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6. La coscienza come mistero

6.3 Problemi filosofici

a. Il problema di Olham e altre questioni fantascientifiche

Abbiamo insistito sul fatto che la coscienza è un fenomeno enigmatico che suscita numerose perplessità perché fatichiamo a conciliarla con il resto delle nostre conoscenze sul mondo. Questo è vero, ma cosa esattamente non torna? Quali domande continuiamo a porci pur non trovando una risposta?

Per chiarire questo punto possiamo prendere spunto da un racconto che Philip K. Dick scrisse nel 1953157. Questo racconto, intitolato Impostore, è ambientato in un ipotetico 2050, quando gli abitanti di Proxima Centauri sono entrati in guerra con la Terra per conquistarla. Il protagonista, Spencer Olham, è uno scienziato accusato di essere un robot umanoide inviato sulla terra dai

in some sense numerically absolute, rather than relative and a function of the integration of its contents» (Nagel, 1971, p. 410, trad. it. mia).

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Ramachandran 2010, pp. 101-102. 157 Dick 2005.

Centauriani con lo scopo di assumere l’identità di un funzionario terrestre e riuscire così a sabotare un importante progetto di ricerca. Con la complicità del suo migliore amico, Olham viene sequestrato e portato in una navicella diretta verso la Luna. Secondo i suoi accusatori, infatti, dentro il suo corpo robotico – per il resto assolutamente identico al corpo del vero Olham – si nasconde una bomba pronta ad esplodere ad un comando vocale sconosciuto. L’intero racconto ruota intorno alla difficoltà del protagonista di sfatare le accuse e dimostrare di essere il vero Spencer Olham. A nulla servono i suoi tentativi di autenticarsi facendo riferimento a episodi molto personali della sua vita passata: il robot umanoide – gli viene risposto – non saprebbe di non essere il vero Spencer Olham perché disporrebbe di un sistema di memoria artificiale totalmente identico al suo: stessi pensieri, stessi ricordi, stessi interessi. L’impostore sarebbe insomma Spencer Olham sia nella mente sia nel corpo, con l’unica eccezione di una bomba pronta ad esplodere collocata all’interno della struttura umanoide. Da questa lettura nascono inevitabilmente una serie di domande: esiste un modo per dimostrare di non essere un impostore? Siamo sicuri che il presunto Olham sia veramente innocente? Ma soprattutto, cosa c’entra questo racconto con i problemi della coscienza? Ovviamente c’entra moltissimo.

Se il robot umanoide avesse effettivamente l’intera collezione di ricordi di Olham, la stessa maniera di pensare, gli stessi desideri di Olham, ci sarebbe davvero bisogno di considerarlo un impostore? Insomma, non fosse per quel piccolo particolare della bomba non potremmo dire che, visto che ha la stessa mente di Olham, è effettivamente Olham?

Al di là della cornice fantascientifica questa storia suggerisce che sia quanto meno concepibile la possibilità che, in un futuro lontano (certo, presumibilmente molto più avanti del 2050), sia possibile creare simili duplicatori di memoria, in grado di copiare la rete sinaptica di un cervello biologico e ottenere a tutti gli effetti una nuova mente. Se così fosse, di cosa avremmo bisogno per ricreare una struttura così complessa? Basterebbe conoscere il funzionamento neuronale per poter sviluppare una coscienza artificiale o servirebbe qualcos’altro, qualcosa come una conoscenza differente

degli aspetti fenomenici della coscienza? È chiaro, infatti, che se la coscienza riprodotta fosse identica in tutto e per tutto a quella dell’originale biologico, essa dovrebbe averne non solo le proprietà cognitive ma anche quelle fenomeniche. Esse però sono definite “fenomeniche” perché riguardano esclusivamente la prima persona, e quindi come potremmo anche solo immaginare di svincolarci da questo impasse? O forse non è un impasse perché tali proprietà emergerebbero spontaneamente grazie alle connessioni sinaptiche?

Se volessimo conoscere che effetto fa essere un’altra persona potremmo davvero immaginare di poter temporaneamente sostituire la struttura mentale di qualcun altro con la nostra? E se fosse possibile, saremmo in grado di confrontare i

qualia altrui con i nostri qualia originali oppure, dal momento che avremmo

totalmente una nuova mente, non ci sarebbe traccia della nostra vecchia memoria e quindi un confronto sarebbe inconcepibile? In questo secondo caso potremmo forse ovviare il problema scaricando solo parzialmente la memoria altrui, ma allora saremmo veramente sicuri di sperimentare proprio l’effetto che fa essere un’altra persona, e non un effetto ibrido tra l’essere noi e l’essere qualcun altro? E comunque, come possiamo essere sicuri che uno stesso sistema fisico possa dare le stesse esperienze coscienti?

Vediamo facilmente che il tema della coscienza artificiale si presta bene a mandarci in confusione, se non altro perché gli esperimenti di fantasia tendono a moltiplicare i nostri dubbi sulla coscienza a ritmo esponenziale. Per mettere un po’ d’ordine ed individuare quale sia, precisamente, il focolaio di tutti i problemi, possiamo appoggiarci ad alcune note osservazioni del filosofo David Chalmers.

b. Problemi facili e problemi difficili

Secondo Chalmers è possibile dividere i problemi della coscienza in facili e difficili158. I problemi facili riguardano la spiegazione di fenomeni come la

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Cfr. Chalmers 1995. Tra le risposte alla posizione di Chalmers segnaliamo un breve articolo di D. Dennett: Facing Backwards on the Problem of Consciousness (1996).

capacità di discriminare e categorizzare gli stimoli, l’integrazione delle informazioni, l’attenzione, il controllo volontario dell’azione, la differenza fra il sonno e la veglia, insomma tutti quei fenomeni che abbiamo associato alla coscienza cognitiva. Questi fenomeni – nota Chalmers – possono essere studiati applicando i metodi tradizionali delle scienze cognitive e possono essere spiegati in termini di meccanismi computazionali o neurali.

