• Non ci sono risultati.

La ricerca cognitivista sull'attenzione e il revival della coscienza

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La ricerca cognitivista sull'attenzione e il revival della coscienza"

Copied!
149
0
0

Testo completo

(1)

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN FILOSOFIA E FORME DEL

SAPERE

Tesi di laurea

La ricerca cognitivista sull’attenzione

e il revival della coscienza.

CANDITATA: Giuliani Beatrice

RELATORE: Prof.ssa Elena Calamari

CORRELATORE: Prof. Mario Pirchio

(2)

Indice

INTRODUZIONE...4

1 L’ATTENZIONE COME PROCESSO COGNITIVO...17

1.1 LA PERCEZIONE INCONSCIA E IL NEW LOOK ON PERCEPTION...17

1.2 MODELLI DI ATTENZIONE SELETTIVA: SELEZIONE PRECOCE O TARDIVA?...22

1.3 IL PARADIGMA DI SPERLING...37

1.4 LO STROOP TEST E L’INTERFERENZA TRA COMPITI...41

1.5 ATTENZIONE E MEMORIA...51

1.6 IL PARADIGMA DELLA RICERCA VISIVA...68

1.7 CECITÀ ATTENZIONALE E AL CAMBIAMENTO...82

1.8 L’ATTENZIONE SPAZIALE SECONDO POSNER...94

2 LA RELAZIONE TRA ATTENZIONE E COSCIENZA...101

2.1 LA NEUROPSICOLOGIA DELL’ATTENZIONE...101

2.2 LA PROBLEMATICITÀ DEI QUALIA...116

2.3 LA TEORIA DELLO SPAZIO DI LAVORO GLOBALE...121

2.4 LA TEORIA NEUROBIOLOGICA DELLA COSCIENZA DI KOCH...128

2.5 IL DARWINISMO NEURALE...132

2.6 LA TEORIA DEL LIVELLO INTERMEDIO...135

CONCLUSIONE...138

(3)
(4)

INTRODUZIONE

Sebbene questa tesi sia incentrata maggiormente sul concetto di attenzione, i miei interessi iniziali erano indirizzati allo studio della coscienza e, quindi, anche le mie letture vertevano principalmente su questo argomento. Dopo aver passato in rassegna alcuni testi che esponevano diverse teorie della coscienza, mi sono imbattuta nell’articolo di un filosofo della mente, Jesse Prinz1, il quale sosteneva la necessità che l’attenzione si attivi durante un certo stadio dell’elaborazione degli stimoli affinché questi ultimi emergano nella coscienza. È stata questa lettura, insieme a molte altre che discuterò soprattutto nel secondo capitolo, a suscitare in me l’interesse ad approfondire la questione del rapporto tra l’attenzione e la coscienza. In quel momento del concetto di attenzione avevo una conoscenza limitata all’ambito del senso comune e, nell’articolo di Prinz, non veniva spiegato chiaramente a quali tipi di processi si facesse riferimento parlando di attenzione, anche se l’autore si presenta come sostenitore di una filosofia “empirically informed”. Con la mia relatrice decidemmo così che era opportuno approfondire l’argomento dei processi attentivi, che sarebbe poi stato utile per affrontare in modo maggiormente critico le varie teorie filosofiche e neuroscientifiche che pongono l’attenzione in stretto collegamento con la coscienza.

Nella storia del pensiero occidentale l’attenzione non è quasi mai stata considerata come una funzione cognitiva autonoma ed indipendente che, quindi, meritasse una trattazione specifica nei vari sistemi filosofici. Essa era per lo più pensata come un accessorio di altri processi cognitivi come la coscienza o l’apprendimento. Nelle

1 Prinz, J. (2011) Is attention necessary and sufficient for consciousness? In Mole, C., Smithies, D., Wu, W. (eds.), Attention: Philosophical and Psychological Essays, Oxford: Oxford University Press, pp. 174-204.

(5)

«Meditazioni metafisiche»2, ad esempio, Cartesio le attribuisce un valore epistemologico, sostenendo che non possiamo dubitare delle idee chiare e distinte quando vi è rivolta la nostra attenzione . Il filosofo, infatti, scrisse che: «[…] mentre noi siamo attenti a qualche verità, che concepiamo con tutta chiarezza, non ne possiamo allora in nessun modo dubitare»3. Nonostante sia stata per secoli dimenticata dal dibattito filosofico, l’attenzione ha spesso ricevuto un interesse particolare nell’ambito della psicologia sperimentale e, in modo particolare a partire dal 1950, iniziarono ad esserne elaborati i primi modelli teorici.

Tuttavia, una prima trattazione estesa dei processi attentivi compare in «The

Principles of Psychology4» di William James , il quale dedica all’argomento un intero

capitolo in cui viene presentata la sua famosa definizione dell’attenzione: «Every one knows what attention is. It is the taking possession by the mind, in clear and vivid form, of one out of what seem several simultaneously possible objects or trains of thought. Focalization, concentration of consciousness are of its essence. It implies withdrawal from some things in order to deal effectively with others...»5. Questa definizione privilegia l’attività mentale del soggetto. Come scrive James, il termine «attenzione» è raramente comparso negli scritti degli studiosi precedenti, e l’autore si riferisce in modo particolare agli empiristi inglesi come David Hume e John Locke, per un motivo molto semplice: «These writers are bent on showing how the higher faculties of the mind are pure products of “experience”; and experience is supposed to be of something simply

2 Cartesio, R. Opere filosofiche. Vol. 2. Meditazioni metafisiche – Obiezioni e risposte, a cura di E. Garin, Roma – Bari: Laterza; 2009.

3 Ivi, p. 432.

4 James, W. (1890) The Principles of Psychology, New York: Holt. 5 Ivi, pp. 403-404.

(6)

given»6. James contesta qui l’opinione diffusa, tra i filosofi, che il mondo esterno, per il semplice fatto di essere presente e alla portata dei sensi, potesse esistere anche all’interno della nostra mente cosciente; per tale motivo l’attenzione risultava una capacità cognitiva non particolarmente importante. In realtà, sostiene James, la maggioranza degli stimoli che si presentano ai sensi non entrano a far parte della nostra esperienza del mondo esterno, e questo perché l’esperienza dipende fondamentalmente da ciò a cui noi prestiamo attenzione.

Il concetto di attenzione comprende almeno due accezioni generali: da una parte, racchiude quei processi che producono nell’individuo uno stato di allerta e vigilanza (arousal); dall’altra, l’attenzione è una funzione cognitiva che permette di selezionare degli stimoli esterni o interni affinché possano raggiungere ed essere elaborati nel pensiero cosciente. Pensando in termini evolutivi, la prima accezione appare più vicina alla funzione di adattamento per la sopravvivenza in un ambiente naturale dove occorre evitare i pericoli esterni e cogliere immediatamente le opportunità offerte, spesso in competizione con altre specie animali. La seconda, di cui mi occuperò maggiormente, corrisponde piuttosto alle esigenze di adattamento culturale in un ambiente complesso costruito dall’uomo, dove ci sia il tempo per scegliere razionalmente e ciò possa risultare vantaggioso.

Tale capacità si sarebbe sviluppata perché non è possibile per l’individuo avere sempre presente nella coscienza ogni cosa che lo circonda, dato che siamo continuamente sottoposti a migliaia di stimoli differenti; di conseguenza, risulta più efficace avere la possibilità di selezionare in ogni momento la porzione di realtà che ci

(7)

interessa. Questo processo cognitivo opera, naturalmente, sulla base della rilevanza che gli stimoli hanno per il soggetto sia direttamente che indirettamente, e questo ci porta alla distinzione tra attenzione involontaria (bottom-up) e volontaria (top-down). Spesso, infatti, quando si parla di attenzione selettiva, ci riferiamo alla capacità di orientarsi verso un determinato oggetto e compito, escludendo tutto ciò che non è importante in quel momento, anche se quell’oggetto non è di per sé rilevante, ma lo è indirettamente per gli scopi individuali. Tuttavia, per essere realmente utile, tale funzione deve essere integrata con la capacità di mantenere la sensibilità per cogliere prontamente ciò verso cui non siamo concentrati, così che eventuali stimoli particolarmente importanti e salienti possano catturare la nostra attenzione in situazioni di urgenza.

