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CECITÀ ATTENZIONALE E AL CAMBIAMENTO

1 L’ATTENZIONE COME PROCESSO COGNITIVO

1.7 CECITÀ ATTENZIONALE E AL CAMBIAMENTO

Gli esperimenti che ho citato fino ad ora erano volti a fare luce su ciò che l'individuo riesce a percepire oltre a ciò che è “illuminato” dal focus dell'attenzione e, quindi, ad evidenziare la capacità del soggetto di elaborare, entro certi limiti, anche le

informazioni che non vengono sottoposte al controllo dell'attenzione. Consideriamo invece, adesso, un fenomeno, quello della cecità attenzionale, che mostra chiaramente quanto la nostra mente rischia di non percepire mentre è impegnata nello svolgimento di un compito richiedente attenzione. È stato dimostrato, infatti, che i soggetti solitamente falliscono nell'esperire uno stimolo inaspettato se quest'ultimo viene presentato in un momento in cui l'attenzione si trova fuori gioco.

Un celebre esperimento sulla cecità attenzionale è stato condotto da Daniel Simons e Christopher Chabris nel 1999115; esso consisteva nel mostrare ai soggetti testati un video in cui venivano riprese sei persone intente a passarsi la palla, di cui tre vestite di bianco e tre di nero. I soggetti a cui veniva mostrato il video avevano il compito di contare il numero di passaggi che avvenivano tra le persone vestite di bianco. Il risultato della ricerca mostrava che quasi la metà dei soggetti testati, poiché concentrati nell'osservare le interazioni tra i bianchi, non si era accorta del fatto che, ad un certo punto del video, un uomo travestito da gorilla aveva attraversato il campo, comparendo nella scena per almeno cinque secondi. Secondo Simons e Chabris, questo risultato è compatibile con l'affermazione che l'attenzione è necessaria ai fini della percezione cosciente; nonostante ciò, potrebbe rimanere aperta la questione su come e in che misura gli stimoli percepiti inconsciamente agiscono all'interno della nostra mente.

L'esperimento calcava le orme di numerosi test condotti dallo psicologo Ulric Neisser nella seconda metà degli anni '70; nel 1979, infatti, quest'ultimo ne aveva presentato uno molto simile a quello del gorilla invisibile, con la variante di avere fatto

115 Simons, D., Chabris, C. (1999) Gorillas in our midst: sustained inattentional blindness for dynamic events, Perception, 28(9), pp. 1059-1074.

passare il mezzo al campo una donna con un ombrello aperto. I risultati dei test effettuati da Neisser non erano differenti da quelli di Simons e Chabris, ed erano volti a mostrare la difficoltà per la nostra mente di percepire coscientemente stimoli inaspettati, sebbene duraturi e salienti, nel momento in cui l'attenzione è impegnata nello svolgimento di un compito.

Tuttavia, nell'articolo di Simons e Chabris viene riportata anche un'altra interpretazione dei risultati di questi esperimenti, avanzata da Wolfe nell'articolo del 1999 «Inattentional amnesia»116, secondo la quale il fenomeno della cecità attenzionale sarebbe causato da un mancato immagazzinamento nella memoria dello stimolo in questione; dunque, lo stimolo sarebbe visto dal soggetto, ma verrebbe subito dimenticato. L'idea di Wolfe mette in evidenzia il ruolo dell'attenzione in quanto “ponte” che permette il passaggio delle rappresentazioni visive nella memoria di lavoro; nel momento il cui l'attenzione si trova fuori gioco, l'informazione non viene immagazzinata e viene, quindi, perduta. Sebbene ci sia un richiamo alle ipotesi precedentemente analizzate di Norman e MacKay, tuttavia questi ultimi ritenevano che le informazioni unattended fossero per lo meno ritenute nella memoria a breve termine; secondo Wolfe, invece, verrebbero immediatamente cancellate. Nell'articolo, viene sollevata da Wolfe un'altra questione importante: possiamo ancora dire di avere percepito coscientemente un oggetto, se subito dopo averlo visto non ne abbiamo alcuna memoria? La sua risposta è sì:

