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Prima di esaminare le dinamiche attraversate dalla Chiesa cattolica lungo il XVIII secolo, è necessario accennare brevemente al pontificato di Benedetto Odescalchi, divenuto papa nel 1676 col nome di Innocenzo XI, in riferimento al quale si tende a parlare generalmente di “svolta innocenziana”. Il nuovo papa impresse una trasformazione morale e disciplinare alla Chiesa, cercando principalmente di imporre una più stretta osservanza dei canoni conciliari elaborati a Trento. Erano in molti, dopotutto, ad auspicare l’accantonamento delle discussioni e delle lacerazioni di carattere teologico-dogmatico e la confluenza delle energie verso una comune opera di rigenerazione morale e disciplinare.

Ad Innocenzo XI seguirono Alessandro VIII (1689-1691) e Innocenzo XII (1691- 1700). Dalla fine degli anni Ottanta, inoltre (dagli ultimi anni del pontificato di Innocenzo XI), tutti gli indizi sembrano convergere verso una rinnovata volontà della

1 Cfr. Infra, cap. III.

51 Chiesa di Roma di affermare la propria egemonia attraverso lo strumento dell’inquisizione2. Anche il successivo pontificato di Benedetto XIII (1724-1730)

mantenne una sostanziale continuità con alcune linee del riformismo innocenziano; una continuità, tuttavia, che si manifestò in un clima culturale radicalmente mutato. Stava infatti divenendo sempre più evidente la diminuita efficacia dei tradizionali strumenti di controllo verso le opinioni e i comportamenti eterodossi da parte del papa, in conseguenza della sua debolezza e dello scarso peso di cui godeva3.

Due vicende su tutte sono paradigmatiche: da una parte i contrasti giurisdizionali con i diversi stati, dall’altra la questione del giansenismo. Tali vicende dimostravano la necessità di una generale riconsiderazione dei confini tra sfera religiosa e sfera civile nel primo Settecento, secondo meccanismi non nuovi che tuttavia avevano ormai assunto proporzioni di vasta portata e dalle conseguenze destabilizzanti. Tali questioni non erano circoscritte alle prerogative della Chiesa in campo civile, ma si estendevano fino a toccare temi di appannaggio dei teologi nel campo della morale e del diritto. Tutto questo non era limitato alla Francia libertina e giansenista, ma avveniva anche altrove, per esempio in capitali come Vienna, Madrid, Napoli, Firenze, Parma e Milano4.

L’Italia era investita da un vento nuovo. Gli uomini che sentivano il bisogno di riconsiderare questi rapporti non erano solo anticlericali o anticuriali, come Pietro Giannone e Alberto Radicati di Passerano, ma erano anche letterati di fede cattolica, tra i quali Scipione Maffei e Paolo Mattia Doria. Su tutti spiccò l’opera di Ludovico Antonio Muratori5. Figure di questo tipo sorsero numerose in Italia nei primi decenni del

Settecento, senza però possedere una vera coscienza di gruppo come fronte

2 C. Donati, La chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760) in G. Chittolini, G. Miccoli (a cura di),

Storia d’Italia, Annali 9, La chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, Einaudi, Torino 1986, p. 733.

3 Ivi, p. 735.

4 Queste dinamiche caratterizzarono quella fase della storia della cultura definita da Paul Hazard Crisi della coscienza europea. P. Hazard, Crisi della coscienza europea, UTET, Torino 2007 [ed. francese originale 1935].

5 Muratori fu un sacerdote emiliano che ebbe un importanza cruciale nella nascita della medievistica moderna, sia per il metodo sia per le edizioni di fonti relative al periodo medievale. Da ecclesiastico è importante sottolineare la sua concezione di una devozione regolata e scevra di eccessi. Entrambi gli aspetti saranno approfonditi: cfr. infra cap. II e cap. III, parag. 2.