Poiché i vari aspetti e significati dell’attenzione sono stati oggetto della ricerca sperimentale della psicologia generale a partire dal secondo dopoguerra, l’intento della mia tesi è diventato quello di delineare una storia delle tappe più importanti dello studio dell’attenzione a partire dalla rivoluzione cognitiva fino agli anni ‘80 e ‘90, in cui si sono affermate le ricerche in ambito neuroscientifico. A questo scopo si possono individuare tre fasi nella ricerca sull’attenzione: dagli anni '50 fino agli anni '60 essa sarebbe principalmente indirizzata verso lo studio delle capacità di elaborazione degli stimoli percettivi e dei loro limiti; mentre, negli anni '70 e '80, la ricerca verterebbe principalmente sugli aspetti cognitivi dell’attenzione, con un interesse particolare verso i processi automatici e volontari. A partire dal 1980 fino ad oggi, invece, si è affermata la tendenza a collegare i processi attentivi con i relativi substrati neurali e, quindi, lo studio dell’attenzione nell’ambito delle neuroscienze cognitive. In quest’ultimo contesto si è rinnovato anche l’interesse nei confronti della coscienza e del suo stretto rapporto

(8)

con l’attenzione.

Questa tesi si propone di fornire un quadro il più completo possibile dei processi attentivi, approfondendo sia la parte sperimentale che quella teorica. Il primo capitolo è suddiviso tematicamente in paragrafi che sono stati impostati seguendo una logica quanto più possibile cronologica. Esamineremo, quindi, alcuni dei più importanti esperimenti, e delle tecniche in essi utilizzate, che sono stati condotti per testare i limiti e le potenzialità dell’attenzione. Questo aspetto sarà integrato dalle varie formulazioni teoriche riguardanti sia le caratteristiche specifiche dell’attenzione, sia il rapporto con altri processi cognitivi come la percezione, la memoria e la coscienza. Ho inoltre esaminato la ricerca su uno dei più importanti disturbi neuropsicologici legati all’attenzione, ossia il neglect, che ci permetterà di affrontare anche la questione del contributo fornito da questo settore per la comprensione dei processi cerebrali.

Il primo capitolo è volto a delineare una storia delle ricerche sull’attenzione a partire dalla metà del '900; mi soffermerò sulle tappe a mio parere più importanti che hanno segnato lo studio di questa funzione cognitiva, definendone le caratteristiche e i modi di operare, ma anche sollevando problematiche e interrogativi. Sono gli anni della rivoluzione cognitiva e mentalistica il punto di partenza della mia tesi: il paradigma comportamentista, per cui la psicologia poteva essere considerata una scienza oggettiva solo prendendo in esame il comportamento e relegando gli stati mentali a semplici prodotti dell’apprendimento, cominciava a mostrare le sue debolezze. Il paradigma cognitivista, invece, pur volendo mantenere il rigore scientifico del comportamentismo, asseriva la necessità di includere i processi mentali all’interno dell’indagine psicologica, attribuendo ad essi maggiore autonomia e influenza: sebbene si ritenesse sempre

(9)

fondata sui processi neurobiologici, la mente veniva adesso associata ad un elaboratore di informazioni e agli stati mentali, soggettivi e coscienti, si attribuiva una larga influenza sul comportamento. La comprensione dei processi cognitivi, quindi, assumeva la rilevanza che era stata loro negata dal riduzionismo:

[…] the cognitive revolution represents a diametric turn around in the centuries old-treatment of mind and consciousness in science. The contents of conscious experience, with their subjective qualities, long banned as being mere acausal epiphenomena or as just identical to brain activity or otherwise in conflict with the laws of the conservation of energy, have now made a dramatic comeback. Reconceived in the new outlook, subjective mental states become functionally interactive and essential for a full explanation of conscious behaviour. […] It is important to stress, however, that the cognitive changeover from behaviorism to the new mentalism does not carry all the way from one previous extreme to the opposite, that is, to a mentalistic dualism7.

In particolar modo, i temi che ho cercato di evidenziare in questo capitolo sono la selettività che caratterizza l’attenzione ed il rapporto di quest’ultima con le percezioni inconsce: il concetto stesso di selezione, infatti, implica un’elaborazione precedente e, dato che è l’attenzione a garantire l’accesso alla coscienza, un’elaborazione inconsapevole. Verranno, quindi, presi in considerazione i principali modelli di attenzione selettiva sviluppati a partire dagli anni '50, in primo luogo la teoria del filtro di Donald Broadbent, che concepiva l’attenzione come un meccanismo di filtraggio

7 Sperry, R.W. (1993) The impact and promise of the cognitive revolution, American Psychologist, 48(8), pp. 878-885; cit. p. 879.

(10)

degli stimoli operante all’interno del processo percettivo, necessario affinché non si verifichi un sovraccarico delle informazioni. Il modello di Broadbent ebbe molto successo e fu ripreso e modificato da altri studiosi come Anne Treisman, Diana Deutsch e J. Anthony Deutsch: uno dei punti di disaccordo era, infatti, se il filtro dovesse essere posizionato in una fase iniziale, ossia sensoriale (early selection model), o finale (late

selection model) dell’elaborazione degli stimoli.

Nel mio iniziale approccio al concetto di attenzione ho incontrato alcune difficoltà per la mancanza di letteratura a impostazione storiografica che mi aiutasse a individuare i nessi tra i diversi filoni di ricerca sperimentale, che si presentano come separati. I contributi psicologici sull’attenzione più accessibili in italiano, infatti, sono di stampo manualistico o a carattere generale, se non proprio divulgativo8. Ho adottato allora un approccio dal basso in alto, di lettura di prima mano, in lingua originale, degli articoli più citati, tra i quali ho dovuto comunque operare una scelta. Non immaginavo il vastissimo numero e, soprattutto, la specificità degli esperimenti e degli articoli sull’attenzione pubblicati negli ultimi settant’anni. Quasi tutti gli esperimenti di cui ho parlato nel primo capitolo, infatti, mirano ad isolare e testare una singola funzione o operazione compiuta dall’attenzione mediante compiti sperimentali costruiti ad hoc. Oltre alla tradizionale misurazione dei tempi di reazione, ripresa ampiamente in ambito cognitivista, i metodi di ricerca sull’attenzione ricorrono spesso a condizioni sperimentali artificiose che non trovano riscontro nella vita quotidiana.

Questo carattere artificioso fu al centro della critica avanzata da Ulrich Neisser

8 Tra questi, cito: Stablum, F. (2002) L’attenzione, Bologna: Il Mulino; Legrenzi, P., Umiltà, C. (2016)

Una cosa alla volta. Le regole dell'attenzione, Bologna: Il Mulino; Dell’Acqua, R., Turatto, M.

(11)

alla nuova psicologia cognitiva. Essa faceva riferimento alla teoria dello psicologo James Gibson9 sull’«approccio ecologico» nella percezione visiva. Gibson riteneva che la percezione umana non si fondasse sull’elaborazione degli stimoli in base a schemi interni al percipiente ma che, piuttosto, fosse l’ambiente esterno a contenere le informazioni che l’individuo deve semplicemente accogliere. In questo senso, l’ambiente naturale in cui l’essere umano agisce è fondamentale per comprenderne il comportamento. Applicato all’insoddisfazione da parte di Neisser nei confronti della nuova psicologia, questo concetto si traduce nella necessità di studiare i processi cognitivi in una cornice più realistica e lontana dall’artificiosità del laboratorio.

Il tema dell’attenzione possiede una particolare vocazione applicativa. Infatti, nella sua accezione comune il termine rimanda a compiti scolastici e lavorativi ripetitivi in cui occorre tenere desto il controllo cosciente su aspetti specifici dell’ambiente esterno o dell’azione propria, evitando la distrazione anche per periodi di tempo prolungati. Un tempo i bravi scolari erano abituati a seguire la voce dell’insegnante durante lunghe spiegazioni orali mentre oggi, per quanto la didattica faccia uso di stimoli visivi attraenti, sono sempre più diffusi nei bambini problemi di attenzione. Per quanto riguarda gli adulti, già esistevano, ben prima della ricerca cognitivista e dell’invecchiamento della popolazione, test di attenzione capaci di valutare le capacità individuali di cogliere segnali rari in un contesto omogeneo (come una zona celeste in un osservatorio astronomico o uno schermo radar) o di attitudine ai lavori d’ufficio (come mettere in ordine alfabetico del materiale o individuare errori formali in un testo). Queste abilità chiamano in causa la cosiddetta attenzione sostenuta, cioè il

(12)

mantenimento nel tempo della concentrazione dell’attenzione, ossia la focalizzazione al centro del campo visivo che permette di evidenziare i dettagli dello stimolo.

