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Le differenze tra compagnie teatrali: organizzazione, fnanziamento, tipologie di spettacoli e contenut

Il teatro e le compagnie teatrali in Italia

4.2 Le differenze tra compagnie teatrali: organizzazione, fnanziamento, tipologie di spettacoli e contenut

Come si è visto, nella fase attuale delle politiche di “economia culturale” del nostro paese, si assiste al paradosso che si è già cercato di esplicitare nel quale ad una rinnovata centralità sociale della cultura, dal punto di vista degli stili di

vita e delle abitudini di consumo delle persone, non corrisponde una proporzionale destinazione di risorse da parte del soggetto, lo Stato, che da sempre si è fatto garante della sopravvivenza delle istituzioni culturali in nome della tutela di beni sociali di cui nessuno, almeno sul piano teorico, ha inteso mettere in dubbio il signifcato e il valore (Montalto, 2016, p. 12 e ss.).

La diminuzione dell'impegno pubblico a favore del teatro e della cultura in generale e il carattere eminentemente non “congiunturale” di tale tendenza, è ben visibile nelle curve del Fondo Unico per lo Spettacolo che ho richiamato e che mostrano, anche a fronte di una crescita generale dell'economia e della produzione nel nostro paese, una discesa impietosa dei livelli di spesa dedicati alla cultura. Il nodo della crisi riguarda dunque l'identità dell'istituzione teatrale in rapporto alla società, anche se tale considerazione introduce ad un ulteriore elemento paradossale rappresentato dalla crescita, lenta ma costante, della “domanda di cultura” nel nostro come in altri paesi (Valentino, 2013, pp. 357- 363). In altri termini, e in coerenza con le evoluzioni che, come si è visto, hanno investito la relazione tra società e cultura nel corso degli ultimi venti anni, il pubblico in questo periodo di tempo è andato, pur lentamente, crescendo. I dati ISTAT, che riguardano il “consumo culturale” e l'impiego del tempo libero nel nostro paese, mostrano infatti da anni una tendenza alla crescita, che appare confermata dalle rilevazioni più recenti disponibili. La quota degli spettatori, ovvero di quanti sono andati a teatro almeno una volta l'anno nel 2016, è pari al 20,0 per cento delle persone di 6 anni e più. Di questi, il numero più elevato è formato da persone che hanno meno di 19 anni ed in ciò deve essere richiamato il ruolo educativo che ancora nelle nostre scuole viene

riconnesso alle rappresentazioni teatrali, dalla scuola dell'infanzia alla fne dell'obbligo scolastico. Va a teatro oltre il 29 per cento dei bambini di 6-10 anni e di quanti hanno 18-19 anni, e il 32 per cento circa di quanti hanno tra 15 e 17 anni. Nella fascia di età compresa tra i 60 e i 64 anni va poi a teatro il 22,1 per cento, attestandosi dunque questo segmento al di sopra della media nazionale. Vanno a teatro più le donne degli uomini, e ciò avviene soltanto in questo specifco ambito dell'offerta culturale (21,9 per cento le donne, 18,1 per cento gli uomini), e riguarda tutte le fasce di età della popolazione, soprattutto le ragazze di 15-17 anni, delle quali vanno a teatro ben 11 punti percentuali in più dei ragazzi. Di questi spettatori, circa l’80 per cento va a teatro al massimo tre volte l'anno e solo il 7,2 per cento va a teatro sette o più volte. Vanno a teatro di più le persone con più di 55 anni. Vanno più di 6 volte l'anno spettatori di 55-59 anni e di 75 anni e più (rispettivamente 11,9 per cento e 15,9 per cento). Se si scompongono i dati per area geografca, emerge che ad andare maggiormente a teatro sono quanti vivono nelle regioni dell'Italia centrale (23,5 per cento), con in testa il Lazio (26,3 per cento). La regione con il maggior numero di spettatori annuali è però il Trentino Alto Adige, dove si reca a teatro almeno una volta il 31,4 per cento della popolazione. Si va prevedibilmente di più a teatro dove l'offerta è maggiore, ovvero nei comuni più grandi (dove va a teatro il 30,7 per cento delle persone con più di sei anni), e di meno nei piccoli comuni (dove questa percentuale si attesta al 12,5 per cento)8.

Si tratta di valori che parlano di una domanda di teatro certo non “unanime” -come è ovvio- né paragonabile a quella di altre “attività del tempo libero” maggiormente accordate dal pubblico italiano, però niente affatto

residuale o avviata alla scomparsa defnitiva, anche perché questi dati sono in crescita lieve ma costante da tempo, in coerenza con la “ricentralizzazione culturale” di cui si è parlato in riferimento alla società contemporanea (Fontana, 2010, fascicolo, 4, p. 435 e ss).