52 antiromano. Rappresentavano forze sparse, a volte convergenti ma spesso autonome, “in grado sì di intaccare questa o quella colonna portante della Chiesa della Controriforma, ma prive della capacità o ben lontane dall’intenzione di far crollare l’intero edificio”6.

In ogni modo, se in gran parte del mondo religioso le crepe erano sempre più numerose e la preoccupazione cresceva, in molti casi crebbe parallelamente il numero di chierici e monaci, l’affluenza a pellegrinaggi e processioni, si moltiplicarono chiese e oratori. Molti indizi, inoltre, evidenziano la centralità del papato e il suo controllo sulle strutture istituzionali e sociali degli stati italiani fino al primo Settecento7.

Dal 1730 al 1760 però, durante i pontificati di Clemente XII (1730-1740) e Benedetto XIV (1740-1758), le cose cambiarono. A partire da quegli anni si fece sempre più evidente e inarrestabile la perdita di forza dei pronunciamenti di papato e tribunali ecclesiastici contro coloro che venivano considerati pericolosi per la solidità della Chiesa. Il controllo esercitato da quest’ultima si dimostrava sempre più velleitario, proprio mentre l’attacco verso letterati, uomini di cultura e politici si faceva più frequente e aggressivo nei toni. Benedetto XIV, che aveva tentato di facilitare il dibattito culturale e la circolazione delle nuove idee tramite una politica concordataria8,

rimase in qualche modo vittima di questo suo atteggiamento, fino a perdere la propria forza di controllo. L’evoluzione della religiosità risentì di questo contesto politico e culturale.

In realtà, già dal tardo Seicento, era iniziata ad emergere una contrapposizione latente (ma generatrice di un dibattito importante) tra due filoni diversi della sfera spirituale: da una parte, la religiosità barocca e la forza di penetrazione sociale dell’attività gesuitica; dall’altra, forme di religiosità più severa e rigorosa,

6 C. Donati, La chiesa di Roma, cit., pp. 738-739. 7 Ivi, pp. 742-743.

8 Benedetto XIV promosse la collaborazione temporanea tra funzionari civili, clero e uomini di lettere, al fine di perseguire la “pubblica felicità”. Il suo approccio concordatario vide comunque anche la presenza di un atteggiamento di difesa dei privilegi ecclesiastici. Cfr. Ivi, pp. 745, 771. Cfr. anche G. Greco, Benedetto XIV. Un canone per la chiesa, Salerno, Roma 2011.

53 prevalentemente basate sulla riflessione teologica di impianto giansenistico. A mostrare scarso gradimento verso la morale e la predicazione dei gesuiti furono in particolare gli agostiniani9.

Il rigorismo filo-giansenistico si intrecciò per certi aspetti, nella prima metà del Settecento, con gli echi della cultura dei lumi, dalla quale, in contrapposizione alla religiosità teatrale e sentimentale dei gesuiti, emerse un tipo di devozionismo regolato e umano, di cui Muratori fu un esponente di spicco in Italia. Questi cattolici illuminati tendevano a rifuggire dagli eccessi della devozione, orientandosi verso una pietà contenuta e sobria, prevalentemente indirizzata a Cristo più che alla Vergine o ai Santi (quindi tale da piacere anche ai rigoristi della prima ora), e avversando le pratiche religiose popolari10.

Questo atteggiamento si collegò al riformismo religioso della metà del secolo e dette origine ad un cristianesimo di tipo evangelico, umanitario e solidaristico, orientato alla pubblica felicità. Tali dinamiche portarono, già a partire dalla fine del XVII secolo, a una trasformazione all’interno del clero regolare e della gerarchia ecclesiastica, in direzione di una maggiore levatura morale ed intellettuale (paradigmatico fu appunto il caso di Benedetto XIV). Tutto questo processo favorì la rinascita del gusto per l’erudizione ecclesiastica e in particolare per quella storica (Muratori fu ancora figura centrale di questa evoluzione).