Dunque, oltre all’aspetto del filtraggio delle informazioni, ossia alla capacità di concentrarsi su un solo compito ignorando gli stimoli disturbanti, altri aspetti dell’attenzione saranno esaminati in specifici paragrafi. Ad esempio, uno degli aspetti più importanti dell’attenzione è l’orientamento, che consiste nel rivolgere i nostri organi sensoriali verso il luogo da cui proviene lo stimolo. Uno degli psicologi che si è maggiormente occupato dell’orientamento è Michael Posner, autore del cosiddetto paradigma dell’orientamento visivo con esperimenti volti a verificare l’ipotesi per cui essere orientati verso la posizione in cui si trova il target aumenta la velocità e la facilità con cui esso viene rilevato. Nel sesto paragrafo, invece, ho esposto il paradigma della ricerca visiva, ideato da Treisman e Gelade per indagare le modalità con cui avviene la ricerca e l’identificazione di un target in mezzo a una serie di stimoli distrattori. Da tali esperimenti emersero due tipologie di ricerca visiva: una di tipo intenzionale, in cui gli stimoli venivano scansionati serialmente sulla base della posizione che occupavano sul display, ed una che non necessitava della direzione da parte dell’attenzione e che si affidava alla capacità del target di emergere rispetto agli altri stimoli (pop-out).

Uno dei paragrafi del primo capitolo è stato dedicato, inoltre, ad approfondire la relazione tra memoria e attenzione e, in particolare, il ruolo che è stato attribuito a quest’ultima nei più importanti sistemi mnemonici. Oltre allo stretto rapporto tra attenzione e apprendimento, già segnalato da William James10, c’è un altro aspetto che

10 James, W. The Principles of Psychology, «Whatever may be the kind of attention, voluntary or involuntary, it always acts alike: the image of an object or event is capable of revival, and of complete revival, in proportion to the degree of attention with which we have considered the object or event. We put this rule in practice at every moment in ordinary life»; cit. p. 671.

(13)

collega i due processi cognitivi. Infatti, con il diffondersi della concezione per cui la memoria non doveva essere pensata come semplice magazzino delle informazioni, ma anche come memoria di lavoro, ossia come una struttura in cui le informazioni immagazzinate vengono utilizzate ai fini del ragionamento e della pianificazione, divenne necessario associare a questo “esecutivo centrale” i meccanismi attenzionali. L’attenzione, infatti, è ciò che permette al soggetto di operare una selezione anche durante il processo di recupero delle informazioni immagazzinate nella memoria, e tale capacità risulta fondamentale quando bisogna elaborare degli schemi d’azione per situazioni nuove o complesse.

Come ho accennato, l’attenzione è stata spesso accumunata alla coscienza, per lo più nel senso che non sarebbe possibile essere coscienti di qualcosa senza avervi prima prestato attenzione, e nel senso che il solo prestare attenzione garantirebbe l’accesso alla coscienza. Sebbene alcuni studi abbiano confutato l’ipotesi che l’attenzione sia condizione necessaria e sufficiente per l’emergere della coscienza, l’attribuzione all’attenzione del ruolo di “cancello” per la coscienza è essenziale. Ad esempio, esaminando la teoria neurobiologica della coscienza di Christof Koch, vedremo che egli ha più volte sostenuto la necessità di separare i concetti di attenzione e di coscienza, in quanto si tratterebbe di processi cerebrali differenti, con basi neurali e occorrenze diverse. Detto questo, la relazione tra queste due funzioni cognitive rimane molto stretta e, quindi, nessuna teoria contemporanea della coscienza può prescindere dalla trattazione dei meccanismi attenzionali.

Nel secondo capitolo, dunque, vorrei analizzare alcune teorie, sorte sia nell’ambito filosofico sia in quello delle scienze cognitive, riguardo al ruolo e alla

(14)

funzione dell’attenzione in relazione alla coscienza. Per introdurre questo argomento, esporrò brevemente alcune problematiche che sono generalmente collegate al tema della coscienza e che definiscono, quindi, l’approccio degli studiosi ad esso. Per questo scopo, si fa generalmente riferimento alla distinzione operata dal filosofo David Chalmers11 tra i problemi facili relativi alla coscienza ed il cosiddetto hard problem. I problemi facili sono quelli riguardanti le spiegazioni delle funzioni cognitive quali, ad esempio, il linguaggio, la capacità di integrare dati sensoriali differenti, l'immagazzinamento delle informazioni. Il termine «facile» fa riferimento al carattere oggettivo di tali funzioni e, quindi, al fatto che possono essere adeguatamente indagate e spiegate dai modelli cognitivi e neurofisiologici attuali. Il problema difficile della coscienza si occupa, invece, del fatto che ad ogni funzione cognitiva e ad ogni stato cosciente è accompagnata l'esperienza soggettiva di quest'ultimo. È il carattere qualitativo che assume lo svolgimento di tali funzioni ad essere difficile da comprendere tenendo conto esclusivamente della base fisica e neuronale dei fenomeni mentali.

Il dibattito tra le diverse scuole di pensiero intorno al problema dei qualia fu molto acceso: i materialisti, infatti, negavano l’esistenza dei qualia come entità in sé poiché esse venivano cosiderate come l’esito di processi fisici; i dualisti, invece, miravano a dimostrare la realtà indipendente dai processi fisici e biologici dei qualia. Nonostante ciò, l’argomento rimase problematico e le principali teorie filosofiche e neurobiologiche evitarono di affrontarlo nelle loro trattazioni. Le teorie della coscienza che andrò ad esporre, infatti, si concentrano maggiormente sui cosiddetti problemi facili; in modo particolare andremo ad esaminare il ruolo svolto dall'attenzione nella

11 Chalmers, D.J. (1996) The conscious mind: in search of a fundamental theory, Oxford: Oxford University Press.

(15)

creazione di stati mentali coscienti. Già William James nei suoi «Principles of

Psychology» aveva posto l'accento sull'importanza dell'attenzione in quanto elemento

discriminante tra una percezione che raggiunge la consapevolezza ed una che rimane a livello inconscio. D'altronde, considerato l'elevato numero di input sensoriali a cui il nostro cervello è continuamente sottoposto, costituirebbe un vantaggio evolutivo la capacità di discriminare gli stimoli rilevanti da quelli che possono tranquillamente essere trascurati. Nel suo capitolo dedicato all’attenzione James descrive ciò che sarebbe la coscienza senza l’attenzione in questo modo:

Millions of items of the outward order are present to my senses which never properly enter into my experience. Why? Because they have no interest for me. My experience is what I agree to attend to. Only those items which I notice shape my mind – without selective interest, experience is an utter chaos. Interest alone gives accent and emphasis, light and shade, background and foreground – intelligible perspective, in a word. It varies in every creature, but without it the consciousness of every creature would be a gray chaotic indiscriminateness, impossible for us even to conceive12.

Il secondo capitolo ha come scopo, dunque, quello di mostrare come il carattere qualitativo degli stati mentali coscienti (qualia) abbia subito una certa rivalutazione con l’avvento del cognitivismo, grazie al quale la coscienza stessa è diventata, negli ultimi cinquant’anni, uno dei più interessanti oggetti di ricerca13. La mia tesi vuole contribuire

12 James, W. (1890) The Principles of Psychology, New York: Holt, cit. pp. 402-403.

13 «It is only in the past twenty years or so that the problem of consciousness recovered its status as a respectable empirical question in experimental psychology and neuroscience. A handful of philosophers (e.g. Churchland, 1986; Dennett, 1991), psychologists (e.g. Baars, 1989; Dehaene &

(16)

a evidenziare il ruolo che la ricerca cognitivista sull’attenzione ha svolto storicamente nel revival del tema della coscienza come oggetto di ricerca scientifica, dimostrando che una funzione prettamente mentale poteva essere oggettivata per studiarla sperimentalmente.

Questo mio lavoro si limita a un contributo preliminare a carattere storico che si concentra soprattutto sulle prime fasi della ricerca psicologica sull’attenzione, per farne emergere il quadro concettuale. La prospettiva ulteriore consiste nell’ipotesi, tutta da dimostrare, che le sottili distinzioni e l’accurata operazionalizzazione delle componenti dell’attenzione possano contribuire al tentativo in corso da parte delle neuroscienze cognitive di evidenziare empiricamente, con nuove metodologie, anche i correlati neurali della coscienza.