[…], this argument rise on the definition of what it means to consciously

116 Wolfe, J.M. (1999) Inattentional amnesia. In V. Coltheart (Ed.), Fleeting Memories, Cambridge, MA: MIT Press, pp.71-94

perceive something. Can one be said to consciously see something if one cannot remember seeing it an instant later? I see no reason why not. If I showed a victim a picture and then subject him to an electroconvulsive shock, he would have no conscious memory of having seen the picture, but it seems wrong to me to assert that he did not have a conscious experience of the picture.117

In risposta a Wolfe, invece, Simons e Chabris si chiedono a quale scopo, considerando la visione cosciente da un punto di vista evoluzionistico, noi dovremmo essere capaci di percepire uno stimolo duraturo e fuori dal contesto anche senza l’impiego dell’attenzione, se poi non non possiamo mantenerlo nella memoria. In definitiva, sembra più plausibile l'ipotesi per cui, nell'esperimento di cui abbiamo parlato prima, i soggetti non abbiano visto coscientemente il gorilla passato sul campo perche la loro attenzione era totalmente impiegata in un altro compito, e, quindi, attribuire la causa a quella che viene definita da Simons e Chabris “l'illusione dell'attenzione”118, ossia il fatto che la nostra impressione di avere continuamente un'esperienza ricca e completa del presente si scontra con la realtà, la quale prevede che molte cose che ci circondano non vengano percepite.

Considerando i risultati dell'esperimento di Simons e Chabris, è plausibile sostenere che, sebbene non ci sia stata visione cosciente del gorilla, tuttavia lo stimolo è stato elaborato a livello inconscio dai vari processori cerebrali. Questa possibilità risulta plausibile soprattutto tenendo conto di tutti gli esperimenti esaminati che hanno mostrato la quantità di informazioni elaborate dal nostro cervello inconsciamente e

117 Ivi, pp. 85-86.

118 Simons, D., Chabris, C. (2010) The Invisible Gorilla and Other Ways our Intuition Deceives us. New York: Crown.

l'influenza che tali dati possono avere sui nostri processi cognitivi. Tuttavia, il fatto che il gorilla non venga visto da quasi la metà dei soggetti contrasta con i risultati dei test di Moray e con la teoria di Deutsch e Deutsch; esso, infatti, dovrebbe rappresentare uno stimolo importante da percepire in quanto completamente inaspettato nel contesto.

Il fenomeno della cecità attenzionale e, più generalmente, la possibilità di percepire ed essere coscienti di alcuni stimoli senza l'intervento dell'attenzione, è stato preso in esame anche da Arien Mack e Irvin Rock nel libro, pubblicato nel 1998, «Inattentional blindness»119. Alcune delle domande a cui gli autori hanno cercato di rispondere sono esposte nel primo capitolo:

What is the relationship between attention and perception? How much, if anything, of our visual world do we perceive when we are not attending to it? Are there only some kinds of things we see when we are not attending? If there are, do they fall into particular categories? Do we see them because they have captured our attention or because our perception of them is independent of our attention?120

Mentre la nostra esperienza soggettiva sembrerebbe attribuirci la capacità di vedere e percepire tutto ciò che ci circonda senza alcun tipo di limite, relegando l'attenzione alla funzione di lente d'ingrandimento, gli esperimenti condotti da Mack e Rock, come quelli citati precedentemente, suggeriscono la difficoltà, da parte dei soggetti, di percepire, o essere consapevoli, di stimoli presentati nel momento in cui l'attenzione è impegnata in un altro compito. Il test da loro ideato consisteva nel

119 Mack, A., Rock, I. (1998) Inattentional blindness, Cambridge: MIT Press. 120 Ivi, p. 1.

trasmettere sullo schermo di un computer, per un breve lasso di tempo, l'immagine di una croce e nel richiedere ai soggetti di identificare quale, tra i due segmenti costituenti la croce, fosse quello più lungo. Il fulcro dell'esperimento era costituito dall'inserimento, in alcuni passaggi, di uno stimolo critico in uno dei quadranti formati dalla croce e dall'interrogare i soggetti, una volta terminato il test, circa il fatto di aver visto qualcos'altro oltre alla croce stessa (inattention trials). Oltre a tale domanda, veniva chiesto ai soggetti (anche a quelli che rispondevano di non avere visto nient'altro che la croce) di scegliere tra alcune alternative volte ad identificare la natura dello stimolo critico. Una risposta corretta, infatti, avrebbe potuto portare a concludere che lo stimolo era stato percepito, ma solamente a livello inconscio.