Da parte sua, Benedetto XIV cercò di orientare l’azione dei vescovi in direzione della disciplina del clero e dell’istruzione del popolo, dando meno importanza alle questioni giurisdizionalistiche e dottrinali, raccogliendo così grandi consensi dalle frange più riformiste. Tuttavia, molti di questi orientamenti avrebbero avuto in seguito sviluppi non sempre graditi alla Santa Sede. Figure come Ludovico Muratori, Antonio di Montegnacco e Antonio Genovesi, tutti uomini di Chiesa, riponevano la loro fiducia in una riforma morale ed intellettuale del mondo ecclesiastico che avrebbe contribuito

9 O. Niccoli, La vita religiosa nell’Italia Moderna. Secoli XV-XVIII, Carocci, Roma 2008, p. 217. 10 Ivi, p. 221.

54 alla pubblica utilità. Per alcuni di loro anche il clero doveva usare come metro di valutazione la ragione, riposizionandosi quindi a debita distanza dall’ubbidienza cieca ai dettami della corte di Roma. Queste idee possono essere definite illuministiche e la loro diffusione all’interno della Chiesa era un fattore fortemente destabilizzante.

Nessuno di questi autori metteva in discussione il ruolo di legittimazione svolto dalla religione nei confronti del sistema politico e della struttura sociale. Eppure, alcuni di essi si mossero in direzioni giurisdizionalistiche, accentuando la necessità dell’autonomia dello Stato dalle norme canoniche e invocando semmai il controllo di questo sull’azione della Chiesa in ambito spirituale. Altri, seguendo la strada tracciata da Muratori, si preoccuparono prevalentemente dell’aspetto etico e devozionale, mettendo in evidenza il bisogno di un impegno concreto della Chiesa nell’assistenza sociale e civile a poveri ed emarginati.

La risposta di Roma a queste sollecitazioni giunse nel 1754 per bocca di un francescano, Daniele Concina, che pubblicò un’opera dal titolo Della ragione rivelata

contro gli ateisti, deisti, materialisti, indifferentisti, che negano la verità dei Misteri,

primo testo apologetico italiano contro la cultura filosofica dei lumi11. Si stava già

elaborando un atteggiamento di chiusura che sarebbe poi appartenuto allo spazio culturale e narrativo dell’intransigentismo. Con il successore di Benedetto XIV, morto nel 1758, ossia Clemente XIII, la Chiesa accentuò questo atteggiamento, al fine di salvaguardare la religione come corpus immutabile di dottrine, istituzioni, culti e principi morali. La difesa a oltranza delle proprie posizioni (non priva di oscillazioni, seppur assai minoritarie) ebbe come conseguenza una forte perdita di iniziativa.

Sostanzialmente, in questo periodo, il modello di cristianità che la Chiesa faceva proprio era quello scaturito dalla Controriforma12. Era una prospettiva che investiva

direttamente il rapporto con la società. L’assunto era quello dell’esistenza di un mondo

11 C. Donati, La chiesa di Roma, cit., p. 753.

12 D. Menozzi, Tra riforma e Restaurazione. Dalla crisi della società cristiana al mito della cristianità medievale, in G. Chittolini, G. Miccoli (a cura di), Storia d’Italia, Annali 9, cit., p. 769.

55 cristiano in cui si intrecciavano l’elemento civile e quello religioso, le leggi dello Stato e le leggi della Chiesa, così da costituire una simbiosi profonda in grado di coinvolgere le strutture sociali13. Tutto questo si sarebbe rispecchiato poi a livello politico, in quanto la

Chiesa avrebbe cercato poteri laici e istituzioni disposte a sottomettersi alla propria autorità. Con l’avvento di Clemente XIII tramontò cioè la speranza muratoriana di una trasformazione reale dell’istituzione ecclesiastica. Ci sarebbero state forze interne al mondo cattolico che avrebbero ancora avuto come orizzonte questi cambiamenti, ma sarebbero state minoritarie. Inoltre, all’interno della Chiesa le aperture del precedente papa avevano generato un moto di reazione, prevalentemente da parte dei vescovi, i quali auspicavano un papato più forte per frenare l’invadenza dell’autorità civile.