Naccache, 2001), neuropsychologists (e.g. Weiskrantz, 1986) and neuroscientists (e.g. Crick & Koch, 1990; Logothetis, Leopold, & Sheinberg, 1996) argued that consciousness was, first and foremost, a well-defined experimental problem», da Dehaene, S. (2013) The brain mechanisms of conscious access and introspection, Neurosciences and the Human Person: New Perspectives on Human

(17)

1 L’ATTENZIONE COME PROCESSO COGNITIVO

1.1 LA PERCEZIONE INCONSCIA E IL NEW LOOK ON PERCEPTION

L'ipotesi per cui l'attenzione volontaria cosciente non costituirebbe un elemento necessario affinché i processori sensoriali elaborino le informazioni, seppure a livello inconscio, iniziò ad essere ampiamente testata a partire dagli anni '50. Già qualche anno prima era stata proposta, per spiegare alcuni risultati sperimentali assai controversi, la teoria della difesa percettiva14. Senza entrare nel merito delle polemiche che contribuirono alla successiva riammissione come oggetto di ricerca empirica del cosiddetto “inconscio cognitivo”, per gli scopi di questo lavoro è interessante un esperimento del 1948 di Leo Postman, Jerome Bruner e E. McGinnies, pubblicato nell’articolo intitolato «Personal values as selective factors in perception»15, il cui

intento era quello di mostrare che l'attenzione non è l'unico fattore operante all'interno della selezione percettiva; anche i valori appartenenti ai soggetti influiscono sui risultati del test.

L'esperimento fu condotto su 25 soggetti; a ciascuno di essi vennero presentate, tramite un tachistoscopio (uno strumento che permette la presentazione di immagini per un brevissimo tempo), una per volta, 36 parole volte a rappresentare sei tipologie di valori differenti: teorico, economico, religioso, politico, estetico e sociale. Lo scopo dell’esperimento consisteva nel mettere in relazione il profilo dei valori, valutati come importanti per ciascun soggetto mediante un test apposito, con il tempo impiegato dal

14 Calamari, E. (2018) Jerome Bruner. Cent’anni di psicologia, Pisa: ETS.

15 Postman, L., Bruner, J.S., McGinnies, E. (1948) Personal values as selective factors in perception,

(18)

soggetto stesso nel riconoscere le parole presentate al tachistoscopio. I risultati indicarono che, in linea generale, ad una parola con un valore elevato per il soggetto corrispondeva un tempo di riconoscimento minore rispetto a quello necessario per individuare le altre parole. Gli autori, dunque, giunsero alla conclusione che i valori di un individuo, insieme alla sua impostazione culturale, influiscono sulla percezione dell'ambiente circostante: «Statistical analysis shows that value acts as a sensitizer, lowers the perceptual threshold»16.

Dunque, i valori agirebbero in modo tale da renderci più facile la ricezione di stimoli con cui abbiamo familiarità o che ci interessano maggiormente. Questa non è, tuttavia, l'unica modalità con cui i valori agiscono sui processi percettivi; il rovescio della medaglia consiste nella loro capacità di mettere in atto un meccanismo, definito di “difesa percettiva”, che permette al soggetto di bloccare, o percepire con maggiore difficoltà, gli stimoli ritenuti offensivi: «Value orientation acts as a sensitizer, lowering thresholds for acceptable stimulus objects. Let us call this mechanism selective

sensitization. Value orientation may, on the other hand, raise thresholds for unacceptable

stimulus objects. We shall refer to this mechanism as perceptual defense»17. Le prove a

sostegno dell'ipotesi sull'esistenza di un meccanismo di difesa percettiva consisterebbero sia nel ritardo con cui i soggetti, nell'esperimento descritto precedentemente, individuavano le parole con uno scarso valore, sia dalla tendenza dei soggetti a non attribuire a quest'ultime un significato (alcuni soggetti, a tempi di esposizione bassi, riportarono di vedervi parole senza senso) o ad evocare termini dal significato contrario. Dall'altra parte, fu rilevato che parole con un valore elevato

16 Ivi, p. 148. 17 Ivi, pp. 151-152.

(19)

suggerivano ipotesi affini dal punto di vista semantico:

Easter (Pasqua) suggeriva l'ipotesi Sacred (sacra) a un soggetto religioso. Le

parole a più basso valore sembravano però suggerire più spesso ipotesi antonimiche o “controvalenti”: Helpful (disponibile) evocava Scornful (sprezzante), Blessed (benedetto) richiamava Revenge (vendetta). Dal punto di vista statistico non era possibile negare la possibilità che un qualche “significato” si facesse largo prima che il soggetto riuscisse a “vedere” ciò che gli stava di fronte18.

L'aspetto che ci interessa maggiormente di questo esperimento è, infatti, la loro ipotesi che la difesa percettiva opererebbe grazie a un meccanismo inconscio volto ad elaborare e valutare le parole, anche sotto l'aspetto semantico, prima che queste possano essere riconosciute a livello cosciente. Tale meccanismo permetterebbe al soggetto di identificare le parole “pericolose” prima di esserne consapevole, così da poter ritardare o bloccare il loro riconoscimento. Come vedremo successivamente, l'idea che esista un sistema di elaborazione precedente o parallelo alla percezione consapevole, verrà ampiamente discussa a partire dalla seconda metà degli anni '50, in modo particolare grazie ai risultati ottenuti dagli esperimenti tramite l’ascolto dicotico19. In modo particolare, il dibattito avrebbe riguardato, come nell’esperimento appena citato, la possibilità di processare a livello inconscio anche il significato degli stimoli sensoriali.

18 Bruner, J.S. (1983) Alla ricerca della mente.Autobiografia intellettuale, Roma: Armando editore; 1984, cit. p. 94.

19 La questione dell’elaborazione inconscia degli stimoli verrà trattata anche in altri settori di indagine, soprattutto in quello sulla memoria. Infatti, la possibilità di processare e richiamare alla mente alcuni stimoli a cui non abbiamo prestato attenzione, implica che quest’ultima non sia necessaria per l’immagazzinamento delle informazioni nella memoria. Ciò è dimostrato anche dall’apprendimento incidentale in cui alcuni dati vengono memorizzati senza la consapevolezza o l’intenzione da parte del soggetto.

(20)

L'esperimento di Bruner, Postman e McGinnies si inseriva all'interno del movimento, sviluppatosi nel secondo dopoguerra, del New Look on Perception; tale movimento si opponeva alle teorie di stampo comportamentista ed oggettivista che consideravano il processo percettivo esclusivamente dal punto di vista dello stimolo senza fare appello alla mente o ai processi attentivi, ossia a concetti che fanno parte dell'ambito della “soggettività” e che non erano, quindi, ritenuti indagabili in una prospettiva scientifica. Tra gli assunti fondamentali del New Look, invece, vi era l'attribuzione di un ruolo attivo alla mente all'interno del processo percettivo: le conoscenze, i valori e i desideri del soggetto svolgono una funzione di categorizzazione del mondo esterno e di selezione degli stimoli sensoriali. Nella sua autobiografia, Bruner sintetizza in questo modo l'idea che sta alla base della nuova teoria della percezione come conferma di ipotesi tratte dall’intera personalità del percipiente:

[...] non eravamo mai indifferenti, ma sempre in sintonia, più pronti nei confronti di certi eventi anziché di altri. Si trattava di un primo passo: essere sintonizzati da un'ipotesi. Il secondo passo era quello di trarre informazioni dal mondo esterno, informazioni che potevano uniformarsi o non uniformarsi all'ipotesi. Nel primo caso l'ipotesi risultava confermata e si riusciva a vedere; nel secondo era necessario operare un intervento correttivo. Le ipotesi operative continuavano fino al momento in cui si riusciva ad ottenere una soddisfacente uniformità con le informazioni. In sostanza, il mondo era per noi fonte non tanto di

sensazioni quanto di alimento per le nostre ipotesi»20.

