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Centralità dell’intervento pubblico nel settore culturale e degli spettacoli dal vivo: le ragioni “pubbliche” del sostegno alla cultura

Il ruolo dello Stato nelle dinamiche economiche e strategiche delle arti performative

3.1 Centralità dell’intervento pubblico nel settore culturale e degli spettacoli dal vivo: le ragioni “pubbliche” del sostegno alla cultura

Come si è visto, ragioni di ordine diverso fondano la centralità del ricorso alle risorse pubbliche nel sostenere e mantenere in vita il settore teatrale in una gran parte dei paesi sviluppati. Questo assetto riposa di fondo sulla considerazione del valore dell'attività teatrale all'interno dei beni meritevoli di tutela da parte dello Stato, in ragione del suo carattere di “bene culturale” nei termini che si sono cercati di evidenziare nel corso dell'analisi (Barca, 2013, pp. 325-330).

Pur in modo forse schematico, è possibile raggruppare le considerazioni più comuni che vengono fatte in difesa del teatro come “servizio pubblico”, meritevole pertanto di sostegno da parte delle istituzioni, attorno a tre prospettive strettamente correlate tra loro (Cfr. Candela e Scorcu, 2000, p. 189 e ss). La prima è una prospettiva di ordine “morale”. Il teatro offre un'esperienza estetica e una formazione culturale che devono essere considerati irrinunciabili per preservare e migliorare il “tasso sociale” di accesso alla cultura, quindi deve essere considerato un servizio pubblico e, di conseguenza, economicamente

supportato dallo Stato, al fne di garantire che tale servizio sia raggiungibile dalla generalità dei cittadini. In secondo luogo, viene in evidenza una prospettiva “politica”. La considerazione del teatro come servizio pubblico rappresenta infatti una delle frontiere che, nel campo della “politica della cultura”, separano quei partiti, formazioni politiche o ideologie che, su un piano generale, mantengono un concetto puramente “mercantilista” dell'arte, da quelli che sostengono che l'arte e la cultura non possano essere esclusivamente considerate come un semplice oggetto di scambio commerciale (Montalto, 2016, p. 21 e ss.). O, in altre parole, si tratta qui di una questione che individua quanti ritengono ammissibile che l'arte e la cultura della qualità più elevata siano a disposizione soltanto di coloro che possano permetterseli, mentre la maggior parte delle forme d'arte e cultura meno elaborate -e dunque meno costose- debbano essere destinati “naturalmente” al godimento delle classi sociali meno abbienti (Trupiano, 2015, p. 296 e ss.). Infne, da una prospettiva “economica”, la questione della necessità di sovvenzionare il teatro con fondi pubblici divide quanti sono favorevoli a tale opzione da quanti invece sostengono, come si è visto, che se anche il teatro rappresenta di per sè un servizio pubblico che lo Stato è tenuto a sovvenzionare, ciò condurrà ad un aumento permanente delle risorse richieste per il suo sviluppo (Barca, 2013, pp. 325-330). Naturalmente, si tratta di profli che sono strettamente correlati l'uno all'altro.

Per comprendere i contenuti fondamentali del dibattito, è forse opportuno richiamare alcune delle principali, profonde trasformazioni storiche che hanno investito nel corso dei decenni il rapporto tra società e cultura

all'interno di quelle più sviluppate dell'Occidente, e di rifesso, a livello globale (Valentino, 2013, pp. 357-363). L'evoluzione del rapporto tra la società e le arti nel corso dell'ultimo secolo può essere scandita in due fasi. In prima fase, il mondo dell'arte costituisce una sfera sociale specializzata che occupa una posizione di grande rilevanza simbolica ma di relativa marginalità in termini sociali, economici o politici. Questo è il quadro che si apre a metà del secolo XIX e termina alla fne del XX secolo e che è caratterizzato da una successione di rotture con i vincoli sociali, religiosi o economici da parte dei “creativi” e degli artisti. Un processo che fnisce per confgurare un “campo” artistico al cui fulcro si situa un “polo” della creazione artistica autonoma -opposto al polo dell'arte commerciale- e in fase di “rinnovamento permanente” ad opera delle “avanguardie storiche”. Mentre gli artisti sviluppano sempre di più lingue nuove in modo tendenzialmente autoreferenziale, il ruolo degli intermediari culturali appare in questo contesto abbastanza secondario (Trupiano, 2015, p. 180 e ss.). In questa fase infatti la fgura del creatore occupa un ruolo centrale e ad un certo punto del tutto mitizzato (Cfr. Candela e Scorcu, 2000, p. 132 e ss.).

