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2. Significato e intenzionalità

2.3 Intenzionalità e causalità

Conseguenza di questo incessante scambio tra corpo, cervello e ambiente è l’indebolimento della dicotomia soggetto-oggetto. Come abbiamo detto in precedenza, infatti, il processo intenzionale è caratterizzato da un’articolazione complessa in cui entrano in gioco contemporaneamente i fattori cerebrali “interni” e i fattori ambientali, secondo un rapporto circolare e sviluppato in livelli di complessità crescente: i neuroni interagiscono e compongono le popolazioni di neuroni, le popolazioni di neuroni sono responsabili delle risposte del corpo agli stimoli e il corpo agisce all’interno di un ambiente modificandolo ed essendone a sua volta modificato. Nell’arco intenzionale, perciò, sia l’oggetto sia il soggetto vengono incorporati a tutti i livelli – dal subatomico al sociale – in un processo circolare, nel senso che la molteplicità dei fattori interagenti e l’intricato tessuto di rapporti che vige fra essi impedisce di porre una netta distinzione tra ciò che può essere considerato completamente interno e soggettivo e ciò che invece appartiene al mondo esterno e oggettivo.

Freeman sostiene che una simile configurazione può essere descritta da punti di partenza differenti: il mondo esterno o il mondo interno – cioè il cervello.

Si tratta di alternative che egli considera riconducibili a due principali modelli di analisi, cioè il paradigma dell’arco riflesso e quello del ciclo azione-percezione36. Nel primo il punto di partenza è il mondo esterno: i neuroni recettori trasmettono gli stimoli provenienti dall’ambiente al cervello e questo elabora una risposta che torna all’esterno. Il ciclo azione-percezione, al contrario, pone il cervello come il luogo in cui la dinamica ha inizio e qui l’arco riflesso non è che una parte dell’intero ciclo37.

Freeman utilizza questo secondo modello, infatti egli attribuisce un’importanza fondamentale alla capacità che ha il cervello di pianificare le azioni e prevederne le conseguenze. Questo è possibile grazie ad un processo che egli chiama

36

Cfr Freeman 2007a, pp. 5-6. 37 Cfr. ivi, p. 7.

preafferenza, che consiste nell’immaginare come potrebbe presentarsi una

situazione futura e formulare previsioni specifiche sui cambiamenti sensoriali a cui le azioni dell’individuo possono dar luogo38.

La preafferenza ha due funzioni importantissime. Innanzitutto ha una funzione discriminatrice: i messaggi che invia – le scariche corollarie – aiutano a distinguere ciò che nell’ambiente effettivamente cambia grazie alle azioni da quei cambiamenti solo apparenti dati dal movimento del corpo. Freeman spiega:

«Quando muoviamo le nostre teste e i nostri occhi per guardare, questo processo ci dice che il movimento che vediamo è nei nostri corpi e non nel mondo. Quando parliamo, questo processo ci dice che la voce che udiamo è nostra e non altrui»39

In secondo luogo essa, consentendo la pianificazione delle azioni in sequenze specifiche e permettendo di formulare ipotesi sulle conseguenze dell’impatto delle azioni dell’individuo nel mondo e nel corpo dell’individuo stesso, fornisce la base per le esperienze dell’attenzione e dell’aspettativa. Questo fa sì che l’organismo abbia sempre alcune idee – talvolta anche sbagliate – di ciò che sta cercando. Tale prefigurazione è dunque essenziale perché secondo Freeman è solo grazie ad essa che possono avere luogo sia la ricerca sia la percezione40. Tutto ciò porta con sé un’implicazione fondamentale, cioè che il soggetto non viene inteso da Freeman come un ricevente passivo degli input ambientali: la disponibilità ad accogliere gli stimoli è strettamente legata a ciò che si sta cercando e, se questa manca, la percezione non c’è. A differenza del modello ad arco riflesso, che intende l’azione, per l’appunto, come un riflesso, secondo

38 Cfr. CPC, pp. 43-44, 135.

39 «When we move our heads and eyes to look, this process tells us that the motion we see is in our bodies and not in the world. When we speak, this process tells us that the voices we hear is our own and not others» (Freeman 2000b, p.12, trad. it. mia).

Freeman la risposta dell’individuo proviene innanzitutto dall’interno dell’organismo, che si rende per sua iniziativa predisposto a percepire41.