(21)

Sulla scia delle considerazioni emerse, nel 1949 McGinnies pubblicò un studio, intitolato «Emotionality and Perceptual Defense21», in cui tale concezione dell’attività

percettiva veniva ulteriormente messa alla prova in un esperimento che prevedeva la registrazione della risposta galvanica della pelle (Galvanic Skin Response-GSR), ossia il cambiamento delle proprietà elettriche della cute conseguente a reazioni emotive, come stress e ansia, o attività fisica. McGinnies sosteneva, infatti, che, se è vero che degli stimoli minacciosi sono in grado di far innalzare la soglia necessaria per il loro riconoscimento prima che il soggetto riesca ad identificare coscientemente lo stimolo in questione, allora dovrebbe essere possibile riportare un cambiamento nella riposta galvanica della pelle come conseguenza della reazione di stress o ansia provocata dall'elaborazione inconscia dell'input. L'esperimento prevedeva, dunque, la presentazione ai soggetti, tramite tachistoscopio, di undici parole dal valore neutro e sette parole spesso collegate ad una reazione emozionale (ad esempio raped, whore e

bitch); inoltre, grazie all'applicazione di elettrodi, si procedeva a registrare la GSR in un

intervallo di tempo precedente al riconoscimento della parola da parte del soggetto. I risultati mostrarono chiaramente l'esistenza di una relazione significativa tra la GSR ed il significato della parola ansiogena, rilevando, in tal modo, la presenza di una reazione emotiva precedente all'individuazione della parola mostrata, oltre all’impiego di un intervallo di tempo maggiore per riconoscere le parole connotate emozionalmente. Il meccanismo della difesa percettiva sarebbe, secondo McGinnies, un espediente utilizzato dal soggetto volto a ritardare il più possibile il riconoscimento cosciente dello stimolo causante ansia. Possiamo notare, dunque, che lo scopo principale degli

21 McGinnies, E. (1949) Emotionality and perceptual defense, Psychological Review, 56(5), pp. 244-251.

(22)

esperimenti del movimento del New Look era quello di dimostrare l'influenza esercitata dai valori, dagli scopi e dalle condizioni culturali dell'individuo sul processo percettivo, e, più generalmente, evidenziare il ruolo attivo ed interattivo della mente con l'ambiente circostante: essa non si limita a ricevere passivamente gli stimoli sensoriali, configurandosi come mero specchio della realtà. Un'altra intuizione che iniziò a farsi largo, sebbene rimanesse in secondo piano in questa prima fase del dibattito teorico, era l'idea che sia possibile ottenere un'elaborazione profonda e, quindi, anche semantica degli stimoli sensoriali senza la necessità dell'intervento della coscienza.

1.2 MODELLI DI ATTENZIONE SELETTIVA: SELEZIONE PRECOCE O TARDIVA?

A partire dagli anni '50 fu inaugurata una serie di studi riguardanti il ruolo dell'attenzione nello svolgimento di un compito e la sua capacità selettiva all'interno del processo percettivo. I primi esperimenti in questo ambito riguardarono il cosiddetto effetto o problema del cocktail party, espressione coniata da Colin Cherry nel 195322 per indicare il fenomeno per cui, mentre stiamo intrattenendo una conversazione con qualcuno in una stanza piena di altre persone intente in altre conversazioni, possiamo ugualmente accorgerci se viene pronunciato il nostro nome da un altro gruppo di persone. Per indagare il fenomeno era, dunque, necessario produrre una situazione sperimentale in cui vi fosse sia uno stimolo su cui i soggetti dovevano focalizzare l'attenzione selettiva, separandolo da tutti gli altri, sia un altro stimolo secondario e non

22 Cherry, E.C. (1953) Some Experiments on the Recognition of Speech, with One and with Two Ears,

(23)

rilevante. Per questo motivo i test furono condotti utilizzando la tecnica dell'ascolto dicotico, che consiste nel presentare, tramite le cuffie, due stimoli acustici differenti all'orecchio sinistro e al destro. Ai soggetti veniva richiesto di separare i due messaggi ascoltati focalizzando l'attenzione soltanto su uno di essi. Gli esperimenti in questione, inaugurati da Cherry, sollevarono nuovamente la questione sulla possibilità che il messaggio a cui i soggetti non prestavano attenzione venisse elaborato anche a livello semantico. I risultati, tuttavia, mostrarono che i soggetti riuscivano ad identificare solo le caratteristiche “fisiche” di tale messaggio (ad esempio, il sesso dell'interlocutore o il tono di voce utilizzato), ignorando il significato delle parole a cui non avevano prestato attenzione23.

Da questi test, e da quelli che furono eseguiti successivamente, nacquero diverse teorie dell'attenzione selettiva; tra le più importanti citiamo il modello del filtro dello psicologo Donald Broadbent, sviluppato anch'esso tramite esperimenti con l'utilizzo dell'ascolto dicotico. La teoria di Broadbent si fonda sull'idea che tutti gli stimoli sensoriali a cui siamo sottoposti arrivano al cervello tramite gli organi di senso, ma solo alcuni di essi vengono selezionati ed immagazzinati in memoria; i rimanenti sono bloccati da un meccanismo funzionante come una sorta di “filtro”. Tale azione di filtraggio avrebbe il vantaggio di evitare un sovraccarico delle informazioni, facendo in modo che passino in secondo piano quelle a cui il soggetto non è interessato. Nel libro «Perception and Communication»24 del 1958, Broadbent espone chiaramente la sua

23 «The change of voice – male to female- was nearly always identified, while the 400-cps pure tone was always observed. The reversed speech was identified as having “something queer about it”, by a few listener, but was thought to be normal speech by others. The broad conclusions are that the “rejected” signal has certain statistical properties recognised, but that detailed aspects, such as the language, individual words or semantic contents are unnoticed», da Cherry, E.C., Some

Experiments…, cit. p. 977.

(24)

teoria del filtro facendo uso dell'analogia con un ricevitore radio, che deve far arrivare i segnali all'ascoltatore eliminando le possibili interferenze. Il ricevitore riesce a svolgere il proprio compito perché sa che le interferenze possiedono certe componenti di frequenza diverse da quelle dei segnali desiderati; dunque, nel momento in cui rileva tali componenti, provvede a scartare i segnali in questione. Inoltre aggiunge:

This analogy makes another point more noticeable: in one sense, the receiver “knows” something about the interference, namely that it possessed frequency components which were not desired. […] a listener who is repeating one series of words does know that another voice was on the other ear; and he can tell whether this voice was that of a man or a woman. […] each sound is first analysed for pitch, localization, or other similar qualities, and only sounds possessing certain qualities are passed on for further analysis25.

Dunque, secondo la teoria del filtro di Broadbent, gli stimoli vengono selezionati o bloccati sulla base di una prima elaborazione precoce volta ad individuarne le caratteristiche fisiche; l'aspetto semantico verrebbe, quindi, processato ad un livello successivo rispetto a tale operazione. Questo, tuttavia, contrasta con l'evidenza di alcuni casi, il più lampante dei quali si verifica quando viene inserito il nome del soggetto nel messaggio non controllato, che dimostrano una certa elaborazione del significato precedente alla fase di selezione, in quanto il soggetto sposta l'attenzione sul secondo messaggio non appena viene pronunciato il suo nome. Piuttosto che sulle caratteristiche fisiche, la selezione sembrerebbe basarsi sulla rilevanza dello stimolo dal punto di vista

(25)

del soggetto. Esperimenti in cui veniva utilizzato il nome del soggetto testato furono condotti dallo psicologo Neville Moray26, utilizzando sempre la tecnica dell'ascolto dicotico, e condussero alla conclusione che, essendo il proprio nome tra le poche parole in grado di emergere dal messaggio secondario, ciò che permette di superare il blocco del filtro selettivo è il valore e l'importanza della parola ascoltata. Lo stesso Moray, infine, evidenziò l'esistenza di una sorta di paradosso: «the “identification paradox”: that while apparently the verbal content of the rejected message is blocked below the level of conscious perception, nonetheless a subject can respond to his own name27».