L'esperimento fu condotto anche sotto due condizioni differenti: in una veniva richiesto ai soggetti di riportare non solo la lunghezza dei segmenti della croce, ma anche qualsiasi altra cosa fosse apparsa sullo schermo (divided attention trials); nell'altra, il compito dei soggetti consisteva nell'individuare ciò che appariva sullo schermo insieme alla croce senza prestare attenzione alla lunghezza dei segmenti (full

attention trials). I risultati dell'esperimento furono i seguenti: nell’inattention trial, circa

il 25% dei soggetti non riuscì ad accorgersi dello stimolo critico né fu rilevata una tendenza da parte di tali soggetti a scegliere correttamente tra le alternative che gli venivano sottoposte; nel divided attention trial, la maggior parte dei soggetti fu capace di rilevare lo stimolo critico e, nel full attention trial, vi riuscirono quasi tutti i soggetti.

Mack e Rock, alla luce di tali risultati, assunsero come ipotesi di lavoro che non può esserci percezione (intesa come percezione cosciente) di uno stimolo quando l'attenzione è impiegata altrove, a meno che tale stimolo non possieda certe

caratteristiche particolari capaci di catturare l'attenzione in maniera bottom-up, e chiamarono questo fenomeno inattentional blindness. Rimanevano, tuttavia, molte altre questioni da indagare: «If nothing is perceived without attention, what sorts of objects capture attention? What is the fate of stimuli that are not perceived under conditions of inattention? Do they simply drop out at some early stage in the processing of visual information or are they processed more fully, yet not consciously perceived?»121.

Come abbiamo visto, l'idea che uno stimolo saliente possa spostare e catturare l'attenzione su di sé era già stata ampiamente testata tramite gli esperimenti con l'ascolto dicotico, ed i risultati più significativi erano stati raggiunti inserendo nel messaggio secondario il nome del soggetto testato. Mack e Rock decisero di utilizzare lo stesso test nell'ambito visivo ed ottennero risultati molto simili: l'attenzione dei soggetti veniva catturata dalla presentazione visiva del proprio nome. Significativamente, fu rilevato che se il nome del soggetto veniva leggermente modificato, anche solo di una vocale, falliva nell'essere percepito. Ciò sembrerebbe supportare le ipotesi per cui, prima dello spostamento dell'attenzione, viene operata un'elaborazione inconscia piuttosto accurata dello stimolo critico, e, quindi, si dimostrerebbero esatti i modelli, come quello di Deutsch e Deutsch, che pongono il filtro selettivo ad uno stadio avanzato del processamento inconsapevole: «It is as if attention provides the key that unlocks the door dividing unconscious from conscious perception. Without this key, there is no awareness of the stimulus»122.

Risultati e conclusioni simili a quelli riguardanti la cecità attenzionale, i quali mettono in luce i limiti dell'attenzione umana, sono stati ottenuti conducendo

121 Ivi, p. 15. 122 Ivi, p. 20.

esperimenti sulla “cecità al cambiamento” (change blindness), ossia sul fenomeno riguardante l'incapacità generale dei soggetti di notare cambiamenti anche consistenti nella scena visiva sopraggiunti insieme ad altri elementi di disturbo di quest'ultima. I primi studi relativi al fenomeno assunsero due tendenze differenti: alcuni di essi mettevano in relazione il fenomeno con i limiti della memoria di lavoro, mentre altri identificavano la causa nella saccade, ossia in un rapido e frequente movimento dell'occhio che permette di portare un oggetto sulla fovea e, quindi, al centro del campo visivo. Uno degli studi più importanti condotti sulla cecità al cambiamento fu quello di George McConkie e Christopher Currie, pubblicato nel 1996 nell'articolo intitolato «Visual stability across saccades while viewing complex pictures»123. Gli esperimenti consistevano nel mostrare ai soggetti un'immagine raffigurante una casa tramite lo schermo di un computer e nel modificarla durante i movimenti saccadici degli occhi dei soggetti (ad esempio, cambiandone la grandezza e spostandola nello schermo). Poiché i risultati mostrarono che i cambiamenti anche evidenti nella scena visiva sopraggiunti durante le saccadi spesso non venivano rilevati dai soggetti, sembrò allora confermata l'ipotesi per cui il fenomeno della cecità al cambiamento fosse causato proprio da tali movimenti oculari.