Fino a qui abbiamo detto che la preafferenza è ciò che conferisce al soggetto un ruolo attivo all’interno del processo intenzionale, ma questo non basta per spiegare la necessità di descrivere il rapporto soggetto-mondo come ciclo azione-percezione piuttosto che come arco riflesso: dal momento che il ciclo azione-percezione è, per l’appunto, un ciclo, viene spontaneo chiedersi che senso abbia parlare di un punto di partenza quando non si tratta che di una tappa di un percorso che si ripete, un percorso in cui sia i propositi del soggetto sia l’ambiente esterno contribuiscono contemporaneamente allo sviluppo di un’attività neurale specifica.

Per cercare di rispondere possiamo tenere presente quanto Freeman affermi a proposito della causalità circolare. Come abbiamo detto, essa è la più adeguata a spiegare il ciclo azione-percezione, e tuttavia ci riesce difficile da concepire perché tendiamo sempre a tradurla in segmenti di causalità lineare, più semplici da inserire nella nostra comune interpretazione della causa e dell’effetto. Sciogliendo i nodi del processo circolare secondo una descrizione lineare, allora, è ovvio che devono essere compiute delle scelte per stabilire in quali punti rompere la circolarità e selezionare dei segmenti finiti. Tali scelte, per loro natura, devono necessariamente contenere un certo grado di arbitrarietà. Se Freeman si preoccupa di porre come causa iniziale il soggetto piuttosto che l’ambiente è dunque ragionevole che abbia un qualche motivo per farlo. Considerando l’importanza che Freeman attribuisce alla preafferenza e alla capacità dell’individuo di rendersi disponibile agli stimoli, sembra piuttosto probabile che a Freeman prema mettere in risalto il ruolo preminentemente attivo che il soggetto riveste nell’arco intenzionale. Questa ipotesi porta allora con sé

41 In Freeman 1990 troviamo scritto: «My own work has, in contrast, led me to believe that perception instead begins with an internally generated neural process that prepares the organism to seek out future stimuli in the outside world. […] Through this self-reflexive update, now known as corollary discharge (von Holst and Mittelstaedt, 1950), by the process of reafference (Sperry, 1950), the brain actively grasps for the consequences of action into the environment. Corollary discharge is what distinguishes looking from seeing and listening from hearing. It is also an essential part of what we experience as consciousness (Sacks, 1985)».

un’altra domanda: perché dovremmo attribuire alla preafferenza un ruolo così pesante nell’arco intenzionale? Non possiamo forse dire che, in ogni caso, le configurazioni dei processi preafferenti hanno la loro causa nell’ambiente esterno?

La risposta a questa domanda, secondo Freeman, è negativa. In base ai dati ottenuti con le sue ricerche sperimentali, infatti, è emerso quello che potremmo considerare come uno dei capisaldi della sua teoria: noi non conosciamo il mondo direttamente attraverso gli input sensoriali ma solo tramite costrutti endogeni del cervello che riflettono l’intero contenuto dell’esperienza passata e presente e che garantiscono un comportamento flessibile e creativo42. Questo non vuol certamente dire che l’ambiente esterno non offra alcun contributo, semplicemente si afferma che esso è molto più ridotto di quanto normalmente siamo portati a credere.

Arrivati a questo punto è necessario un passo ulteriore: se vogliamo comprendere fino in fondo perché Freeman sostenga questa tesi dobbiamo necessariamente riferirci agli esperimenti che ne hanno consentito la formulazione. Per prima cosa, perciò, sarà utile soffermarci sulla base biologica che articola la dinamica dell’intenzionalità. In CPC, pur ammettendo che si tratti di argomenti difficili da comprendere per chi non è del settore, Freeman ne parla in maniera estremamente specialistica nella convinzione che questo sia l’unico modo per capire come il cervello elabori i pensieri. In particolare, egli si serve degli strumenti matematici della teoria dei sistemi dinamici. Giudicare se questi strumenti siano in grado di fornire una descrizione adeguata del processo intenzionale non rientra negli obiettivi di questa ricerca, pertanto assumeremo come valida l’applicazione della teoria dei sistemi dinamici ai processi cerebrali e ci limiteremo a riassumere la lunga spiegazione di Freeman soffermandoci esclusivamente su ciò che è essenziale per consentirci di dare coerenza e ragione alle sue proposte.