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LA TEORIA DEL LIVELLO INTERMEDIO

2 LA RELAZIONE TRA ATTENZIONE E COSCIENZA

2.6 LA TEORIA DEL LIVELLO INTERMEDIO

Tra le teorie contemporanee sulla coscienza ve ne è una che pone in particolare risalto la relazione con l’attenzione, ossia quella del filosofo Jesse Prinz. L'operazione compiuta da Prinz consiste nel riprendere l'ipotesi del livello intermedio formulata da Ray Jackendoff nel 1987 in «Consciousness and the computational mind»196 e svilupparla all’interno della propria teoria chiamata AIR (Attended Intermediate-level

Representation) theory of consciousness. Quella di Jackendoff è una teoria

computazionale che si basa sull'individuazione di tre differenti livelli di elaborazione dell'informazione per ciascuna modalità sensoriale:

1. il livello basso, in cui la rappresentazione è disorganizzata e non direttamente identificabile con l'oggetto da cui è generata.

2. nel livello intermedio le proprietà dell'oggetto si organizzano ed integrano nella rappresentazione ed abbiamo qui il modello attuale dello stimolo.

3. il livello più alto in cui elaboriamo un modello astratto dell'oggetto e le sue caratteristiche comparative.

Secondo l'opinione di Jackendoff, il livello intermedio è quello in cui emergerebbe la

195 Edelman, G.M., Bright air, Brilliant fire. On the matter of the mind; cit. p. 141-142.

coscienza; ossia la rappresentazione creata al livello intermedio dei sistemi percettivi è quella che meglio corrisponde a ciò che le persone riportano dell'esperienza cosciente di un oggetto: posto in un determinato luogo, con una certa forma, colore etc.

Prinz accetta questa idea, che indica a quale livello di elaborazione dell’informazione emerge la coscienza, e che potrebbe costituire un grande passo avanti nella ricerca del correlati neurali della coscienza (NCC), definiti da Koch come l'insieme minimo degli eventi neurali che danno vita a specifici aspetti di percezione cosciente: scoprire i meccanismi neurali che sottostanno ai processi percettivi del livello intermedio equivarrebbe a localizzare la coscienza nel cervello. Rimane, tuttavia, aperta la domanda su come certi stati diventino coscienti. Infatti, la semplice attività dei livelli percettivi intermedi non basta a far emergere la coscienza; ne sono un esempio i numerosi esperimenti condotti sulla percezione subliminale, ossia la capacità del nostro cervello di elaborare le informazioni che non superano la soglia percettiva cosciente. Prinz ritiene che si verifichi l'emergere della coscienza se e solo se l'attività nei livelli intermedi viene modulata dall'attenzione. Quest'ultima è l'elemento chiave che permette all'informazione di essere immagazzinata nella memoria di lavoro ed essere così disponibile a livello superiore.

Nel suo articolo «Is attention necessary and sufficient for consciousness?»197 Prinz chiama in causa, tra gli altri, il fenomeno dell’attentional blink per dimostrare che, quando l'attenzione è fuori gioco, lo stimolo sensoriale non arriva alla coscienza. L’attentional blink198 si verifica quando viene richiesto ad un soggetto di individuare

197 Prinz, J. (2011) Is attention necessary and sufficient for consciousness? In Mole, C., Smithies, D., Wu, W. (eds.), Attention: Philosophical and Psychological Essays. Oxford: Oxford University Press, pp. 174-204.

198 Sessa, P., Dell'Acqua, R. (2008) Il fenomeno "Attentional Blink", Giornale Italiano di Psicologia, XXXV (3), pp. 541-562.

due target T1 e T2 tra una serie di stimoli mostrati in rapida successione. L'esperimento mostra che, se T2 viene presentato a distanza ravvicinata rispetto a T1, non viene percepito coscientemente in quanto l'attenzione è consumata dal primo target. Il termine

blink, infatti, fa riferimento al battito di ciglia che si verificherebbe nel momento in cui

il soggetto riesce ad identificare il primo stimolo saliente, compito che richiede l'impiego dell'attenzione e a cui segue quello che Dehaene, nella sua trattazione dell'attentional blink in «Coscienza e cervello»199 del 2014, ha definito “periodo di refrattarietà psicologica”, ossia il lasso di tempo in cui la mente si trova impegnata nel processamento di un input ed è, quindi, refrattaria ed in ritardo nell'elaborazione degli stimoli successivi.