In realtà, come dimostrato da esperimenti successivi, gli stessi risultati e lo stesso fenomeno potevano essere ottenuti anche senza utilizzare la saccade all'interno del test. Nell'articolo del 1997, infatti, dal titolo «To see or not to see: the need for attention to

perceive changes in scenes»124 di Ronald Rensink, Kevin O'Regan e James Clark si

123 McConkie, G., Currie, C. (1996) Visual stability across saccades while viewing complex picture,

Journal of Experimental Psychology: Human Perception and Performance, 22(3), pp. 563-581.

124 Rensink, R.A., O'Regan, J.K., Clark, J.J. (1997) To see or not to see: the need for attention to perceive changes in scenes, Psychological Science, 8(5), pp. 368-373.

ipotizza che la causa della cecità al cambiamento sia da attribuire, piuttosto, ad una mancanza di attenzione: «In particular, we proposed that the visual perception of change in a scene occurs only when focused attention is given to the part being changed»125. Per verificare che il fenomeno sia realmente da attribuire all'attenzione piuttosto che ai movimenti saccadici o, come era stato ipotizzato, alla memoria a breve termine, gli autori idearono il cosiddetto paradigma del flicker (“sfarfallio”). Tale tecnica consisteva nel mostrare ripetutamente tramite computer ai soggetti testati due immagini A e A1 (modificata) alternandole ed intervallandole con la breve presentazione dello schermo vuoto; veniva, inoltre, chiesto ai soggetti di premere un pulsante nel momento in cui avessero rilevato qualche cambiamento. In questo modo, non solo non veniva indotto nei soggetti alcun movimento oculare, ma, anche, si permetteva loro di visualizzare l'immagine per un periodo di tempo sufficiente per potersene creare una rappresentazione accurata. I risultati dell'esperimento venivano valutati sulla base del numero di alternanze tra A e A1 necessario affinché i soggetti si accorgessero della modifica.

Per verificare che le conclusioni fossero corrette, il test fu ripetuto eliminando la presentazione dello schermo vuoto tra un'immagine e l'altra; in questo modo fu possibile dimostrare che, sotto le condizioni del flicker, i soggetti impiegavano molto più tempo ad identificare i cambiamenti rispetto alle condizioni normali. Gli esperimenti, inoltre, mostrarono che il fenomeno aumentava nel caso in cui le modifiche riguardassero elementi di scarso interesse (marginal interest) piuttosto che quelli più importanti all'interno della scena visiva (central interest). Le conclusioni a cui giunsero gli autori

furono, dunque, le seguenti:

The preceding experiments show that under flicker conditions observers can take a surprisingly long time to perceive large changes in images of real-world scenes. This difficulty is due neither to a disruption of the information received nor to a disruption of its storage. It does, however, depend greatly on the significance of the part of the scene being changed, with identification fastest for those structures of greatest interest.

We therefore make the following proposal:

• Visual perception of change in an object occurs only when that object is given focused attention

• In the absence of such attention, the contents of visual memory are simply overwritten (i.e., replaced) by subsequent stimuli, and so cannot be used to make comparisons126.

L'ipotesi avanzata dagli autori è che l'attenzione consentirebbe agli stimoli visivi di essere immagazzinati nella memoria a breve termine, così da permettere al cervello di ritenerli durante il tempo in cui vengono presentati lo schermo vuoto e l'immagine modificata; in questo modo sarebbe possibile per il soggetto operare una comparazione tra le due scene visive e notare con maggiore facilità i cambiamenti avvenuti. In condizioni normali l'attenzione verrebbe immediatamente catturata (bottom-up) dalle modifiche prodotte nell'immagine; con la variabile del flicker, invece, l'unica possibilità di riconoscere i cambiamenti è di dirigere (top-down) l'attenzione su alcuni elementi

dell'immagine (solitamente quelli di maggiore interesse, come quelli posizionati centralmente).

