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Fatti documentati dalle Carte sono l’esistenza delle due grandi aziende agrarie (S. Maria del Pîano e Frattula) per un migliaio di ettari la prima e per cir- ca duemilasettecento ettari la seconda) rispetto alle altre numerose obbedienze spicciole delle quali Fonte Avellana aveva la proprietà nelle Marche, nell’Umbria, nella Toscana, negli Abruzzi e nella Campania; i contratti di enfiteusi, di livello, ad laboricium, di bracciantato stipulati dal sec. X al XIV con canoni minimi di ingresso e di affitto annuali; l’esistenza di una “comunità” di agricoltori in ciascuna delle due aziende; la presenza in entrambe di monaci avellaniti: dal “sindaco” (general- mente plenipotenziario) eletto dal Capitolo di Fonte Avellana, a monaci responsa- bili della gestione tecnica di tutte le fasi della lavorazione e degli allevamenti; la organizzazione sociale, collettiva, democratica, cooperativistica dei contadini; la presenza in entrambe le aziende di strutture come i monti frumentari e sementizi, di magazzini di attrezzi agricoli, di stalla di bestie da lavoro, di ospedale natural- mente fornito di medici e di farmacie : in sostanza, di tutte le strutture e specia- lizzazioni tecniche, professionali e amministrative senza di cui nessuna azienda avrebbe potuto funzionare e durare per secoli.

La lettura delle Carte, anche solo informativa e non necessariamente inten- zionata o apologetica, fa capire che dietro la realtà c’è un progetto e che senza il progetto non si sarebbe prodotta nessuna realtà. I fatti in quanto documentati non possono essere messi in discussione a meno che non siano contraddetti da altri fatti pur essi documentati. Le ipotesi che si fanno sui progetti in base ai quali sono stati realizzati i fatti, non sono, per definizione, documentate e documentabili: la loro capacità di convincere ossia di riferire le cause efficienti di quei fatti, sta nella loro logicità, ossia nel rendere comprensibili razionalmente, nel rendere ragion suffi- ciente di quei fatti. In questo caso le ipotesi sono irrecusabili, a meno che non se ne producano di più semplici e di più coerenti con la cornice generale storica dei fatti.

L’attenzione e le energie profuse nella trascrizione delle Carte di Fonte Avel- lana da pubblicare e nel reperimento, in quelle, di preziose informazioni su castelli e chiese di cui fare la storia, hanno impedito a mons. Polverari di percepire il fat- to più importante e significativo realizzatosi nella Cesania: la novità, l’originalità, l’unicità qualitativa (di spirito e di programmi) arrecate dall’ingresso, dalla presen- za e dall’azione dei monaci del Catria in quest’area alquanto lontana dall’eremo- cenobio, l’esservisi istituita la “signoria dei poveri”, l’esperienza di “cristianesimo sociale agricolo”. Fuori, invece, di quest’ottica, noi, sul comprensorio tra Nevola- Misa e Cesano, su quella che chiamiamo Cesania, non troveremmo nulla che me- riti di essere detto. Cosa sarebbe stata, se non fosse divenuta obbedienza di Fonte Avellana e avesse continuato (fino a quando?) ad appartenere agli Arcivescovi di Ravenna o agli Abati di Brondolo e di S. Lorenzo in Campo? Null’altro che una cir- coscrizione di fondi e pezzi di terra, selvette e fossati e zone melmose, da affittare a servi della gleba o ad altri piccoli possidenti perché vi si ammazzassero di fatica e pagassero puntualmente canoni in danaro o in prodotti agricoli e animali ai si- gnori. “Qui sono stato anch’io, e nessuno racconterà la mia storia” avrebbe potuto scrivere su una pietra ogni cesanense, come assai più tardi l’ignoto deportato nel lager di Bergen-Belzen. Invece, di quest’area c’è una storia da raccontare: quella che non si potrebbe di alcun altro luogo; quella di fintanto ch’è vissuta nell’orbita di Fonte Avellana.

La fama dell’eremo del Catria si era diffusa immediatamente là dove il nome e le gesta di S. Pier Damiani erano noti - anche a motivo della sua provenienza (da quella Ravenna così presente e pressante nell’Esarcato e nella Pentapoli) - e rico- nosciuta provvidenziale la sua riforma monastica. E tale fama si riverberava sulla media e bassa Cesania, dove appunto l’eremo del Catria aveva le obbedienze più vaste e più significative. Un cesanense poteva presentarsi dovunque: aveva la sua invidiabile, esclusiva gran carta di credito. Tutt’intorno, e poi sempre più lontano, si udivano voci, alquanto vaghe e difficilmente credibili, del singolare esperimento di umanesimo sociale che vi stavano portando avanti i monaci, derivandolo nien- tedimeno che dallo stesso ideale eremitico: di immersione nel divino come punto di partenza per il ritorno dell’uomo all’uomo, alla vera terrestrità. Ma pure la ce- lebrità degli allevatori e agricoltori di quelle valli, il loro senso di cooperazione, la coraggiosa disponibilità a quella che sarebbe potuta sembrare una pericolosa e reprimibile rivoluzione sociale, il loro facile ed entusiastico sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di una interpretazione del cristianesimo che avrebbe potuto aver sentore di eresìa pauperistica, tornavano ad onore di Fonte Avellana, aureolando- la di un consenso di plebi rurali che ne accrescevano anche l’umana potenza. La