CONCLUSIONE

Nel corso della mia ricerca storica sull’attenzione nella psicologia cognitiva ho evidenziato alcuni sviluppi interessanti, tra cui, ad esempio, il fatto che i primi esperimenti sull’attenzione selettiva trattati in questa tesi, come quelli condotti da Cherry e Broadbent, utilizzassero la tecnica dell’ascolto dicotico e coinvolgessero il senso dell’udito, mentre le ricerche successive, a partire da quelle di Treisman, si basavano soprattutto su test visivi. La formula di base per la maggior parte degli esperimenti prevedeva, infatti, l’impiego di un display su cui far comparire gli stimoli, e azioni semplici da far compiere al soggetto testato al rilevamento del target, come la pressione di un pulsante. La modalità visiva e la struttura di questi esperimenti rendevano più semplice l’osservazione e l’analisi di alcune caratteristiche dei processi attentivi, come l’orientamento o la ricerca. Non è un caso che questo passaggio rispecchi cambiamenti tecnologici a forte impatto sulla vita quotidiana, come l’onnipresenza di schermi televisivi e di computer, e la sempre maggiore importanza delle immagini in tutti i settori culturali.

Oltre a ciò, dal primo capitolo emerge l’importanza della questione dell’elaborazione preattentiva delle informazioni, in quanto alla base del processo selettivo, e del ruolo che possono svolgere le percezioni che ne vengono escluse e che, quindi, rimangono al livello dell’inconsapevolezza. Questa concezione dell’attenzione come selezione percettiva sembra divenuta meno importante di recente perché in tutte le funzioni cognitive si dà per scontato un aspetto preattentivo che non viene più letto prevalentemente in chiave difensiva e di esclusione di stimoli. Nelle teorie della coscienza descritte nel secondo capitolo, l’attenzione viene presa in considerazione per

la capacità “positiva” di permettere l’accesso delle percezioni alla consapevolezza; nel primo capitolo, invece, uno degli aspetti fondamentali, che incontriamo fin dagli esperimenti di Cherry, è il carattere di filtro dell’attenzione e l’influenza che le informazioni escluse possono esercitare sul comportamento del soggetto. In questa sezione il rapporto tra attenzione e coscienza risulta problematico: se alcuni esperimenti, come quello del gorilla di Simons e Chabris, sembrano dimostrare che sia necessario rivolgere la nostra attenzione a qualcosa affinché questo sia presente nella nostra coscienza, vi sono moltissimi esempi, nella letteratura psicologica sull’attenzione, di stimoli unattended che hanno raggiunto la consapevolezza, come nell’effetto del

cocktail party, o che sono rimasti ad un livello inconscio ma che hanno influenzato le

risposte del soggetto testato, come nei casi descritti di alcuni pazienti affetti da neglect o da blindsight. A mio parere, quindi, tale aspetto rimane interessante.

Altri aspetti della ricerca cognitivista sull’attenzione sembrano essere stati ereditati dalle neuroscienze cognitive, che hanno cercato localizzazioni cerebrali per alcune funzioni la cui specificità era stata concettualizzata grazie agli esperimenti psicologici. Un esempio è dato dalla distinzione operata da Posner tra un sistema attenzionale anteriore e posteriore, con funzioni e basi anatomiche differenti. Mentre il sistema posteriore è localizzato nella corteccia parietale e si occupa dell’orientamento dell’attenzione, quello anteriore si identifica con quella che Posner chiama attenzione focale o cosciente. Quest’ultimo, localizzato nella corteccia prefrontale e nel giro cingolato anteriore, sarebbe principalmente implicato nel processo di selezione e rilevameno degli stimoli, permettendo così agli stimoli di essere elaborati coscientemente, e al soggetto di poter interagire in modo efficace con il mondo esterno.