Gli esperimenti sul fenomeno del change blindness mettono in luce il carattere illusorio della nostra esperienza soggettiva riguardo ciò che ci circonda: l'impressione di essere sempre consapevoli di quello che avviene intorno a noi si scontra con la difficoltà di rilevare i cambiamenti che avvengono quando noi non prestiamo attenzione a quella porzione di realtà. Nell'articolo del 1997 intitolato «Failure to detect changes to attended objects in motion pictures»127, Daniel Simons e Daniel Levin scrivono: «Our immediate experiences of the world seem to include rich and detailed visual information about the locations and properties of objects. If this is true, then we should readily detect changes to objects in our environment. Yet, a number of recent findings show that observers are surprisingly slow and often fail to detect changes to successive views of both natural and artificial scenes»128. Nell'articolo gli autori sostengono che, sebbene sia evidente che l'attenzione costituisca un elemento necessario per il rilevamento dei cambiamenti all'interno della scena visiva, tuttavia, essa non risulta essere sufficiente a garantire tale prestazione.

L'ipotesi degli autori nasce dalla considerazione che le informazioni che un individuo utilizza per tenere traccia di un oggetto sono per lo più quelle spazio- temporali, piuttosto che quelle caratteristiche che vengono definite “statiche”. Uno degli esperimenti riportati nell'articolo, infatti, mira a dimostrare la possibilità che i cambiamenti prodotti in un oggetto posto sotto il focus dell'attenzione non vengano identificati qualora le informazioni spaziotemporali riguardanti l'oggetto non subiscano 127 Simons, D., Levin, D. (1997) Failure to detect changes to attended objects in motion pictures,

Psychonomic Bulletin & Review, 4(4). pp. 501-506.

modifiche. Il test ideato consisteva nel sottoporre ai soggetti un breve filmato con protagonista un solo attore, così da essere certi che l'attenzione fosse diretta su di lui, e nel sostituirlo con un'altra persona nel momento in cui il filmato veniva tagliato e si passava, così, ad una scena successiva. Il cambio di scena, tuttavia, manteneva coerenti i movimenti e le azioni che l'attore stava compiendo precedentemente; così che le informazioni spaziotemporali non risultassero modificate. I risultati indicarono che solo il 33% dei soggetti si era accorto del cambiamento, così da portare gli autori a concludere che: «[...] object properties are not automatically used to integrate different views of a scene. Even though we can clearly discriminate individual objects, we apparently do not encode, represent, and use property information to track them over time»129. Sembrerebbe necessaria, dunque, per rilevare cambiamenti di questo tipo, un'elaborazione delle caratteristiche degli oggetti che non avviene in maniera automatica, neppure con l'intervento dell'attenzione.

Simons e Levin pubblicarono, nel 1998130, un altro studio sulla cecità al cambiamento in cui il fenomeno veniva testato tramite scene di vita reale piuttosto che utilizzando fotografie e filmati, ipotizzando che un coinvolgimento diretto con la scena visiva potesse favorire il rilevamento di cambiamenti. Uno degli esperimenti prevedeva che il soggetto interagisse con un passante fermatosi a chiedere delle indicazioni; la conversazione veniva poi interrotta facendo superare una porta ai due interlocutori, l’uno dopo l’altro, in modo da interrompere il contatto visivo per un breve intervallo di tempo, durante il quale avveniva la sostituzione del passante con un altro attore. Gli autori riportarono che, su 15 soggetti, 7 sostennero di non essersi accorti di alcun 129 Ivi, p. 505.

130 Simons, D., Levin, D. (1998) Failure to detect changes to people during a real-world interaction,

cambiamento. Come nel caso precedentemente citato, anche qui l'attenzione è focalizzata sull'oggetto sottoposto a modifica, e, tuttavia, ciò non è sufficiente affinché se ne rilevino i cambiamenti. Questo rafforza l'ipotesi degli autori per cui la change

detection richiede un'elaborazione più approfondita delle caratteristiche che subiscono

l'alterazione: «Our visual system does not automatically compare the features of a visual scene from one instant to the next in order to form a continuous representation; we do not form a detailed visual representation of our world»131.