Ci tocca di avvertire che i documenti ai quali ci affidiamo non sono sempre quelli che ci saremmo aspettati, ossia che raccontino direttamente esattamente ed esclusivamente il fatto che vogliamo far conoscere. Ce ne fossero e messi insieme, dovrebbero darci “una storia” dentro la grande storia, una sequenza completa di un film dentro il quale essa sequenza ha una sua comprensibilità, un principio e una fine, isolabile dunque e autonoma (come la storia della Monaca di Monza dentro i Promessi Sposi): la cronaca di un segmento di storia (cittadina, nazionale, universa- le…). Esistono documenti siffatti. Chi ha la buona sorte di trovarne, solitamente sta cercando la conferma di qualcosa ch’è saltata fuori, casualmente, inaspettatamente e piuttosto informe e ambigua ancora, da altre letture, da altre fonti. Rovistando nella sua mente, intuisce dove potrebbe parlarsene di proposito; e prova qua prova là, eccogli finalmente i documenti diretti cercati (è pure questione di fortuna, che premia sovente gli audaci).
Noi avevamo avuto l’incarico di pubblicare (dopo fatte leggere e trascrivere da paleografi provetti) le Carte di Fonte Avellana. Migliaia di pergamene…, noi che di quelle cose non avevamo mai creduto di dover interessarci. E ci vengono sott’occhi S. Maria in Portuno, Frattula , toponimi ignoti e pruriginosi. Volevamo saperne di più, anche e proprio perché, leggendo quelle pergamene, avevamo intuito che in quei luoghi fosse accaduto qualcosa di inusitato e di eccezionale (fuor dei comportamenti comuni, a quei tempi, fra proprietari sia laici che ecclesiastici, a riguardo degli af- fittuari). Era naturale che volessimo cerziorarcene; ma quelle pergamene avevano lo scopo esclusivo di identificare terreni, confini, proprietari, enfiteuti, canoni di af- fitto, condizioni vincolanti Se volevamo sapere di altro: appunto, se l’intuizione che “qualcosa d’insolito, di rivoluzionario” stesse attuandosi in quei luoghi, in virtù di quali convincimenti e di quali cause e circostanze favorevoli o cogenti , quelle Carte erano mute come pesci; bisognava che ci rivolgessimo altrove. E, per il nostro caso, le risorse non erano tante.
È bene che chiariamo, con i nostri lettori (non con gli storici di professione che ce lo insegnano), come, non soltanto nel campo della storia ma in ogni ambito del sapere, si possa pervenire a certezze ulteriori agli stretti dati documentali.
Si parte dai fatti: fatti che si caratterizzano dall’essere certificati mediante la documentazione e/o la testimonianza. Senza certificazione non si avrebbe storia ma mitologia o favola. E i fatti (documentati più o meno direttamente ed esplicitamen- te dalle Carte) sono: che in S. Maria del Piano e in Frattula i monaci dell’Avellana erano venuti in proprietà di tremilasettecento ettari di terra in virtù di donazioni, di
acquisti e di pèrmute; vi avevano costituito due aziende agrarie compatte nelle quali lavoravano centinaia di famiglie affittuarie pagando canoni o pensioni annue minime quasi irrisorie e godendosi, quindi, tutto il reddito; i monaci dimoravano a turno nelle aziende dirigendo i lavori e insegnando tecniche nuove e altro che in seguito vedre- mo. Le Carte si dilungano spesso nel descrivere la tipologia dei terreni dati in affitto, alberi che vi si trovavano, coltivazioni che vi erano in corso, frantoi, mulini a macina o ad acqua che vi operavano ecc… “Insinuano” pure che all’interno dell’eremo-cenobio del Catria c’erano state due posizioni contrastanti: quella dei conservatori e quel- la dei progressisti; ma su che cosa vertesse la controversia non è detto. Vogliamo dire, insomma, che le Carte ci forniscono molti “dati” ed informazioni, ma non tutti i passaggi ed elementi che ci occorrono a capire cosa c’era, nella Cesania, prima dell’intervento dei monaci, prima che vi si configurassero aziende agrarie di quella specie, perché e come non ne avessero costituite altrove (dove pure avevano molte proprietà), quali resistenze ed ostilità avessero dovuto superare ecc.
Se lo storico vuol capire il fatto, poiché gli mancano dati documentali intorno alle cause e agli effetti, una delle due: o chiude gli occhi e passa oltre come niente fosse, o ricorre ad ipotesi. Non è vero che la storia e la scienza non si fanno con le ipotesi («ypotheses non fingo» avrebbe detto Laplace a Napoleone: ma si sbagliava). Alle ipotesi bisogna ricorrere ogni volta che accade un fatto e non ne sono palesi le cause. Niente (eccetto… Dio) esiste o si compie da sé. Di tutto ci dev’essere una ra- gion sufficiente, una causa adeguata. Se non vedo la causa di un effetto, non posso pensare che non c’è; debbo supporla, ipotizzarla. E se basta a spiegare l’effetto, deb- bo ammetterla come “necessaria” e pertanto reale sebbene non apparente. Se non spiega l’effetto, allora dovrò ricorrere ad altra ipotesi Applicando: io posso conosce- re due avvenimenti storici o da due diversi documenti o da uno stesso documento che me li riferisce entrambi, o da un unico documento che me ne riferisce uno solo. In questo ultimo caso, io posso arguire (ammettere argomentativamente) un altro avvenimento purché questo appaia essere la causa necessaria o l’effetto necessario di quello esplicitamente riferito dal documento. Ad esempio: se varie pergamene anteriori al 1300 mi menzionano sette castelli tutti abitati dentro il territorio denomi- nato Fràttula, e poi una pergamena del 1300 mi menziona in quello stesso territorio il solo castello abitato di S. Maria della Misericordia, io sono obbligato a pensare che o tutti gli abitanti degli (altri) sei castelli sono affluiti in S. Maria della Misericordia (perché?), o sono scomparsi (per una guerra, per un terremoto, per una epidemia?). La conclusione di questo discorso è che lo storico può affermare qualcosa o perché ne ha la documentazione diretta ed esplicita, o per argomentazione (a partire da fatti documentati). Ciò vuol dire che non sempre, di tutto ciò che asserisce, egli
può addurre puntuali documenti; può giungervi infatti in virtù dell’argomentazione (che, ovviamente, sia logica e persuasiva). Per questo motivo possono aver credito di storici, oltre a coloro che non dicono una parola in più di quanto è papalmente scritto in documento, anche coloro che di qualche asserto non possono esibire documenti ma offrono incontestabili argomentazioni.
E, da ultimo, non avremmo difficoltà a farvi rientrare anche i produttori di ipo- tesi. Laplace è passato alla storia (della scienza) per molte sue scoperte fondamen- tali e non per aver detto a Napoleone, a proposito del ruolo di Dio nell’universo qual egli lo aveva concepito, ypotheses non fingo, ossia io mi attengo ai fatti, non avanzo ipotesi; la scienza non si avvantaggia di esse. Aveva torto, perché senza ipotesi né la scienza né la storia andrebbero avanti. Le cause dei fatti e/o dei fenomeni non sem- pre ci si spiattellano sotto gli occhi; allora bisogna cercarle e sapersi orientare (non come quel tale che di notte cercava, inutilmente, sotto il cono di luce di un lampione “perché lì ci si vedeva bene”, l’anello che però sapeva di non non aver perduto lì).