Cesania sarebbe stata una realtà degna di esistere e di futura memoria fino a che fosse legata a Fonte Avellana; e quell’eremo sarebbe stato grande anche sul piano strettamente civile finché avesse potuto disporre, secondo i propri originali pro- getti, di Frattule e di Madonne del Piano per tentare l’utopìa di un cristianesimo so- ciale. Va detto, per altro, che questa reciprocità non è metafisica, non nasce dalla natura delle due cose: è solo storica (ma “è” non di meno!): dipende, da una parte, da condizioni “di fatto” in cui si è trovata Fonte Avellana (e non altre Congregazioni monastiche contemporanee) e/o dall’aver fatto, entro di quelle, una scelta, preso un indirizzo che altre Abbazie in condizioni analoghe si sono precluse; e, dall’altra, dall’essersi trovate, quelle popolazioni contadine - e non sarà impossibile capirne le ragioni - in condizioni più idonee a far riuscire il generoso e nuovo esperimento. Una consonanza di sentire e volere fra le altitudini ascetiche del Catria e le realisti- che pianure adriatiche, la quale finiva per accomunarne anche i destini. Se l’eremo dell’Avellana non avesse preso tanto sul serio la sua elezione alla contemplatività e alla penitenza da disdegnare tutto quanto potesse distrarnelo fino a rifiutare di tenere per sé le donazioni e l’agiatezza che ne sarebbe conseguita, come invece non hanno ritenuto di fare così intransigentemente altre Congregazioni pur esse di recente Riforma, preferendo queste di contemperare l’ascesi con un decoroso benessere e con ampia disponibilità per l’elemosina: di “cristianesimo sociale” e di “signoria dei poveri” non ci sarebbe traccia né nella Cesania né altrove. Parimenti, se la plebe rurale della Cesania non si fosse lasciata convincere dai monaci del Ca- tria delle audaci idee di S. Pier Damiani intorno alla bontà della terra, alla nobiltà del lavoro agrario, al diritto dei contadini a godere anch’essi, anzi essi più che altri, del frutto delle loro fatiche, neppure in questo caso potremmo raccontare questa storia. Non sarebbe stato facile per nessuno, con gli errori di fondo che circolava- no dappertutto in contrasto col vero spirito cristiano, destare negli animi dei servi della gleba l’amore per la terra. Ci riuscirono i figli di S.Romualdo, non tanto per la verità e bontà di quelle nuove idee, ma soprattutto per la fiducia in essi che ispirava la loro santità in coloro che più da vicino potevano misurarne la corrispondenza fra le parole e i fatti.

Fuori di quelle condizioni l’eremo del Catria avrebbe avuto la storia di ogni altra comunità benedettina, e l’avrebbero raccontata, a uso e consumo riservati, solo gli studiosi delle istituzioni religiose. E la Cesania non la ricorderebbe nes- suno.

A raccontare questa storia temiamo noi stessi di essercela inventata, inve- rosimile e superedulcorata - come il vecchio bicchiere di ricino da far bere a un bambino - quale apparirebbe al confronto con il cliché romanzesco del medioevo.

Oggi però nessuno pensa più ad un medioevo tutto uguale sempre e do- vunque, pur vero restando che ricchi e prepotenti si assomigliano dappertutto ed in ogni epoca, e che non c’era, per gli altri, limite alla miseria e alla servitù fuor che l’elemosina aleatoria dei fortunati e la prodigalità della morte. Che dal VI all’XI secolo invasioni barbariche, pestilenze, carestie, saccheggi, eccidi, tratte di servi della gleba e di vassalli, pulizie etniche si coalizzassero e si affollassero tutti in- sieme continuativamente su l’intero universo dei miserabili, disertando però quasi sempre e solo castelli e corti di nobili e di ecclesiastici : era di certo un pensare non del tutto fuori di realismo e di logica. La storia di città come Senigallia e Iesi, o di castelli come Corinaldo, Montalboddo, Montenovo, Belvedere, Roccacontrada - per restare in zona, e raccontàtaci magistralmente da specialisti i cui nomi sono ormai classici - mostravano credibile anzi che no la rappresentazione pessimisti- ca. Ma che tra il X e il XIV secolo potessero esistere, in Italia, al centro dove siamo noi, isole ed oasi di quiete, di concordia, di altruismo evangelico, di giustizia socia- le, di lavoro ilare e di godimento (personale e pieno) dei redditi agricoli da parte dei contadini, un’assistenza religiosa esortante non a masochistico misticismo bensì a grata valorizzazione della vita, della natura e della prosperità : questo difficilmen- te si sarebbe immaginato.

In verità, natura non facit saltus (in natura non si dànno mai salti improvvisi di qualità, capovolgimenti radicali di situazioni), dicevano gli antichi. E giustamen- te si penserebbe che nemmeno la storia (degli umani) ne contempli, salvo che qua o là e non senza restaurazioni. In quest’ottica la Cesania è stata un’oasi feli- ce. Un’area “naturalmente” delimitata. Quello che vi si faceva e accadeva non era osservabile né dal basso ossia dall’altra sponda del Cesano a motivo anche della parata di alberi di alto fusto che s’interponeva, né da eventuali curiosi dell’altro versante della dorsale collinare, a motivo della guardia che avrebbero fatto i castelli dei contadini cesanensi. La presenza comunque dei monaci dell’Avellana avrebbe sfatato ogni sospetto (di sovvertimento dell’ordine sociale). Pertanto l’esperimento di cristianesimo egualitario vi sarebbe potuto durare anche oltre il XIV secolo, se non fossero intervenuti eventi “estranei” (dei quali risulta che avesse avuto sentore già verso la fine del ‘300 il grande Priore S. Albertino).