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1.a) Interventi papali

A una trentina di anni dalla morte di S. Albertino (1294) comincia la discesa. Pierucci (il monaco camaldolese che più di tutti ha studiato e scritto su Fonte Avel- lana, fino agli anni ottanta del secolo appena trascorso) la sintetizza così: nel 1325 l’eremo da Giovanni XXII è trasformato in abbazia (un modo eufemistico per mettere, poi, la Congregazione sotto il controllo e la giurisdizione “immediata” della S. Sede). All’abate Ubaldo succede l’abate Paolo, sotto il cui governo Gregorio XI dice di essere costretto a mandare a Fonte Avellana due visitatori apostolici. Nel 1384 Urbano VI ne manda un terzo (interventi che preludono al provvedimento di totale subordina- zione alla S. Sede). E, infatti, appena ad otto anni di distanza, vennero gli Abati Com- mendatari (1392) i quali ottengono tutte le entrate e le proprietà di Fonte Avellana, amministrandole quindi per se stessi, con l’obbligo però di una tassa annuale (in tre rate) alla S. Sede. “Il flagello degli Abati Commendatari” durò ben 178 anni: tanti per- ché in quasi sei generazioni non fossero cancellati i segni della gestione damianea del grande patrimonio agrario e gli effetti spirituali ed economici dell’esperienza di signoria dei poveri che vi era stata vissuta. Seguono ricognizioni sull’entità patrimo- niale agraria avellanita fatte eseguire dalla Camera Apostolica. Viene da pensare che il sospetto di certo disordine amministrativo collegato a quello di decadenza morale e di affievolimento dello spirito originario abbia indotto il papa Pio V a sciogliere e sopprimere, nel 1569, la Congregazione Avellanita incorporandola a quella di Camal- doli32 e a trasferire a questa tutto il (restante) patrimonio e tutto l’archivio di quella.

Ultimo intervento papale è quello di Gregorio XIII che nel 1578 devolve al Collegio Germanico-Ungarico diretto dai Gesuiti tutto il patrimonio agrario di Fonte Avellana.

32 Gli Annales Camaldulenses a questa data ci informano che di monaci avellaniti ne restavano, in tutta la Congregazione, un centinaio, dei 450 della prima metà del sec. XIII; una trentina di essi passarono all’eremo di Camaldoli; gli altri scelsero uno od altro dei monasteri camaldolesi del centroItalia. È probabile che un gruppuscolo di avellaniti (dai cinque ai dieci) fosse lasciato nel cenobio del Catria a sua custodia e per giustificare la donazione dell’Abate Della Rovere che nel 1570 aveva destinato un migliaio di ettari intorno al cenobio per il mantenimento di trenta fra monaci e conversi. Morti questi, furono sostituiti da originari camaldolesi via via fino ai nostri giorni: ciò spiega come lo spirito nativo dell’Avellana non sia sopravvissuto ma sostituito da quello (più teologico e còlto) camaldo- lese (dimostratosi con l’Umanesimo e al Concilio di Firenze). Alla data della soppressione anche il patrimonio agrario dell’Avellana era diminuito, non senza demerito degli Abati Commendatari. Il notaio pergolese Teseo Salvioli nel 1553 recensiva 86 luoghi avellaniti in tutto il centro Italia soggetti a tributo. 86 rimasti, dei 142 elencati nel sec. XIII!

1.b) L’esosità pontificia

Sotto il profilo politico-amministrativo l’istituzione dei Comuni durante il sec. XIII modifica sensibilmente la condizione umana dei contadini della Cesania: gli Statuti aggiungono o tolgono qualcosa di quello che l’esclusivo regime avella- nita aveva loro concesso o consentito. Il contado diventa contribuente del Comune senza riceverne servizi e, senza trarre alcun vantaggio dalle libertà comunali, vie- ne sottoposto a esazioni che prima non subiva, coinvolto nelle iniziative del Comu- ne e fatto partecipe delle sue vicende (favorevoli o nefaste). Effetti comunque di rimbalzo, più o meno sconvolgenti, questi, che non si sarebbero evitati nemme- no se i monaci del Catria avessero potuto mantenervi integro il loro esperimento cristiano-sociale.

