Stando ai referti archeologici29 deve dirsi che non si sono scoperte tracce di
un tempio pagano a tre navate che sia stato abbattuto e sostituito (o ristrutturato) da cristiani fra il V e VI secolo dopo Cristo, del quale invece direbbe la tradizio- ne secondo Cimarelli. Lo strato più profondo raggiunto dagli archeologi (etichetta 128) è di “carboni” e “sigillerebbe le fasi più antiche del monumento”. Difficile per
29 Cfr. la plaquette Santa Maria in Portuno nella valle del Cesano, a cura di Lepore G. Percorsi di Ar- cheologia 4, Ante Quem, 2006.
chi legge interpretare: queste “fasi più antiche” sarebbero del cimarelliano tempio di Venere - che a sua volta sarebbe stato il derivato di un più antico tempio etru- sco - che sarebbe stato abbattuto o incendiato (il “carbone” del n. 128) e sul quale sarebbe stato ricostruito, fra il IV-V secolo, con materiali superstiti il tempio a tre navate dedicato alla Madonna? Gli archeologi, di questo tempio dedicato alla Ma- donna non dicono: però dovrebbe essere evidente che intendano il tempio di Santa Maria in Portuno. Questo dunque, nella sua forma primitiva è a noi ignoto: non sapremmo altro, se non che rimpiazzava quello pagano utilizzandone i materiali edili. E così esso sarebbe giunto fino alla chiesa che noi vediamo? Se non che la plaquette parla anche di «un edificio di culto , forse di età altomedievale (IX-X se- colo)», che noi identificheremmo con la chiesa romanica che non c’è motivo di pen- sare che non fosse a tre navate; e se ne parla perché «sotto l’abside pentagonale “romanica” è stata trovata un’abside circolare, di chiesa evidentemente diversa (quanto alla forma, non numericamente!) dall’attuale. E dice inoltre che “lo scavo nella chiesa ha individuato molte altre strutture, inglobate in murature successive e di difficile lettura, che, allo stato attuale delle ricerche, possiamo riferire ad una (o più) chiese precedenti all’attuale».
Dopo il tempio mariano ricostruito sulle rovine del pagano e prima della chiesa attuale ci sarebbe, dunque, la chiesa delIX-X secolo. Ma pure un’altra se ne ricorda: quella ristrutturata dopo il terremoto del sec.XIV (durante il quale non solo tre ondate di peste ma pure tre grandi terremoti imperversarono sull’Italia), che fece crollare le navate laterali, le cui macerie costituiscono lo strato 122 so- vrastante il pavimento della chiesa romanica, del quale pavimento è rimasto un unico blocco di calcare (etichetta n. 162). Il crollo delle navate segnò sicuramente il passaggio dall’impianto a tre navate della chiesa romanica a quello odierno a navata unica. Dopo quel terremoto e quel crollo fu probabilmente rialzato con le macerie il pavimento della navata centrale rimasta, furono inglobate nelle fiancate le colonne e fatti eseguire affreschi e alzato il tetto. L’ultimo grande restauro è quello prodotto dai Gesuiti fra i secoli XVII e XVIII. Essi abbatterono il portichetto e la torre (esistente ancora alla metà del sec. XVII, se la vide Cimarelli), del vuoto lasciato dalla quale si servirono per tirare su, da una parte, il campanile, al centro per una cantoria con organo, e per aprirvi, dall’altra, un’entrata dalla Domus mo- nachorum. La chiesa fu così alquanto allungata. Ne rifecero la facciata nelle forme attuali. Misero mano anche all’interno della Domus monachorum sostituendo con canterti a mattoni le originarie pareti di canne spalmate di calce.
Dunque la chiesa di Santa Maria del Piano è una lontana nipote di S. Maria in Portuno, ed è ad una sola navata almeno dal secolo XIV.
Gli scavi confermano l’esistenza di cimiteri intorno alla chiesa ma non han- no restituito tracce sicure di un eremo-cenobio o monastero. Forse è giusto dire che la loro ricerca non era in programma: le tre cellette davanti alla fiancata della Domus aggiunta e il pozzo potrebbero essere anche indizi, ma occorrerebbe tanta fantasia e buona volontà per vederci qualcosa di significativo. Chissà che, ad una ripresa di scavi archeologici mirati alla ricerca della strada romana, non possa aversi qualche sorpresa? Noi non ci contiamo, perché rimaniamo del parere che, se monastero ci fu, e le Carte lo dicono, non sarebbe stato un classico monastero benedettino, ma uno di quei “monasterioli” recuperati a qualche disciplina dall’ap- partenenza a una chiesa importante e venerata e dalla gratifica di donationes pro anima che impegnava ad una condotta ammirevole. L’entrata in scena di Fonte Avellana fu il valore aggiunto.