Ciò che rende facili questi problemi è che, anche se non abbiamo neanche lontanamente in mano una spiegazione completa di come avvengano certi fenomeni, abbiamo una chiara idea di come potremmo fare per spiegarli: essi riguardano abilità e funzioni, perciò sarebbe sufficiente capire con quale meccanismo sono supportati e sarebbe possibile trovarne una definizione funzionale. Visti tutti i progressi compiuti recentemente in ambiente scientifico non c’è ragione di pensare che le neuroscienze non possano avere successo in questo campo.

Tutt’altra faccenda è l’affrontare il problema difficile, ovvero il problema della qualità soggettiva dell’esperienza. Come abbiamo visto, parlando di coscienza non ci riferiamo solo ad una serie di meccanismi biologici, ma indichiamo anche un lato soggettivo irriducibile, per il quale fa un certo effetto essere qualcuno, avere un’esperienza cosciente. Questo a quanto pare non è un problema che riguarda l’esecuzione di funzioni: una spiegazione completa dell’esecuzione di funzioni cognitive e comportamentali non sembra poter dire nulla sul perché una certa esecuzione sia accompagnata dall’esperienza. La domanda chiave che pone Chalmers è:

«Perché tutto questo processo informativo non cade nell’oscurità, libero da qualsiasi sentire interiore? Come accade che quando le forme d’onda elettromagnetiche impattano la retina e vengono discriminate e categorizzate dal sistema visivo, questa discriminazione e categorizzazione è esperita come una sensazione di rosso vivido? Sappiamo che l’esperienza

cosciente sorge quando queste funzioni sono eseguite, ma il fatto stesso che sorgano è il mistero centrale»159

Lo studio del funzionamento della coscienza potrà arrivare forse ad una descrizione precisa del processo fisico per cui essa sorge, il problema è che, anche se abbiamo molte ragioni per credere che la coscienza sorga dal fisico, non si capisce affatto come e perché questo avvenga. Il problema della coscienza è che non ci basta dare conto semplicemente della sua struttura e della sua funzione poiché resta sempre da spiegare il come e il perché da esse si origini la coscienza.

Tra l’esecuzione di funzioni e l’esperienza sembra sussistere un gap esplicativo160, nel senso che gli stati psicologici possono essere spiegati da un punto di vista funzionale ma questo non accade per gli stati fenomenici, e resta così irrisolta la questione del perché una certa organizzazione funzionale sia in grado di dare origine alla coscienza. Chalmers dice:

«Qualunque sia la descrizione funzionale che diamo della cognizione umana, rimane sempre una domanda ulteriore: perché questo tipo di funzionamento è accompagnato dalla coscienza? Per gli stati psicologici un’ulteriore domanda del genere non si pone. […] gli stati fenomenici, diversamente da quelli psicologici, non sono definiti dai loro ruoli causali. Ne consegue che spiegare in che modo certi ruoli causali vengano svolti non è sufficiente per spiegare la coscienza. Dopo aver illustrato l’esecuzione di una certa funzione, il fatto che la coscienza l’accompagni (se realmente lo fa) resta del tutto inesplicato»161

159 «Why doesn't all this information-processing go on "in the dark", free of any inner feel? Why is it that when electromagnetic waveforms impinge on a retina and are discriminated and categorized by a visual system, this discrimination and categorization is experienced as a sensation of vivid red? We know that conscious experience does arise when these functions are performed, but the very fact that it arises is the central mystery» (Chalmers 1995, p.6, trad. it. mia).

160

Il termine explanatory gap compare per la prima volta in Levine 1983. 161 Chalmers 1999, p.49.

Non abbiamo idea di come conciliare i metodi e gli obiettivi della scienza con l’aspetto fenomenico della questione. Siamo abituati a credere che la scienza debba essere obiettiva e debba cercare regole in ciò che non è dipendente dal punto di vista dell’investigatore, e questo comporta l’esigenza di fornire un genere di spiegazioni adatto a descrivere le strutture e le funzioni dei fenomeni fisici in grado di caratterizzarli in base alle loro diverse relazioni causali. Purtroppo una spiegazione causa-effetto non riesce a rendere conto degli aspetti fenomenici della coscienza, i quali sembrano collocarsi su un piano del tutto diverso dal piano fisico. Questa difficoltà nel fornire una spiegazione scientifica alla nostra intuizione di tale aspetto della realtà viene generalmente indicata con “problema mente/corpo”. Secondo questa intuizione esistono infatti due diversi regni ontologici, separati ma interagenti: il regno corporeo e quello mentale. Ciò che non riusciamo a fare, in sostanza, è spiegare come avvengano le relazioni causali tra questi due regni completamente diversi in una maniera compatibile con la nostra concezione generale dell’universo e del suo funzionamento.

Per poter capire come interpretare più dettagliatamente la posizione di Freeman riguardo il problema mente/corpo è necessario innanzitutto riuscire a collocarla nell’orizzonte concettuale contemporaneo. Vediamo quindi brevemente quali sono le posizioni principali in merito alla questione.