I risultati dei test di Moray, oltre a quelli svolti da Cherry nel 1953, condussero la psicologa inglese Anne Treisman a formulare, all'inizio degli anni '60, il suo modello attenzionale dell'attenuazione, in alternativa a quello del filtro proposto da Broadbent. Cherry, infatti, aveva applicato delle varianti all'esperimento già citato; in una di queste, ad esempio, il messaggio considerato irrilevante dal soggetto era, in realtà, identico a quello a cui doveva prestare attenzione, ma presentato con un ritardo che veniva, poi, gradualmente diminuito; i risultati indicarono che i soggetti riuscivano a riconoscere l'identità dei due messaggi quando il ritardo con cui erano presentati oscillava tra i sei e i due secondi. Secondo Treisman28, vi sono due spiegazioni plausibili per un tale risultato: o, come avrebbe sostenuto Broadbent, il soggetto riconosce l'identità dei messaggi operando un confronto sulla base dei suoni delle parole e, quindi, delle loro caratteristiche fisiche; o, come ritiene Treisman, si ha una comparazione semantica. Il filtro, quindi, agirebbe attenuando, piuttosto che bloccando, i segnali che possiedono le

26 Moray, N. (1959) Attention in dichotic listening: affective cues and the influence of instruction, The

Quarterly Journal of Experimental Psychology, 11(1), pp. 56-60.

27 Ivi, p. 59.

28 Treisman, A. (1964) Monitoring and storage of irrelevant messages in selective attention, Journal of

(26)

caratteristiche fisiche non desiderate, permettendo, così, a questi ultimi di passare ad un secondo stadio dell'elaborazione, dedicato ad estrarre le proprietà astratte dello stimolo. Nonostante ciò, nella maggior parte dei casi gli stimoli in questione arrivano al secondo stadio troppo indeboliti per poter essere identificati; vi sono, tuttavia, eccezioni costituite dalle parole che hanno un basso valore di soglia, come quelle con un significato inerente al contesto o, come provato da Moray, parole rilevanti per il soggetto testato, come, ad esempio, il proprio nome. Treisman, nell'articolo del 1960 «Contextual cues in selective listening»29, espone così la sua ipotesi:

[…] one can suppose that in the “dictionary” or store of known words, some units or groups have permanently lower thresholds for activation, or are permanently more readily available than others: such might be “important” words, a person's own name, or perhaps danger signals (such as “look out” or “fire”).[...] if the selective mechanism in attention acts on all words not coming from one particular source by “attenuating” rather than blocking them, that is, it transforms them in such a way that they become less likely to activate dictionary units, it might still allow the above classes of words, with their thresholds which were originally exceptionally low, to be heard30.

Insieme ai modelli attenzionali di Broadbent e Treisman, anche il modello di Deutsch e Deutsch viene generalmente inserito tra le cosiddette teorie del collo di bottiglia, ossia le teorie che sostengono l'impossibilità di percepire coscientemente tutti

29 Treisman, A.M. (1960) Contextual Cues in Selective Listening, The Quarterly Journal of

Experimental Psychology, 12(4), pp. 242-248.

(27)

gli input sensoriali a cui siamo sottoposti e che, quindi, prevedono l'esistenza di una sorta di restringimento dell’ampiezza che costringe a una selezione. Tale modello venne esposto in un articolo pubblicato nel 1963 dal titolo «Attention: some theoretical

considerations»31 in cui si proponeva una teoria dell'attenzione selettiva distinta rispetto a quelle di Treisman e Broadbent in quanto posiziona il filtro selettivo ad uno stadio molto avanzato dell'elaborazione percettiva inconscia. Ciò implica che gli stimoli, secondo gli autori, vengono processati completamente, anche a livello semantico, prima di essere selezionati e raggiungere la coscienza.

Nell'articolo, infatti, si ipotizza che gli input sensoriali vengano elaborati e selezionati sulla base della loro pertinenza rispetto al contesto o della loro importanza per l'organismo. L'ipotesi sull'esistenza di un meccanismo selettivo complesso prende spunto da numerosi esperimenti, tra cui quello di Moray citato precedentemente, molti dei quali riguardanti il basso valore di soglia assunto dal nome del soggetto testato. L'idea che il filtro selettivo agisca ad uno stadio finale dell'elaborazione conduce gli autori alla conclusione che «a message will reach the same perceptual and discriminatory mechanisms whether attention is paid to it or not»32. Tale posizione limita, effettivamente, il ruolo dell'attenzione, in quanto implica che lo stimolo più rilevante viene sempre selezionato dall'individuo, sia che vi si stia ponendo attenzione o meno.

Il modello selettivo di Deutsch e Deutsch risulta essere compatibile anche con gli esperimenti condotti dallo psicologo Donald G. MacKay sul ruolo dell'attenzione e della memoria nell'ascolto e nella comprensione di una frase, pubblicati nel 1973 nell'articolo 31 Deutsch, J.A., Deutsch, D. (1963) Attention: some theoretical considerations, Psychological Review,

70, pp. 80-90. 32 Ivi, p. 83.

(28)

«Aspects of the theory of comprehension, memory and attention»33. Le ricerche di MacKay si propongono di indagare fino a che livello sia possibile comprendere una frase in condizioni di assenza di attenzione, e lo fanno basandosi sull'idea che l'elaborazione linguistica avvenga in due stadi differenti: uno nella memoria a breve termine (M1), ed uno in quella a lungo termine (M2). In M1 avviene un'analisi superficiale della frase, basata sul significato delle singole parole e sulle sue caratteristiche sintattiche e morfologiche; inoltre, essa può essere operata, secondo MacKay, sia per le parole catturate dall'attenzione, sia per quelle ignorate. Nella memoria a lungo termine, invece, avviene il processamento delle relazioni profonde e sottostanti tra i componenti della frase e, a differenza di M1, M2 esamina solo gli stimoli a cui si è prestato attenzione.

Una tale ipotesi comporta, come conseguenza, che gli stimoli trascurati dall'attenzione possano essere elaborati solo nella memoria a breve termine e con un'analisi sintattica e semantica superficiale, incapace, dunque, di risolvere alcuni tipi di ambiguità all'interno della frase. Un esempio di tale ambiguità viene fornito da MacKay con la frase «John is quick to please» in cui John può rappresentare sia il soggetto sia il complemento oggetto del verbo to please; secondo la sua teoria, M1 non sarebbe capace di cogliere queste possibilità. L'esperimento ideato da MacKay per testare queste ipotesi consisteva nella presentazione di due messaggi con la tecnica dell'ascolto dicotico, il primo, al quale si doveva prestare attenzione, conteneva un'ambiguità all'interno della frase; il messaggio da trascurare, invece, era formato da una parola in grado di risolvere tale ambiguità. Se il soggetto risultava in grado di interpretare in maniera corretta il

33 MacKay, D.G. (1973) Aspects of the theory of comprehension, memory and attention, The

(29)

primo messaggio poteva significare, allora, che il messaggio trascurato era stato elaborato a livello semantico, come previsto da MacKay; i tipi di ambiguità impossibili da risolvere in queste condizioni sarebbero quelle riguardanti le relazioni profonde all'interno della frase. I risultati ottenuti mostrarono che: «[...] the meaning of unattended words is analysed at the lexical level and interacts with the ongoing semantic processing of the attended sentence»34.

Un ulteriore esperimento fu condotto da MacKay con lo scopo di chiarire se i soggetti fossero coscienti della parola trasmessa nel messaggio trascurato; a questo fine veniva loro richiesto, una volta terminato l'ascolto, di riportare in forma scritta la parola o, almeno, di formulare delle ipotesi. Solo un soggetto su 36 riuscì ad eseguire correttamente il compito. Tali risultati sarebbero concordi con i risultati ottenuti dalle ricerche che abbiamo già citato, ossia indicano che i messaggi a cui non viene prestata attenzione non riescono a raggiungere la coscienza. Tuttavia, secondo MacKay, il fatto che il soggetto fallisca nel riportare la parola non implica che essa non sia stata elaborata:

But Cherry and Broadbent argued that since subjects can only recall the “general physical characteristics” of unattended messages (pitch, intensity, location) then no further analyses are going on. This conclusion is unwarranted. The fact that subjects are not fully aware of or cannot recall the signal to the unattended ear is not evidence that the signal was not processed. Lack of awareness or failure to recall does not imply absence of analysis35.

34 Ivi, p. 29. 35 Ivi, pp. 29-30.

(30)

La proposta di MacKay è che la parola venga elaborata a livello lessicale e semantico ma, poiché non le viene rivolta attenzione, viene processata esclusivamente nella memoria di lavoro e, quindi, non venendo trasferita in quella a lungo termine, non risulta più disponibile nel momento in cui deve essere riportata. Una tale distinzione tra memoria a breve e a lungo termine, operata non soltanto sulla base della durata di quest'ultime, ma anche della forma e del contenuto che viene in esse immagazzinato, era già stata formulata dallo psicologo Donald Norman. Nel suo articolo del 1969 dal titolo «Memory while shadowing»36, infatti, si propone di testare l'ipotesi per cui i messaggi e gli stimoli a cui non prestiamo attenzione sarebbero processati solo nella memoria a breve termine.

