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1 - Il progetto

L’essere stata organizzata, da monaci dediti alla contemplazione e alla pre- ghiera, un’azienda agraria di quasi quattromila ettari (divisa in due, contigue, per comodità lavorative legate alle condizioni ambientali) è un’impresa quasi incredi- bile. È vero che ha richiesto del tempo, ma si sbaglierebbe se si considerasse ter- minus ad quem quel 1227 in cui sarebbe stato redatto l’inventario delle proprietà immobiliari avellanite nelle diocesi del centro Italia. Bisogna infatti considerare che a quella data venne recensito quasi tutto il patrimonio agrario della Congre- gazione (altre obbedienze si aggiunsero fino al 1325 ma in ragione di non più di un decimo del tutto); S.Maria in Portuno (poi ribattezzata S. Maria del Piano) e Frat- tula erano già complete ed intere prima della metà del sec. XII. Perciò si può dire che le alture e la vallata sulla sponda destra (a venire dal Catria) del medio e basso Cesano erano tutte proprietà dell’Avellana costituitasi in poco più di un secolo dalla fondazione dell’eremo, forse anche in grazia della fama che gli accrebbe la venuta e la permanenza di S. Pier Damiani.

Questa grande azienda non può essersi formata da sé: bisogna ipotizzarla come realizzazione di un “disegno intelligente”, di un progetto concreto e studiato a tavolino in tutti i suoi particolari. Intanto, le donazioni non erano “concertate” fra proprietari ecclesiastici e laici a seguito di consultazioni o per contagio mentale; oltre tutto, erano di condizioni sociali diverse, e non dimoravano sul posto ossia sulla proprietà fondiaria; per cui addivenivano alla donazione, sì per una tendenza diffusa, ragionevole e conveniente a fronte di eventi eversivi, ma non per decisione collettiva e non necessariamente in favore di una sola entità monastica di tutto il comprensorio (fino ai primi decenni del sec. XII in quella che divenne la grande azienda avellanita c’erano appezzamenti di proprietari diversi: vescovi, signorotti longobardi e franchi e sclavini più o meno integrati ma ancora ligi a propri ordina- menti, abbati di altri più antichi monasteri ormai in decadenza, famiglie indigene

che, potendo, avevano investito speculativamente sulla terra : venendo spesso in discordia per modifiche di confini, per motivi di servitù, per incertezza del diritto

Le donazioni andate all’eremo di Fonte Avellana potevano essere pedemon- tane, sulla parte della dorsale collinare digradante verso il Misa, interposte fra quelle di proprietari conservatori o di altri monasteri, difficili quindi da controllare e gestire comunque. Restando così, non si sarebbe mai avuta la “Cesania felix” di cui veniamo parlando, ma soltanto un morcelage, uno spezzettamento disordina- to, sconnesso, indistinguibile e malgovernabile di “fondi” alquanto lontani dall’ab- bazia proprietaria, come gli altri altrui (dell’arcivescovo di Ravenna, del monastero di Brondolo sotto Chioggia, di San Lorenzo in Campo…).

Le cose debbono essere andate, necessariamente e logicamente, in altro modo. Dalle prime diverse donazioni i monaci dell’Avellana - o almeno un gruppo di loro o anche, magari, uno solo, il più lungimirante e audace - debbono aver con- cepito, infervorati dal pensiero “rivoluzionario” di San Pier Damiani, l’idea di una “proprietà unitaria, compatta” facilmente gestibile e senza un’esorbitante presen- za di personale monastico; e che questa non potesse costituirsi e comporsi a scen- dere da Castelleone verso la foce del Cesano. Difficilmente ne sarebbe riuscito il puzzle che invece fu già alla fine dell’XI secolo: si sarebbero dovuti acquistare o fatti donare migliaia di ettari di terra in un sol colpo da un unico proprietario (che non c’era) o appezzamenti e fondi spiccioli e discontinui da padroni diversi magari in luoghi diversi, da unificare difficilissimamente in chissà quanto tempo È più logi- co pensare che, già ricevute in dono alcune terre nel cosiddetto Campo di Ravenna, e nel Frattolano e in S. Maria in Portuno lungo il Cesano (oltre che in altre corti dall’altra parte ossia verso il Nevola-Misa), gli Avellaniti abbiano avuto l’intuizione e l’intenzione di collegare tra di loro i fondi e spezzoni fra le alture sopra il Cesano e la sponda del fiume verso la Flaminia, e l’”occhio geometrico” di uno di loro ab- bia disegnato la mappa che abbiamo sopra descritta, ed insieme abbiano deciso di accettare altre donazioni in quel distretto e di fare acquisti e permute a completare il puzzle.