Il sistema attenzionale anteriore sembrerebbe così avvicinarsi al concetto di attenzione

top-down, mentre un terzo sistema è dedicato a mantenere lo stato di vigilanza e di

allerta, in cui sono gli stimoli di maggiore rilevanza a richiamare l’attenzione.

L’impostazione cronologica di questo lavoro ha permesso di visualizzare i temi e le problematiche ricorrenti, come anche l’evoluzione delle tecniche sperimentative e dei paradigmi utilizzati. Tuttavia, l’intento principale del mio lavoro consisteva nell’individuare ed esaminare le caratteristiche e le componenti dei processi attentivi. Ciò al fine di ottenere gli strumenti critici per comprendere che cosa si intende quando si parla in modo generico di attenzione, se ci riferiamo ai processi di selezione o di ricerca di tipo top-down, all’essere orientati verso una determinata porzione di spazio o se il termine attenzione debba essere interpretato come un livello di vigilanza o dello stato di veglia, in cui sono gli stimoli più salienti ad essere percepiti in modo bottom-up. Questo tipo di indagine è stata condotta prendendo in esame le teorie e le ricerche sui diversi aspetti dei processi attentivi che ho ritenuto essere più significative assieme alla descrizione dei test elaborati, delle tecniche e dei dati sperimentali.

Alla luce delle conoscenze acquisite, è stato possibile per me riaffrontare lo studio e la comprensione delle teorie che sono state esposte nel secondo capitolo con una consapevolezza maggiore, soprattutto per quanto riguarda l’ipotesi del livello intermedio di Prinz, che affida un ruolo centrale all’intervento dell’attenzione e, quindi, si collega a molti temi trattati nel primo capitolo. Nella teoria di Prinz, infatti, la domanda e l’intento principale consistono non tanto nello stabilire ciò che definisce uno stato mentale cosciente, ma piuttosto individuare ciò che permette o impedisce alle percezioni di diventare coscienti. Dato che, come abbiamo visto, il fattore discriminante

si identifica, secondo Prinz, nel fatto che l’attenzione intervenga ad un determinato stadio del processo percettivo, ponendola così come condizione necessaria per l’emergere della coscienza, la questione dell’influenza delle percezioni inconsce sul comportamento ed il fenomeno dell’inattentional blindness risultano importanti per l’autore.

Inoltre, la teoria di Prinz sostiene che la coscienza emerge quando le rappresentazioni percettive del livello intermedio diventano accessibili alla memoria di lavoro. È proprio sul concetto di accessibilità che Prinz fa leva per mostrare le differenze tra la sua teoria e quella dello spazio di lavoro globale di Baars e Dehaene. Quest'ultime, infatti, piuttosto che basarsi sul concetto di disponibilità (availability) alla memoria di lavoro, parlano di codificazione nella memoria di lavoro. Secondo Prinz invece, gli stati coscienti non vengono necessariamente trasmessi alla memoria di lavoro. Un'evidenza a sostegno di questa ipotesi consiste nell'osservazione, basata su numerosi esperimenti, che le rappresentazioni codificate dalla memoria di lavoro sono astratte a livello semantico, non possiedono quella specificità sensoriale fenomenica tipica delle rappresentazioni di cui siamo coscienti.

Sebbene la teoria di Prinz sia una teoria filosofica, non affiancata dall’elaborazione di un esperimento che ne testi le ipotesi, essa si propone di risolvere alcuni degli interrogativi che ho descritto nel primo capitolo: ad esempio, che alcuni pazienti affetti dalla sindome del neglect abbiano delle percezioni che rimangono inconsce dipenderebbe dal fatto che essa è un disturbo dell’attenzione; oppure, che i soggetti degli esperimenti di Simons e Chabris non si accorgessero di uno stimolo inaspettato mentre erano concentrati su un compito dimostrerebbe la necessità dei

processi attentivi. Diversamente, la teoria di Koch non stabilisce una relazione così stretta tra i due fenomeni, ma in entrambi i casi lo studio e l’approfondimento dei processi attentivi comporta una maggiore comprensione della coscienza e dei suoi meccanismi neurali.

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