L'esperimento ideato da Norman si avvaleva, oltre che del consueto utilizzo dell'ascolto dicotico, anche della tecnica dello shadowing, secondo la quale il soggetto è istruito a ripetere ad alta voce il messaggio attended durante la sua trasmissione mentre, in sottofondo, viene inviato un secondo messaggio. Nel caso dell’esperimento di Norman, dunque, il soggetto doveva seguire con l'attenzione un messaggio e ripeterlo verbalmente mentre ne veniva presentato un secondo contenente una lista di sei numeri formati da due cifre. Il test fu condotto sotto due condizioni differenti: in quella “immediata”, subito dopo la presentazione del secondo messaggio, veniva trasmesso un segnale acustico seguito da due cifre e veniva chiesto al soggetto di interrompere lo

shadowing e di ricordarsi se tali cifre fossero presenti anche nella lista precedente; nella

condizione “ritardata”, invece, il segnale acustico e le due cifre venivano inviate con un

36 Norman, D. (1969) Memory while Shadowing, The Quarterly Journal of Experimental Psychology, 21(1), pp. 85-93.

(31)

ritardo di venti secondi. I risultati dell'esperimento mostrarono che, se nella condizione immediata i soggetti erano capaci di ricordare un elevato numero di informazioni, in quella ritardata, invece, la percentuale delle risposte corrette era solo lievemente superiore rispetto a quelle sbagliate.

L'esperimento di Norman risulta, dunque, favorevole alle teorie selettive che sostengono l'elaborazione profonda degli stimoli unattended, permettendo anche di spiegare, tramite la distinzione tra immagazzinamento nella memoria a breve e a lungo termine, perché i soggetti non riescono a riportare quasi niente del messaggio secondario: questo avverrebbe non per mancanza di elaborazione ma, piuttosto, per un mancato trasferimento nella memoria a lungo termine. La conclusione di Norman è, dunque, la seguente:

[…] the experiments reported in this paper illustrate that even while subjects are kept busy with a difficult shadowing task, they retain some short-term memory for other items presented to them. Little or no memory for these items remain after a lapse of 20 sec. The lack of long-term effects can be attributed entirely to the act of shadowing during the 20 sec. delay quite independent of the shadowing that took place at other times. These results are of critical importance for theories that postulate that all sensory signals undergo processing; a negative result would have ruled against these theories37.

La scelta da parte di Norman di ritardare la presentazione del segnale acustico di 20 secondi è legata alla discussione circa la determinazione del lasso di tempo

(32)

sufficiente a far decadere le informazioni dalla memoria a breve termine; un esempio di tale discussione è l’articolo del 1959 di Lloyd Peterson e Margaret Peterson dal titolo «Short-term retention of individual verbal items»38. In esso, infatti, gli autori avanzano l’ipotesi per cui le informazioni che non vengono ripetute decadono dalla memoria a breve termine e non vengono trasferite in quella a lungo termine; il loro scopo era quello di testare tale ipotesi e rilevare il lasso di tempo in cui avviene il decadimento. La tecnica utilizzata era la seguente: ai soggetti testati veniva presentata oralmente una serie di tre consonanti, selezionate casualmente, seguita da un numero a tre cifre. Essi dovevano contare all’indietro di tre cifre a partire da quel numero (ad esempio, da 309 dovevano contare 306, 303 ecc...), al fine di impedire la ripetizione (rehearsal) delle consonanti nella memoria39; quando vedevano apparire una luce rossa, i soggetti dovevano tentare di ricordare e ripetere correttamente la serie di consonanti. L’intervallo di tempo tra la pronuncia delle lettere da parte dello sperimentatore e l’accensione della luce rossa viene definito recall interval; ne furono utilizzati sei differenti (3, 6, 9, 12, 15 e 18 secondi) per verificare il tempo sufficiente a far decadere la traccia mnestica. I risultati indicarono che, con l’aumentare della durata dell’intervallo, diminuiva la capacità dei soggetti di ricordare la serie di consonanti; a 3 secondi, infatti, venivano fornite circa l’80% delle risposte corrette, mentre a 18 secondi la percentuale si aggirava intorno al 10%, mostrando, così, che questa costituisce approssimativamente la durata della traccia mnestica nella memoria a breve termine quando è impedito il rehearsal. Questo è un primo esempio dell’importanza del

38 Peterson, L.R., Peterson, M.J. (1959) Short-term retention of individual verbal items, Journal of

Experimental Psychology, 58(3), pp. 193-198.

39 «It was considered that continuous verbal activity during the time between presentation and signal for recall was desirable in order to minimize rehearsal behavior». Ivi, p. 194.

(33)

dibattito sulla memoria per la ricerca sull’attenzione e per la discussione teorica del primo cognitivismo, che ipotizzava modelli seriali dell’elaborazione dell’informazione. Il rapporto tra attenzione e memoria sarà trattato in un prossimo paragrafo.

Tornando alle teorie del filtro, un modello alternativo fu proposto dallo psicologo Ulric Neisser. Egli, infatti, elaborò una nuova teoria della percezione volta a modificare il ruolo dell'attenzione focale nei modelli precedentemente citati. Il punto di vista di Neisser, infatti, consiste nell'attribuire al processo percettivo una funzione costruttiva e, quindi, di selezione positiva piuttosto che di esclusione, attenuazione degli stimoli indesiderati e chiusura ad essi. Nel suo libro del 1967 «Cognitive Psychology»40 espone in questo modo i limiti mostrati dalle teorie del filtro selettivo:

If names, probable words, and identical meanings in the rejected message can force themselves on the subject's attention, he must be listening to it in some sense. For these reasons both Moray (1959) and Deutsch and Deutsch (1963) find it necessary to assume that all inputs are analysed rather completely, with "filtering" or selection taking place only subsequent to the analysis. Such a solution is unsatisfactory, because it only moves us from one horn of the dilemma to another: why then does so little of the rejected message make an impression?41

In «Conoscenza e realtà: un esame critico del cognitivismo»42 Neisser spiega l’inutilità di postulare un meccanismo di filtraggio e selezione delle informazioni tramite l’esempio della raccolta delle mele: «Per cogliere una mela dall’albero non

40 Neisser, U. (1967) Cognitive Psychology, New York: Psychology Press & Routledge Classic Editions.

41 Ivi, p. 199.

(34)

occorre che voi filtriate tutte le altre: semplicemente non le prendete. Una teoria sulla raccolta della mela avrebbe molto da spiegare (come decidete quale volete? Che cos’è che guida la vostra mano verso quella particolare mela? Che cos’è che vi consente di afferrarla?) ma non dovrebbe specificare un meccanismo per tenere le mele volute lontano dalla vostra bocca»43. Dunque, la selezione dei dati non necessita di un particolare meccanismo che escluda tutte le altre informazioni irrilevanti.

Per verificare tale asserzione, Neisser e Robert Becklen elaborarono un paradigma simile all’ascolto selettivo ma riguardante la vista. Dopo aver registrato su delle videocassette delle persone intente a svolgere due giochi differenti, richiedenti spostamenti e azioni come passare e colpire una palla, applicarono uno specchio di modo che essi risultassero e fossero visibili come sovrapposti. Ai soggetti fu chiesto di indirizzare l’attenzione soltanto verso uno dei giochi e di premere un pulsante ogni volta che avessero visto certi eventi (ad esempio il lancio della palla). I risultati rilevarono una percentuale di errore di circa il 3%, quindi indicarono che non vi era difficoltà nel selezionare e seguire solo uno dei giochi44. La capacità di vedere solamente il gioco rilevante ed escludere l’altro non deve essere attribuita, secondo Neisser, all’esistenza di un filtro percettivo ma, piuttosto, alla stretta relazione tra attenzione e percezione: noi vediamo solo quello che decidiamo di vedere, ossia quello verso cui dirigiamo l’attenzione. Riguardo alle informazioni unattended, l’autore afferma che: «Essa subisce il destino dei numerosi tipi d’informazione per cui non abbiamo alcuno schema, cioè semplicemente non la raccogliamo»45.