A questo progetto non potrebbe essersi “aggiunto” a posteriori quello di “si- gnoria dei poveri” o di “cristianesimo sociale”. Anzi, bisogna pensare che l’intuizio- ne di collegare i fondi sparsi (dentro però un’area circoscrivibile) fosse essa stessa collegata con il singolare e pionieristico progetto sociale, che oscuramente già ispirava ai monaci una condotta amministrativa inusuale e generosissima verso gli homines de terra loro soggetti. Una volta realizzato il progetto di una grande azien- da unitaria, avrebbe potuto avere attuazione virtualmente universale, sull’esempio offerto già in colonìe singole sparse in diversi Comitati, il senso e il fine dell’am-

ministrazione agraria degli Avellaniti. Inoltre, il fatto che la valle del Cesano fos- se “chiusa”: da una parte dalla dorsale collinare (sulle cui alture sarebbero stati recuperati o costruiti i castelli dei contadini) e, dall’altra, dalla sponda selvosa del fiume verso la Flaminia: garantiva la necessaria segretezza dell’“esperimento di cristianesimo sociale” che, in quei tempi e nelle concezioni sociali vigenti, avrebbe potuto far sospettare di eresia e far fare una brutta fine ai suoi sostenitori.

Chi, dunque, scendendo dal Catria e girovagando per il comprensorio tra i fiumi Nevola-Misa e Cesano, avesse osservato attentamente le condizioni di vita dei contadini, avrebbe notato ch’esse erano diverse, e, una volta addentratosi nella Cesania, si sarebbe stupito di quel che vi vedeva, ma non sarebbe propriamente … cascato dalle nuvole; avrebbe forse detto a se stesso «avrei dovuto aspettarmelo».

Poco meno di quattromila ettari di terra meravigliosamente coltivata e pro- duttiva; centinaia di famiglie che lavorano gioiosamente per i campi e si godono serenamente i frutti del loro comune e solidale lavoro e possono anche aspirare all’affrancazione Come è stato possibile questo miracolo? È stato possibile cam- biando teste, anime, credenze e abitudini millenarie capaci di perseverare nono- stante il contrario messaggio evangelico.

I monaci dell’Avellana hanno scoperto il segreto che poteva portare a tanto successo: togliere dalla testa a contadini e braccianti il convincimento maligna- mente inoculatovi di essere stati da Dio predestinati, essi e i loro figli ed i figli dei figli, a fare da schiavi, legati mani e piedi alla terra avara e riottosa e per di più sog- getta al capriccio e alla stravaganza delle stagioni; far loro capire che quanto Dio è padre, altrettanto la terra è madre (la prima fonte di vita, la prima risorsa data da Dio); e che il lavoro agricolo è l’umana collaborazione con il Creatore a riportare, sotto la guida e la grazia di Cristo, la valle della maledizione alla gloria e alla gioia dell’Eden; è la predella di lancio verso ogni ulteriore benessere. Come potrebbe un neonato diventare un costruttore di case e di cattedrali senza essere nutrito al seno della madre? La terra è la madre che fornisce a ogni nato il cibo e le energie; tante cose potrà fare l’uomo, a dargli però il sostentamento primario è stata sem- pre e sarà sempre la terra, il lavoro del contadino. Distogliere gli uomini dal culto delle armi e della guerra, dalla brama di potere e di soprusi, e riaccendere in essi la volontà di pace e la dedizione alle sue arti. Riforgiare spade e corazze in falci e vomeri: allora scompariranno i lupi e torneranno a saltellare liberi e giocondi gli agnelli Il segreto, insomma, era ridestare negli animi l’amore alla terra.

La premessa era di dissuadere la plebe rurale della Cesania dall’odio per il lavoro agricolo, di cancellare negli animi la memoria atavica della invivibilità della condizione contadina, di spegnere la voglia di fuggire via dai campi anche a costo

di rimetterci l’integrità fisica e la vita stessa; di destare l’amore per la madre terra, il gusto di collaborare con Dio creatore. Oltre alle parole occorreva la promessa, di cui potersi fidare, di poter disporre e godere, essi, i contadini, con la loro famiglia, quasi interamente del prodotto della loro fatica e di potersi organizzare la vita ed un libero futuro. L’assicurazione di tutto ciò stava nella santità dei monaci, nel far- ne garanzia il loro prestigio e la protezione che godevano da parte dell’imperatore e del papa.