Il privilegio di Corinaldo
Eccettuato ovviamente il Catria, nessun altro territorio ha visto e contenuto tanti bianchi monaci dell’Avellana quanto il Corinaldese tra i secoli X-XIV. Vi ave- vano nove obbedienze o corti incentrate su altrettante chiese con il loro abbate, rettore o cappellano e spesso qualche monaco, cappellano, oblato e servo30.
Essendo state individuate ed esattamente ubicate queste chiese (alle quali facevano capo i contadini che erano quasi tutti i residenti nel circondario), si può anche con buona approssimazione riconoscere il territorio sul quale i monaci del Catria estendevano la loro cura spirituale e dal quale proveniva loro gran parte delle entrate.
- Chiesa di S. Angelo (o Sancti Michelis), ubicata sul piano del Cesano ai confini con Castelleone;
- S. Maria nel fondo di Arcione (metà della Chiesa con alcune sue proprietà). Tale chiesa si trovava nell’attuale contrada di S. Maria verso Castelleone;
- S. Paterniano di Casamurata: sorgeva lungo la strada che dalla Croce del Termine scende verso il Nevola;
- S. Eleuterio, in curte Castellari o presso il castellare di Guido di Guido. Tale chiesa era situata con certezza nell’attuale contrada delle Ville, forse nel luogo
30 Non possiamo evitare di rifarci al nostro Madonna del Piano (dalle Carte di Fonte Avellana), edizione 2002, in cui il cap. III da pag. 63 a 94 è tutto costituito dalle Fonti che sono, appunto, le pergamene trascritte nelle CARTE e opportunamente commentate. Le riporteremo qui, a comodità dei lettori, nel Cap. VII .
ove oggi si trova l’edificio dell’ex scuola elementare, vicino al quale è inoltre una edicola sacra;
- S. Paterniano di Mampula (monastero e chiesa), lungo via Coste, ai confini con Ripe e Castel Colonna (già Tomba);
- S. Maria di Cervignano, nella valle del Nevola, presso l’odierna chiesa di S. Maria delle Grazie di Ostra Vetere, ai confini tra il territorio di questo comune e quello di Corinaldo. Le prime donazioni fatte a Fonte Avellana da gente di qui risal- gono al 1081: si tratta di beni posti nei fondi Casalta, Roncalia e Pavone;
- Nell’area di Campolongo: un’ampia zona del territorio comunale che va da poco oltre la chiesa di S. Maria della Misericordia al confine con Castelleone di Suasa;
- S. Maria de Foro o de Mercato, a pochi metri dalla chiesa di S. Pietro, nel Borgo di Sotto. Questa chiesa con tanto di “loggia” entra dalla sua costruzione (primi anni ‘80 del 200; anteriormente era oratorio) nell’orbita di Fonte Avellana surrogando, per ovvie ragioni di comodità e funzionalità, la Madonna del Piano nell’amministrazione di tutti beni dell’Eremo nel Corinaldese.
Osservando questo schematico prospetto delle proprietà avellanite nel ter- ritorio corinaldese e a cavallo tra Corinaldo, da una parte, e Castelleone o Mon- terado o Ripe o Ostra o Ostra Vetere dall’altra, si nota come tali proprietà siano collocate in minor numero sul versante che, dell’unica dorsale collinare interposta fra le valli del Nevola-Misa e del Cesano, scende verso il Misa, e, più numerose e consistenti, sul versante opposto, quello che scende dal crinale, su cui si snoda a saliscendi la strada che va da Castelleone a Corinaldo e poi scende fino a Monte- rado.
Su questo secondo versante e nella lunga e talvolta anche vasta pianura alla destra del Cesano (per chi scenda lungo la Pergolese dal Catria) erano, tra Corinaldo e Monterado, anche la grande obbedienza di S. Maria del Piano e, tra Monterado e la Bruciata castelcolonnese, l’altra grande obbedienza di Frattula.