A compromettere invece seriamente il prosieguo dell’esperimento cesa- nense è stata la grossa crisi finanziaria in cui è stato fatto sprofondare l’eremo- cenobio di Fonte Avellana dal calcolato intervento pontificio sopra sintetizzato. Dal ‘300 con Bonifacio VIII, per la sua guerra di Sicilia, e poi con il trasferimento dei papi in Avignone, per il mantenimento di quella corte e per quello dei cardinali ro- mani rimasti a Roma, e poi ancora con la cessione di tutti i beni di Fonte Avellana agli Abbati Commendatari nel 1392 ad unificare le entrate che la Curia Romana ne voleva trarre, i canoni di affitto delle terre avellanesi vennero progressivamente aumentati a discapito dei locatari, senza che ai monaci fosse concessa facoltà di rimostranza e di perorazione.

1.c) Decadenza morale inopinabile

Per quanto riguarda il sospetto e il giudizio di decadenza morale (con cui poi vorranno sostenersi e giusticarsi gli interventi pontifici), il primo a parlarne è stato nientedimeno che Dante Alighieri nel Par. XXI, 106-121.

L’eremo di Fonte Avellana fu, dal secolo XI, uno dei luoghi monastici più im- portanti e famosi di tutto il centro Italia, e dal secondo decennio del secolo XIV noto in tutta Europa, addirittura entro l’intero ambito del sopravissuto Sacro Romano Impero, per merito di Dante che lo cantò così: «sotto (al Catria) è consacrato un ermo / che suole esser disposto a sola latria (al puro culto di Dio) Quivi / al servigio di Dio (S. Pier Damiani parla di sé, ma vale per tanti altri monaci) mi fei sì fermo / che pur con cibi di liquor d’ulivi (nutrendomi solo di erbe) / lievemente passava cal- di e geli / contento nei pensier contemplativi. / Render solea quel chiostro a questi

cieli / fertilemente (…)». Questo era l’elogio che contava: essere stato quel centro monastico fino dagli inizi del sec. XI un santuario di spiritualità, di contemplazione, di penitenza che riforniva, passi la parola, di santi continuamente il Paradiso. Ma subito aggiungeva: « e ora è fatto vano / sì che tosto convien che si riveli”. Questa brevissima quanto acerrima rampogna ha sviato l’attenzione, più che di semplici lettori, anche di critici che non hanno fatto gran caso dell’intransigente misticismo dantesco, a motivo del quale il Poeta, legato a movimenti ascetici, spirituali e pau- peristici, come ad esempio quello che si ispirava a Celestino V e a Gioacchino da Fiore, sognava la riforma evangelica della Chiesa gerarchica e si indignava che le Istituzioni provvidenziali (Papato e Impero) e le sussidiarie (le Congregazioni mo- nastiche, più antiche, e gli Ordini mendicanti, più recenti, quali il Francescano e il Domenicano) venissero decadendo dall’originale fervore. Ciò lo portava ad usare il piglio e il tono, la sferza e la minaccia del profeta apocalittico e a non risparmia- re nessuno e nulla ove la corruzione o la tiepidezza comunque si mostrassero o potessero sospettarsi. Vero è che le Carte (delle quali appresso) non documenta- no affatto l’affievolimento del primitivo spirito avellanita e il prevalere d’interessi mondani, di ricchezza e di lusso nella gestione del grande patrimonio immobiliare, che scrittori e commentatori successivi, avendo preso Dante per uno storico invece che per poeta e profeta, dànno per evidente già nei secoli XIII e XIV. La diminuzione numerica degli eremiti, da una parte, e delle donazioni (e quindi la stabilizzazione del patrimonio) dall’altra, depongono soltanto dell’affermarsi, passato il millennio, di una nuova mentalità fra la gente: quella di “consenso alla vita terrena e alla socialità».

Forse appoggiandosi anche a Dante, Pierucci fa incominciare la decadenza morale dell’Avellana da molto presto: da quando all’eremo è aggregato il cenobio, quasi che questo emblematizzi la rinuncia all’eremitaggio perpetuo e favorisca il passaggio a definitiva vita comune. Questa rinuncia alla vocazione eremitica sa- rebbe dovuta a suadens diabolus e ad infirmitas carnis (le tentazioni del demonio e la voglia di piaceri).

