché identico assetto sinaptico nel cervello, dovremmo collocarli in spazi diversi e perciò una progressiva differenziazione sembrerebbe conseguire di necessità – significa che nessuno può creare una regola di previsione universale. Se ciò non bastasse, si consideri che, anche volendo concedere una simile regola, la dimensione di scoperta che ogni individuo esperisce procedendo nella sua vita non può essere eliminata. Il “sapere già” sembra essere sempre accompagnato dal suo complementare “scegliere l’altro” così da tener sempre accesa la sensazione di trovarsi in ogni caso di fronte ad una serie di innumerevoli strade possibili190. Il fatto di sentirsi simili a tutti gli altri non preclude questo senso di

190 Naturalmente questa posizione a proposito della possibilità di conoscere in anticipo il futuro non è l’unica esistente. Un’idea del tutto diversa viene ad esempio suggerita nel film di R. Kelly, Donnie Darko (2001), dove il protagonista ipotizza la possibilità di vedere il futuro pur senza

unicità ed esso, alla fine dei conti, è ciò che volenti o nolenti finiamo per pensare. Anche cercando di rifiutare una simile interpretazione e provando a spostare le nostre colpe sui nostri neuroni probabilmente non si può sfuggire, in ultima analisi, al senso di colpevolezza che grava su di noi, in quanto esseri dotati di coscienza sempre – o quasi sempre – in grado di fare altrimenti.

Riassumendo, l’idea implicita di Freeman è – secondo la nostra ipotesi – che si è liberi nella misura in cui si è unici. Dal momento che gli esperimenti di Freeman vogliono per l’appunto testimoniare questa unicità, la conseguente conclusione è che, in effetti, possiamo davvero scegliere.

avere alcun modo di uscire dal cammino necessario per arrivarci. Una simile teoria è però molto difficile da immaginare nel concreto perché toglie alla scelta la sua caratteristica più propria, cioè l’insicurezza sui suoi esiti. Dal momento una tale concezione non sembra essere affatto compatibile con quella che Freeman ha della libertà, eviteremo di analizzarla più a fondo e la segnaliamo qui esclusivamente a titolo di spunto.