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1 L’eremo-cenobio del Catria

Tra’due liti d’Italia surgon sassi / / tanto, chè troni assai suonan più bassi, / e fanno un gibbo che si chiama Catria, / di sotto al quale è consecrato un ermo/ che suol esser disposto a sola latria/ / Render solea quel chiostro a questi cieli / fertilemente - e ora è fatto vano (Paradiso, Canto XXI)

L’eremo di S. Croce in Fonte Avellana, alle falde del monte Catria, è sor- to sullo scorcio del sec. X o all’inizio dell’XI, per opera, secondo la tradizione o leggenda, di un certo Lodolfo ma fu subito organizzato e disciplinato da S. Ro- mualdo di Ravenna che operò a lungo e a più riprese nelle immediate vicinanze di Fonte Avellana: a Sitria, nelle Foci di Cagli, sul Petrano, a S. Vincenzo al Furlo e in altra località non precisata ma non lontana dal Catria. Il “padre degli eremiti ragionevoli”, come fu chiamato S. Romualdo, dette una impronta precisa alla vita eremitica che era stata intrapresa da secoli nell’ambito della cristianità, ma che non si garantiva da eccessi e debolezze. Contro la tentazione del vagabondaggio, dell’anarchia e della stravaganza egli ha legato i monaci a una Regola (essenzial- mente benedettina), all’autorità non solo spirituale ma pure giuridica di un Priore o Abbate, a un luogo stabile, a forme e momenti di vita comunitaria non escluden- ti la possibilità di isolamento perpetuo o temporaneo. Ma chi diede un’impronta ancora più profonda e duratura al piccolo romitorio di Fonte Avellana è stato San Pier Damiani (quegli che poi fu il grande consigliere di Gregorio VII), che vi giunse ventottenne nel 1035, una quarantina di anni dopo l’istituzione. La riforma ch’egli attuò può sintetizzarsi in tre punti:

a) mantenne, anzi incrementò la vita eremitica, di solitudine, di silenzio, di separazione dal mondo, riempiendola di contemplazione e di penitenza;

b) la penitenza, la solitudine, la contemplazione le intese come condizioni di base per la riforma e il riscatto dell’uomo singolo e dell’intera società (la “refor- matio universa”) dalla rovina in cui erano caduti per la colpa originale e per tutti i guasti morali e sociali a quella conseguiti e che sembravano estremi a quei tempi; c) all’obbligo dell’Opus Dei, ossia della preghiera liturgica e della contem- plazione, e a quello della penitenza, aggiunse il debitum caritatis ossia, per inten- derci, il dovere dell’elemosina ai poveri.

Fu molto concreto su questi punti: ad esempio, pretese con atto notarile che nessuno dei proprietari delle terre circostanti edificasse case in prossimità dell’eremo; impose ai monaci l’obbligo dell’astinenza quasi perpetua dalla carne e del digiuno a pane e acqua per tre o quattro giorni la settimana e massimamente in Avvento e Quaresima. Vietò a quanti risiedevano nell’eremo di chiedere elemo-

sine ai visitatori, per evitare che gli eremiti fossero considerati dei mendicanti e che si sparlasse di loro come di chi fosse disposto a vivere sulle spalle degli altri. Del resto, abbisognavano di poco, dati i rigorosi digiuni e l’austera penitenza a cui si assoggettavano. Procurò suppellettili sacre; fece costruire un chiostro o cortile accanto alla chiesa allo scopo di permettere, nelle maggiori solennità dell’anno liturgico, processioni al coperto; fornì il cenobio di un cospicuo numero di libri di carattere biblico, patristico e agiografico per nutrimento spirituale dei confratelli.

Essendo grande la preferenza di S. Pier Damiani per la vita eremitica – in- quadrata nello sfondo comunitario del cenobio – e forte la raccomandazione per la preghiera e per la penitenza, rispetto alle quali occupazioni ogni altra doveva essere intesa come secondaria, funzionale e precaria, non meraviglia che del la- voro, sia manuale che intellettuale, la Regola ch’egli scrisse nulla stabilisca. Ma quello che non scrisse nella Regola (l’essenziale valenza religiosa ed umanizzante del lavoro precipuamente agricolo) ebbe e trovò modo di dichiararlo scrivendo let- tere centrate sul “cristianesimo sociale” ad abati di monasteri da lui riformati. Si sa benissimo, infatti, che nell’eremo era praticato, dell’uno e dell’altro tipo; e che nei tempi eroici gli eremiti del Catria vivevano del proprio lavoro coltivando l’orto (vegetariani) e partecipando ai lavori comuni di raccolta del fieno e della legna, andando ai campi o fuori dall’eremo con le bestie da soma per vendere il minimo superfluo e acquistare così il minimo necessario da loro non producibile. S. Pier Damiani sapeva bene che alla comunità - composta ciascuna da non più che cir- ca trentacinque persone - bisognava procurare una base economica sufficiente al loro mantenimento senza troppe preoccupazioni che li avrebbero distolti dalla vita contemplativa. E perciò, crescendo la Congregazione, volle acquistare posse- dimenti terrieri, che tuttavia non erano sufficienti ai bisogni di comunità piuttosto numerose e situate fra i monti ove la terra era dura da lavorare e avara a rendere. Chi fosse capitato lassù, alle falde del Catria, nel sec. XI, avrebbe visto il cenobio o monastero con le sue cellette fiancheggiate dall’orticello per i singoli monaci, le celle più grandi per la vita comune, la chiesa e il chiostro annesso; e, lontano abbastanza, cellette solitarie in mezzo alla selva, dove i monaci potevano isolarsi per sempre o per un periodo determinato (eremiti), a fare una vita fruga- lissima di quello che forniva la natura, separati dalla società civile laica e immersi nella contemplazione di Dio e dell’eternità; e per qualche ora del giorno, nei campi circostanti il monastero, vestiti di ruvido panno bianco con scapolare fermato da un cingolo di lana, in sandali e capo scoperto, i monaci intenti al lavoro. Avesse cercato di entrare nel monastero e veder da vicino, si sarebbe reso conto che la comunità era formata da due categorie di persone: dai monaci propriamente detti

e dai servi. Questi ultimi, detti anche “ conversi”, erano “ laici” nel senso che non erano né sacerdoti o chierici né monaci nel senso stretto della parola, ma a servi- zio dei monaci. Tuttavia essi osservavano un tenore di vita molto simile a quello dei monaci: non mangiavano mai carne, digiunavano, non potevano possedere nulla di proprio ed erano tenuti all’obbedienza, alla castità, alla stabilità nell’eremo, alla preghiera non meno che i monaci. Ai conversi si aggiungevano i “ famuli”, che non si sa bene come da principio se ne distinguessero e che lo sviluppo successivo fa intendere come “oblati” ossia persone, uomini e donne, messisi coi loro beni a disposizione del cenobio per goderne i vantaggi spirituali.