Anche sul fronte riformista, sempre sul finire del pontificato di Benedetto XIV, aveva iniziato ad emergere la coscienza della limitatezza della prassi concordataria per la politica auspicata. La salita al soglio pontificio di Clemente XIII sancì la vittoria degli “zelanti” in direzione di un irrigidimento dell’atteggiamento ecclesiastico. Il nuovo papa si rivolse ai vescovi chiedendo ortodossia dottrinale ed emise la definitiva condanna dell’Illuminismo, chiudendo quindi in modo netto alle istanze che emergevano dalla società. Il linguaggio iniziò ad arricchirsi di echi apocalittici: la realtà del momento con i suoi mali non era altro che il castigo di Dio inviato agli uomini. La risposta doveva essere quella di placare l’ira divina attraverso il recupero di pratiche devozionali caratterizzate da una marcata esteriorità.

In questo contesto tese ad emergere, fino ad esplodere, il conflitto tra la politica giurisdizionalistica degli stati e la linea seguita dalla Santa Sede. L’oggetto della discordia fu, tra gli altri, la presenza e l’opera dei gesuiti. Le accuse rivolte alla compagnia di fomentare rivolte, prevalentemente nelle campagne, contro l’opera portata avanti dagli stati, erano argomenti non provati per liberarsi di un’istituzione che, a causa della sua presenza capillare nella società, costituiva un impedimento

56 oggettivo per il potere politico, specialmente nel momento in cui quest’ultimo aveva deciso di estendere il proprio controllo su ambiti della vita civile monopolizzati da quella. Gli stati borbonici d’Europa14, in rapida successione, procedettero ad espellere i

gesuiti15.

Il papa scese allora in campo, difendendo l’opera e il ruolo degli ecclesiastici e cercando allo stesso tempo una politica di accordo col potere statale. Questo accordo doveva fondarsi sulla condanna della cultura dei lumi e del sovvertimento sociale di cui essa era ritenuta responsabile. Il potere statale, da parte sua, tese a vigilare sulla diffusione delle nuove idee, in quanto ai suoi occhi minare la religione significava minare uno dei pilastri della coesione sociale, non intendendo tuttavia assoggettarsi al potere ecclesiastico nell’esercizio di queste funzioni.

La crisi economica degli anni ’60 impose anzi alla politica di far cassa a tutto svantaggio della proprietà ecclesiastica. In questo contesto, da parte della Chiesa iniziò allora a configurarsi una tendenza intellettuale modellata sulla cristianità medievale, alla quale il pontefice fece ricorso per evidenziare lo stato di subordinazione del potere laico nei confronti della Santa Sede. La posizione del papa non era isolata in quanto, all’interno dello stesso collegio dei cardinali, si rintracciano atteggiamenti analoghi, benché ancora incapaci di formulare una proposta organica16.

Questo irrigidimento comportò, dal punto di vista dei riformisti, l’emergere di istanze favorevoli alla messa in moto di una trasformazione ecclesiale da parte dell’autorità civile. Paradigmatica di tali dinamiche fu l’evoluzione di Antonio Genovesi. La sua idea di una Chiesa modellata sul cristianesimo evangelico delle origini, in grado di donare alla società civile pace, tolleranza e giustizia economico-sociale, si arricchì in

14 Portogallo (1759), Francia (1764), impero spagnolo e Regno di Napoli (1767), ducato di Parma (1768), Polonia e Lituania. 15 D. Menozzi, Tra riforma e Restaurazione, cit., p. 773.