Nel panorama appena delineato, la realtà teatrale italiana, sebbene gravata dal peso di una crisi che appare avere carattere strutturale, si presenta ancora popolata, quanto all'articolato universo delle compagnie, di realtà, forme organizzative ed identità tra loro anche molto diverse. Una linea più o meno marcata divide il mondo delle compagnie amatoriali - quelle che un tempo si sarebbero chiamate flodrammatiche- dal mondo del professionismo vero e proprio, ma è una demarcazione, per l'appunto, intermittente. In Italia esiste da tempo un vero e proprio “modello amatoriale” che vede la luce negli anni compresi tra la fne dell‘800 e i primi del ‘900, in una fase nella quale ha assunto appieno i suoi connotati il modello che caratterizza l’organizzazione teatrale italiana tanto a livello professionistico che amatoriale. Il teatro nel nostro paese si connota in quel momento, e peraltro sulla scorta di una tradizione secolare e tra le più gloriose in assoluto, come teatro di compagnia di giro, guidata dal capocomico e itineranti. Fino all'immediato dopoguerra il sistema predominante nel nostro paese è quello del cosiddetto capocomicato. A partire dalla ricostruzione e dalla stabilizzazione della vita economica e sociale del paese nelle nuove forme della società del benessere, il sistema del teatro stabile soppianta il precedente modello.

Il modello della “compagnia” accumuna dunque il sistema teatrale nazionale in tutte le sue espressioni, dal livello professionistico a quello

amatoriale. Tra i due ambiti, come detto, non esistono più, soprattutto dopo la Grande Crisi economica, le differenze strutturali che potevano riscontrarsi in precedenza, tanto dal punto di vista organizzativo che da quello dei contenuti proposti, ed anche in una certa misura delle modalità di lavoro. Entrambi i tipi di compagnia si fondano sull'idea di riferirsi in via principale a platee ridotte, proponendo spettacoli di forte carica comunicativa ed emozionale, spesso con un'accentuata caratterizzazione territoriale e con una componente numerica tendenzialmente ridotta (Guerzoni, 2008, p. 26 e ss.).

Se queste sono le principali caratteristiche comuni, come è naturale, le differenze sono peraltro molto signifcative tra teatro amatoriale e teatro professionistico ed hanno un carattere essenziale, investendo in modo intenso l'approccio fondamentale di questi due universi affni ma anche molto distanti (Montalto, 2016, p. 10 e ss.). In primo luogo, il teatro amatoriale non è, a logica, la primaria fonte di entrate economiche di quanti vi lavorano, ed esso è di solito escluso dai circuiti delle istituzioni pubbliche, in parte anche connotandosi, nella percezione comune di un certo disvalore dal punto di vista dell'autorevolezza e del rilievo culturale. Si tratta di una stigmatizzazione, peraltro giustifcata, in quanto spesso la più alta visibilità e necessità di guadagno inducono le grandi compagnie professionistiche stabili a proporre spettacoli più apertamente pensati per andare incontro ai gusti del pubblico, incentrandosi all'istanza di una maggiore spendibilità dal punto di vista del botteghino degli spettacoli prodotti. Di contro, il teatro amatoriale mantiene una maggiore autonomia di organizzazione e “di cartellone”, in un quadro in cui i diversi costi di gestione e la diversa cornice normativa di riferimento

consentono maggiori margini d’azione al mondo delle flodrammatiche, che si prendono spesso maggiore libertà, rispetto ai professionisti, nel seguire un “proprio” orientamento di contenuto (Fontana, 2010, fascicolo, 4, p. 190 e ss.). Risulta chiara quindi l’importanza del teatro amatoriale in termini di apporto sia quantitativo, ma soprattutto qualitativo, alla scena nazionale. Sembra plausibile dunque che, in un periodo di grave crisi per il teatro italiano, ci sia bisogno di un maggiore contributo culturale dei gruppi amatoriali, che, anche grazie alle loro debolezze, hanno la possibilità di mettersi in gioco e di rifondare un sistema ormai destinato ad implodere sotto il peso della burocrazia. Per dirla con le parole di Grotowski9:

“Da dove può venire il rinnovamento? Da gente scontenta della situazione del teatro normale e che si assuma il compito di creare teatri poveri con pochi attori, “compagnie da camera” […] oppure da dilettanti che lavorando al margine del teatro professionista, da autodidatti siano arrivati ad uno standard tecnico di gran lunga superiore a quello richiesto nel teatro dominante; in una parola, pochi matti che non abbiano niente da perdere e che non temano di lavorare sodo.“

E forse è proprio di questo che il teatro italiano ha bisogno, di qualche matto che abbia il coraggio di costruire sulle rovine.10

9Regista teatrale polacco, una delle fgure di spicco dell'avanguardia teatrale del Novecento, ricordato per aver ideato una rivoluzionaria tecnica di formazione per gli attori; esponente del teatro d'avanguardia creò la concezione di "teatro povero" che ispirò il cambiamento nell'approccio alla recitazione a lui successivo.

4.3 Il teatro nella realtà capitolina: i diversi gruppi attivi, le differenti