In una seconda fase, a partire dagli anni settanta, si assiste invece all'emersione, quale prodotto di precise trasformazioni socio-economiche, della cosiddetta “società della cultura”. Se a partire dalla metà del XIX secolo e fno alla fne del XX secolo, il rapporto tra cultura e società è stato qualifcato essenzialmente dalla sua marginalità e autonomia, a partire da quel momento in poi si assiste ad una nuova centralità sociale della cultura e un processo di correlazione tra la sfera culturale, il campo economico e quello politico (Barca, 2013, pp. 325-330). In modo analogo, la stessa sfera culturale andrà incontro a

trasformazioni radicali, nel senso soprattutto di indebolire la distinzione tra cultura colta e cultura popolare, aumentando inoltre il rapporto e la circolazione tra generi e discipline artistiche, e di conseguenza il tasso di ibridazione tra culture di diversa origine. Questa nuova confgurazione genererà un assetto caratterizzato da un nuovo tipo di legame tra cultura ed economia e tra cultura e politica culturale, ponendolo prepotentemente al centro di diversi dibattiti teorici relativi agli “usi” e agli “impatti sociali” della cultura (Montalto, 2016, p. 32 e ss. ).

A partire almeno dagli anni '80, possiamo interpretare la dinamica postmoderna come un processo che ha condotto, di certo, ad una maggiore centralità sociale della cultura e, allo stesso tempo, ad una maggiore mercifcazione e strumentalizzazione per scopi economici e sociali. In questo senso, possiamo osservare una situazione che si presenta per certi versi paradossale: da una parte, c'è un discorso sulle industrie culturali e creative che attribuisce loro una funzione essenziale nello sviluppo economico, sociale e personale e, dunque, una serie di pratiche che assegnano un potenziale trasformativo e innovativo alla cultura, riconoscendole la capacità di trasformare positivamente la società (Valentino, 2013, pp. 357-363). Dall'altro canto, però, tutti i settori culturali, e sembra che nessuno possa essere escluso, sono stati duramente colpiti dalla grande recessione economica, principalmente in ragione della caduta del fusso di fnanziamento pubblico e di una crisi di paradigmi istituzionali basati sull'intervento dello stato, nella forma che si era stabilita in Europa nel corso degli anni '60.

Dopo tre decenni di crescita pressoché continua e comunque sostenuta, grafci e statistiche dei settori culturali presentano oggi gravi passività in quasi tutti gli indicatori: affusso di pubblico, vendite, fatturazione o occupazione. Allo stesso modo, negli ultimi venti anni non sono mancate le analisi che hanno sottolineato l'effetto perverso delle politiche culturali pubbliche e soprattutto la loro crisi strutturale, chiedendone un ripensamento radicale (Candela e Scorcu, 2000, p. 160 e ss.). Di fronte a questa realtà, c'è un'apparente disconnessione tra la dimensione culturale e quella politica, e una messa in discussione di istituzioni, cooperative e meccanismi di distribuzione delle risorse, che costituiscono la base organizzativa e istituzionale di questo settore. Questi elementi indicano anche una riconfgurazione in atto dei paradigmi classici di produzione, distribuzione e consumo culturale, nonché dell'articolazione e dei ruoli tra stato, mercato e attori sociali su cui questi si basano (Barca, 2013, pp. 325-330).

3.2 Il Fondo Unico per lo Spettacolo e la distribuzione delle risorse pubbliche