57 questo periodo di temi anticuriali. A suo avviso, solo un principe cattolico poteva operare il superamento delle istanze medievalistiche del papato17.

Parallelamente a questi processi, la Chiesa andò espandendo la propria presenza ed influenza nelle campagne, presso le masse rurali. Le missioni popolari ebbero un forte slancio ad opera di diversi ordini. La devozione esteriore, che veniva promossa in questo periodo, ebbe anche una funzione consolatoria, a fronte sia dei grandi rivolgimenti culturali, sia di quelli economici e ambientali. Essa fu capace di incanalare le tensioni sociali e di sublimarle.

Il successo ottenuto nelle campagne non poteva però nascondere l’atteggiamento di ostilità nei confronti di Clemente XIII da parte di intellettuali e potenze europee. Nel 1769 salì al soglio pontificio il cardinale Giovanni Vincenzo Antonio Ganganelli col nome di Clemente XIV, un francescano abbastanza vicino agli ambienti riformatori. La sua prima enciclica, Cum summi apostolatus, mostrò una chiara rinuncia ad eventuali pretese di carattere temporalistico nei confronti dell’autorità laica. Il nuovo pontefice esortò ad abbandonare le rivendicazioni di potere per mettersi al servizio dei bisogni della società, riattualizzando l’esempio di Cristo e chiudendo alle istanze medievalistiche. Nel 1773, anche per soddisfare le istanze delle corti borboniche e per tentare di far uscire la Chiesa dall’isolamento in cui si era venuta a trovare, esso decise di sopprimere la Compagnia di Gesù, atto che implicava la rinuncia all’utilizzo dei suoi tradizionali strumenti di disciplinamento e controllo.

L’iniziativa papale permise il rinvigorirsi delle forze intellettuali favorevoli a una riforma della Chiesa e a un dialogo maturo con l’illuminismo; forze che, senza mettere in discussione la fede, e anzi cercando di tornare all’autenticità della lezione evangelica, cercarono di far proprie le trasformazioni della contemporaneità, riproponendo il tema dell’unità cristiana, della tolleranza religiosa e della carità.

17 Ivi, p. 775.

58 Da parte degli ambienti curiali, tuttavia, emersero resistenze molto forti, a tal punto che alcuni ecclesiastici si spinsero fino a sfidare apertamente le scelte del pontefice. Anche dalle campagne si fece strada un fermento popolare in opposizione al tipo di rapporto tra Chiesa e società prospettato dal papa. Nell’Italia settentrionale, prese forma un’iniziativa che costituì forse la reazione più significativa a questa politica: nacquero le Amicizie cristiane, una serie di società segrete in cui si gettarono le basi della più tarda ideologia intransigente. Feroci erano le critiche nei confronti dell’illuminismo, considerato il risultato aberrante dell’originale peccato commesso dal protestantesimo nel rifiutare la suprema autorità della Chiesa di Roma. È proprio in questi ambienti che va collocata la nascita del cattolicesimo reazionario18.

Le Amicizie cristiane videro la luce in Piemonte, regione contigua alla Francia e quindi maggiormente esposta alle pericolose idee illuministiche, per opera di un ex gesuita svizzero, Nikolaus Diessbach. L’obiettivo delineato fin dall’inizio fu di tipo pastorale, ossia la salvezza cristiana delle anime, propagandata per mezzo della “buona” stampa19.

L’idea di una struttura organizzativa orientata in tal senso era presente fin dal 1769 nelle riflessioni del suo iniziatore, che immaginava la possibilità per gruppi scelti di cattolici di influire sulle masse e informare cristianamente l’opinione pubblica. Due erano i cardini: la presenza di circoli ristretti in Europa, tali da costituire il fermento di un cristianesimo integrale che non scendeva a compromessi, e appunto la stampa come strumento di controffensiva20. Il cenacolo torinese si formò verso il 1780 e perdurò,

forte anche di una discreta diffusione, fino al 1817, anno in cui il nome dell’organizzazione mutò in Amicizia cattolica. Il manifesto programmatico era costituito da un’opera dello stesso Diessbach, apparsa nel 1771 e intitolata Il cristiano

cattolico.