43 Ivi, p. 108.

44 «Da sottolineare sono la naturalezza di questo compito e la mancanza di interferenza da parte dell’altro episodio», da Neisser, U., Conoscenza e realtà…, cit. p. 109.

(35)

Il modello percettivo di Neisser si articola in due stadi differenti: in un primo momento, ad elaborare le informazioni sono dei sistemi passivi, chiamati processi "preattentivi", incaricati di processare in parallelo e ad un livello inconscio le caratteristiche degli stimoli sensoriali e di guidare i comportamenti automatici; inoltre, l'analisi condotta da tali processori si basa solamente sulle caratteristiche fisiche degli stimoli ignorandone, così, il valore e le relazioni semantiche (ad eccezione del proprio nome che, grazie alla sua rilevanza, è capace di attirare su di sé l'attenzione). Successivamente, entra in gioco l'attenzione focale con quello che Neisser definisce il processo di analysis-by-synthesis, grazie al quale il soggetto seleziona le proprietà rilevanti ed avvia il processo di ricostruzione percettiva. In questo senso, gli input con caratteristiche irrilevanti non vengono nè bloccati nè attenuati, ma piuttosto sono elaborati dai processi preattentivi senza, però, accedere alla fase di sintesi.

L'idea che esistano dei processi passivi ed operanti in parallelo al fine di analizzare i diversi segmenti degli stimoli sensoriali era stata già avanzata nel cosiddetto modello del "Pandemonium" proposto da Oliver Selfridge nel 195946. L'elaborazione di tale modello nacque per rispondere al problema delle modalità con cui la mente umana riesce a riconoscere le informazioni in entrata organizzandole in immagini o articolandole in frasi dotate di senso. Alla base di tale modello vi è l'operazione di diversi processori, organizzati gerarchicamente, i quali operano in parallelo a diversi stadi del riconoscimento. Tali processori vengono distinti da Selfridge in quattro "demoni":

1. demoni dell'immagine: si occupano di registrare l'immagine ricevuta

46 Selfridge, O. (1959) Pandemonium: A Paradigm for Learning, in Symposium on the mechanization

(36)

dall'esterno.

2. demoni delle caratteristiche: ve ne sono di diverse tipologie, ognuna delle quali è dedicata a ricercare specifiche caratteristiche nell'immagine. Nel caso in cui vengano rilevate, devono essere inviate alla classe di demoni superiore.

3. demoni cognitivi: a questi è assegnato il riconoscimento di specifiche configurazioni; essi vengono più o meno eccitati a seconda di quante caratteristiche appartenenti alla loro configurazione vengono rinvenute dai demoni sottostanti.

4. demone della decisione: si occupa di scegliere, sulla base dell'opera dei demoni cognitivi, la configurazione che ha maggiori probabilità di rappresentare correttamente lo stimolo esterno.

Una delle obiezioni che è possibile rivolgere al modello del Pandemonium è che esso delinea un processo percettivo completamente passivo, in cui non solo gli stimoli sono selezionati esclusivamente sulla base delle loro caratteristiche fisiche (quindi non potrebbero essere spiegati i risultati degli esperimenti di Moray, precedentemente citati, in cui l'ascolto del proprio nome da parte dei soggetti provocava uno spostamento dell'attenzione), ma non viene neppure presa in considerazione la capacità del soggetto di decidere su quali elementi del campo percettivo rivolgere l'attenzione, ossia tutti i processi di tipo top-down.

Questi saranno studiati dalla psicologia cognitiva classica (modelli seriali e simbolici) fino a quando, a metà degli anni Ottanta, si affermerà il paradigma connessionista che riprende la proposta dell’elaborazione parallela. Tra queste proposte si inserisce il libro del 1991 intitolato «Consciousness explained»47 in cui il filosofo

(37)

Daniel Dennett elabora il suo multiple drafts model, simile al modello del Pandemonium e a tutti gli altri modelli percettivi che si fondano sul processamento parallelo delle informazioni come alternativa a quelle teorie che, invece, postulano l'esistenza di un homunculus, ovvero di un comando centrale posto alla guida dei nostri processi cognitivi, o del cosiddetto "teatro cartesiano", «a place where it all comes together and consciousness happens»48. Dennett descrive il suo modello in questi termini: «According to the Multiple Drafts model, all varieties of perception - indeed all varieties of thought or mental activity - are accomplished in the brain by parallel, multitrack processes of interpretation and elaboration of sensory inputs»49. L'intento di Dennett è di descrivere un modello di elaborazione dell'informazione che escluda l'esistenza di uno stadio finale in cui tutti i dati raccolti dai diversi processori paralleli vengano riuniti e trasformati nell'esperienza cosciente.

1.3 IL PARADIGMA DI SPERLING

Parecchie analogie con le teorie del filtro precedentemente analizzate possono essere rinvenute nei primi esperimenti e lavori condotti in ambito visivo sulla memoria iconica. I risultati delle ricerche svolte in questo campo dallo psicologo americano George Sperling nel 1960 e riportati nell’articolo «The information available in brief

visual presentations»50, ad esempio, possono essere interpretati postulando l'esistenza di un filtro che permette solo a determinati input di entrare nella memoria a breve termine.

48 Ivi, p. 39. 49 Ivi, p. 111.

50 Sperling, G. (1960) The information available in brief visual presentations, Psychological

(38)

Tali ricerche, infatti, mostrano chiaramente che i soggetti testati generalmente vedono più di quanto riescono poi a riportare verbalmente: «more is seen than can be remembered»51. Questo indicherebbe la presenza di un registro sensoriale capace di mantenere, seppure per un brevissimo lasso di tempo, un'elevata quantità di stimoli; non tutti, però, possono essere mantenuti nella memoria a breve termine, caratterizzata da una capacità più limitata e una durata maggiore. Il concetto di span della memoria fa riferimento, infatti, alla quantità di stimoli che la mente umana può contenere nella memoria a breve termine.

L'obiettivo di Sperling è quello di indicare quanti stimoli possono essere visti in una sola breve esposizione visiva. Gli esperimenti furono condotti presentando, tramite tachistoscopio, dodici lettere dell'alfabeto suddivise in tre righe da quattro lettere ciascuna e chiedendo ai soggetti di riportare o tutte le lettere viste durante la breve esposizione (resoconto totale), o solamente quelle di una determinata riga, suggerita dalla presentazione di un segnale acustico di bassa, media o alta frequenza (indicante rispettivamente la prima, seconda e terza riga) dopo 150 millisecondi dall'esposizione (resoconto parziale). I risultati indicarono che, non solo i resoconti parziali erano generalmente più accurati di quelli totali, ma anche che l'esattezza dei primi diminuiva se la presentazione del segnale acustico veniva ritardata anche di un solo secondo. La spiegazione offerta da Sperling a questi dati consiste nel sostenere che l'immagine presentata al tachistoscopio permane nella memoria del soggetto fino, almeno, alla presentazione del segnale acustico: «[...] information is initially stored as a visual image and that the Ss can effectively utilize this information in their partial reports»52. Il

51 Ivi, p. 1. 52 Ivi, p. 21.

Riferimenti

Documenti correlati

Il processo di lavorazione dura circa 8 giorni (dai 10 precedenti) e porta alla consegna del tesserino alla società di postalizzazione, che impiega almeno 10 giorni per

5516 del 19/3/2015, ha affermato come il "divieto di trattamento differenziato del lavoratore a termine non giustificato da ragioni obiettive discende dalla disciplina

The workshop is part of the research project QUAINT (Quantitative Analysis of Italian National Transport) and enjoys the contribution of the Department of

Il conto corrente del cliente individuato per il pagamento può essere detenuto presso Deutsche Bank S.p.A. oppure presso un altro istituto

Ai sensi della normativa vigente Il distributore ha l’obbligo di consegnare/trasmettere al contraente il presente documento, prima della

20 DI IORIO Tiziana SCIENZE GIURIDICHE NELLA SOCIETÀ E NELLA STORIA 21 DI SALVATORE Enzo SCIENZE GIURIDICHE PUBBLICISTICHE. 22 DONATO Maurizio SCIENZE GIURIDICHE NELLA SOCIETÀ E

Nel caso in cui le domande siano più di 100 e qualora il Consiglio Scientifico del Master ritenga di voler ampliare il numero degli iscritti, l’ammissione sui posti

L’obiettivo è quello di accendere negli studenti la passione per le scienze e la tecnologia utilizzando un vero laboratorio scientifico “a postazione singola” in cui