Noi abbiamo espresso dubbi sulla attendibilità della tesi pierucciana alla quale, data l’autorevolezza dello studioso camaldolese, poi alcuni storici hanno aderito, non invece dom Benedetto Calati che, in un incontro privato con lo scriven- te, l’ha contestata come gratuita e ideologica.

A noi sembra che Pierucci, quanto è lucido nel rilevare la responsabilità de- gli interventi giuridici dell’Autorità Ecclesiastica, mostri di tenere in poco o nessun conto il nervoso mutarsi degli assetti sociopolitici tra la fine del sec. XIII e gli inzi del XIV: la lontananza e l’incuria del Papa e dell’Imperatore; l’involuzione signorile

dei Comuni; il pullulare e l’anarchia di signorotti locali ...; e, cause più prossime della decadenza di Fonte Avellana, l’emancipazione in atto, anzi progressiva, delle plebi rurali; l’affermarsi anche nelle campagne del potere dei Comuni e, in essi, delle nuove classi medie e dei loro moduli di vita ormai contrari all’utopia eremi- tica; il diffondersi e radicarsi dei nuovi Ordini mendicanti nelle campagne; la loro capacità di dialogare e di costituirsi punto di riferimento e di sostegno, laddove i monasteri nell’ottica generalizzante apparivano sempre di più residui e riserve di feudalesimo; la difficoltà oggettiva, stando così le cose, per il monachesimo avel- lanita, di inventare nuove maniere e forme di attuare gli ideali damianei ... Questo complesso di fenomeni soppiantava le basi e condizioni che avevano reso possibile, necessaria e benemerita la presenza e l’azione sociale di Fonte Avellana.

In concreto e nell’immediato, a mettere in difficoltà l’Avellana sono stati il fatto che le furono imposte molteplici e gravosissime tasse per i suoi beni e red- diti in diverse diocesi33 e per la convalida della nomina (per elezione interna) e la

consacrazione d’ogni nuovo Priore (al costo di 1000 fiorini d’oro) dopo la reservatio pontificia imposta all’eremo sul finire del 1318; e l’arroganza dei potenti comuni cittadini associata alle pretese autonomistiche degli emergenti comuni rurali, che condusse da una parte al moltiplicarsi delle affrancazioni (sempre con qualche perdita per Fonte Avellana), e dall’altra ad interminabili processi che ridussero le risorse finanziarie dell’eremo (per un processo con Gubbio si prevede di dover ero- gare ben 10.000 libbre di denari ravennati e anconitani); e tutto ciò indusse Priore e Capitolo ad aumentare i canoni nella stipula dei contratti di locazione.

33 La Camera Apostolica non conosceva direttamente l’esatta dimensione del patrimonio agrario avel- lanita; probabilmente non la conosceva nemmeno il Priore della Congregazione. Aveva terre dap- pertutto: Marche, Umbria, Abruzzi, Campania…; gli atti notarili erano migliaia: nessun cervello li avrebbe tenuti a mente; in una amministrazione di quella mole, sostanzialmente “disinteressata”, zone d’ombra - fuori della due grandi aziende - erano inevitabili. La Santa Sede obbliga pertanto l’eremo-cenobio del Catria ad inviare alla Curia ad ogni elezione papale l’elenco delle proprietà avellanite. Questi elenchi (come quello del 1227), oltre che costituire una memoria oggettiva per l’archivio dell’e remo, servivano alla Curia per calcolare la tassa o decima da pagarsi, da parte della Congregazione, per i beni di sua proprietà fuori della Diocesi d’insidenza dell’eremo stesso. Ed era- no utili anche come pezza d’appoggio in caso di lite o contenzioso con i Vescovi del luogo a motivo delle entrate dall’amministrazione dei sacramenti. Sul posto poi si veniva a composizione, essendo i confini conosciuti. Ma la Curia papale non aveva bisogno di dettagli metrici: interveniva solo in casi di ricorso, affidando in genere la controversia a vescovi limitrofi ; e quanto alla entità delle esazioni da riscuotere non si peritava di procedere per eccesso, lasciando alla controparte il diritto di ricorso.