18 Ivi, p. 779.

19 C. Bona, Le “Amicizie”. Società segrete e rinascita religiosa. (1770-1830), Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1962, pp. XVIII-XIX.

59 Alla fine del 1781, l’iniziativa torinese si diffuse fuori dal Piemonte, a partire da Vienna, con la partecipazione di Klemens Maria Hofbauer, che poi sarebbe stato uno dei pilastri del gruppo cattolico all’interno della capitale asburgica insieme a Friedrich Schlegel. La Vienna dell’età giuseppina fu la culla del preromanticismo religioso austriaco, che precedette quello tedesco e ne differì21. L’Amicizia cristiana vi venne

chiamata Christliche Freundschaft e costituì la reazione del cattolicesimo più intransigente contro le tendenze del tempo.

Altre esperienze di questo tipo si diffusero anche in molte parti d’Italia, andando a costituire un tessuto di confronto dialettico tra cattolici ecclesiastici e laici che si opponevano alla degenerazione culturale, politica e sociale di quegli anni. Firenze ne fu un perno, facendo da crocevia tra Vienna e Torino. Vi nacque L’Ape, organo di stampa dell’Amicizia fiorentina.

Nel 1775 salì al soglio pontificio il cardinale Giannangelo Braschi col nome di Pio VI, che impresse un netto cambio di direzione ai vertici vaticani. Non solo revocò le concessioni del suo predecessore verso gli ebrei, ma inasprì anche le discriminazioni nei loro confronti. Durissima fu inoltre la sua condanna dei lumi, causa del dilagare dell’ateismo e quindi della dissoluzione di ogni consorzio civile. L’iniziativa del pontefice andò verso il rafforzamento delle strutture di filiazione tridentina, eredità che rilanciò con rinnovato vigore, concentrandosi in particolare sull’ortodossia dottrinale del clero, con l’obiettivo di sigillare la Chiesa dalle incursioni di idee riformiste.

Mentre Pio VI si adoperava in questa direzione, a Roma, presso l’Arcadia22, si riuniva un gruppo di intellettuali con orientamento diverso. Vi si prospettava il ritorno

21 Ibidem.

22 L’Arcadia è un’accademia letteraria (tutt’ora attiva) fondata a Roma nel 1690 da Gian Vincenzo Gravina, Giovanni Mario Crescimbeni e Paolo Coardi in occasione di un incontro tra quattordici letterati appartenenti al circolo della regina di Svezia. Essa fu all’origine di un vero e proprio movimento letterario che si diffuse in tutta Italia durante il Settecento in risposta al “cattivo gusto” Barocco. Il nome voleva richiamare la tradizione dei pastori-poeti della mitica regione dell’Arcadia in Grecia. Il programma letterario ben si evince da quanto ci dice il Moroni: «I fondatori […] ebbero per principal scopo nel prendere i nomi egli usi de' greci pastori e persino il loro calendario, di romper guerra alle gonfiezze del secolo, e ritornare la poesia italiana per mezzo della pastorale alle pure e belle sue forme. Fingendosi pastori, immaginandosi di vivere nelle campagne, bandito ogni fasto, tolto fra loro ogni titolo di preminenza, studiando ne' classici greci, latini, e italiani, vennero naturalmente da sé stesse a cadere quelle ampollose metafore, que' stravolti concetti, e quello smodato lusso di erudizione, che formava la delizia non de' poeti soltanto, ma

60 della Chiesa ad un messaggio evangelico liberato dalle incrostazioni accumulate in età medievale. Si riteneva possibile un accordo tra cristianesimo e filosofia.

Di questo gruppo faceva parte anche il teologo siciliano Nicola Spedalieri (di cui