Per le tante “obbedienze” avellanite che c’erano, a Corinaldo più numerosa e abituale che altrove era la presenza e l’attività tecnico-amministrativa dei mo- naci del Catria. In tutti i documenti che le riguardano sono sempre menzionati il Rettore della Chiesa e un monaco o converso sindaco (ossia rappresentante uffi- ciale e spesso plenipotenziario, eletto dal Capitolo dell’Eremo) che poteva essere la stessa o distinta persona. Un Elenco degli eremi, monasteri, chiese, cappelle, castelli e fattorie, dipendenti da S. Croce di Fonte Avellana, divisi per diocesi e con il numero di monaci, cappellani, conversi e familiari ivi residenti, redatto fra il 1227 e il 1229, dice che a Madonna del Piano (e in ciascun’altra obbedienza ana-
logamente), dimoravano - per dieci su dodici mesi dell’anno (quanti ne richiede- vano la concimazione, aratura, semina, mondatura, potatura, mietitura, battitura, vendemmia e vinificazione, preparazione e cura degli attrezzi e dei contenitori ... ) un monaco preposto ai lavori con un cappellano e conversi con i loro familiari, e - cosa assolutamente mai ricordata per altrove - che a Madonna del Piano c’erano quattro paia di buoi per i lavori su di un terreno (che almeno doveva essere di otto ettari) i cui prodotti - non il solo canone di affitto come per tutti gli altri - andavano a favore del monastero, ossia servivano al mantenimento dei religiosi che dimo- ravano nell’obbedienza, e che erano eseguiti anche con il concorso di affittuari del luogo. Comunque, a Madonna del Piano, fra tutti, gli avellaniti presenti, calcolando che il rapporto fra monaci e conversi e fra costoro e gli oblati o famuli era media- mente di uno a tre, si può pensare a non meno di dodici individui. Ciò forse spiega la necessità sentita nel 1310 di affiancare alla chiesa del Piano una casa di buone dimensioni.
Ma il numero complessivo di monaci, conversi, oblati e servi provenienti da Fonte Avellana dimoranti per gran parte dell’anno nel Corinaldese era molto più grande. Perché ce n’erano in ognuna delle corti facenti capo a ciascuna delle chie- se affiliate a S. Croce: a S. Bartolomeo un monaco con alcuni conversi e famigliari (servi), senza dire che questa chiesa aveva sotto di sé la bailìa di Scapezzano cer- tamente non sguarnita di personale avellanita; a S. Lucia un cappellano con un oblato e familiari; a S. Eleuterio un monaco cappellano con suoi conversi chierici e laici; a S. Maria di Cervignano un cappellano e un converso con loro familiari; poi dopo il 1280 ci sarà pure a S. Maria del Mercato o del Foro che, accentrando tutta l’amministrazione, non avrà avuto personale inferiore alle altre chiese.
Occorre anche non dimenticare come proprio nelle aziendepilota, come ap- punto S. Maria del Piano (e la confinante Frattula), dall’Avellana venivano mandati a curarsi fino a salute recuperata eremiti e cenobiti quando a motivo dei continui digiuni e delle durissime penitenze cadevano in esaurimenti e malattie e avevano bisogno di diete proteiche. Sicché nel Corinaldese proprio tanti erano gli Avellani- ti, e a ragione il suo territorio potrebbe dirsi un’oasi o una succursale del famoso Monastero. È anche ovvio pensare che divisi in piccoli gruppi e sparpagliati nelle varie chiese e corti, sentissero l’esigenza, almeno nelle grandi festività e nelle ricorrenze comunitarie, di ripristinare la convivenza e rigustare l’afflato della pie- na fratellanza. Forse per questo dalla metà del ‘200 c’era a Corinaldo (ma pure a Frattula e poi negli anni ‘80 anche a Monterado) una “casa dei monaci”, e per analoga ragione - di mantenere stretta e fervida l’appartenenza e la relazione delle chiese-membra con S. Croce del Catria, giuridicamente a capo della Congregazio-
ne - Priore generale e Priore claustrale nonché monaci deputati alle mansioni di massimo impegno, ogni tanto venivano a passarvi qualche giorno. E non fu, certo, senza solennità e senz’eco nell’intera Provincia, la visita e ancorché breve per- manenza del grande S. Albertino in quel di Corinaldo nell’ottobre del 1286.