• Non ci sono risultati.

Prima di procedere, recuperando nel suo sviluppo storico lo schema ideologico relativo al mito della cristianità medievale, voglio soffermarmi sul Granducato di Toscana in questa fase, per osservare in modo analitico un contesto assai più variegato e interessante di quello che emerge da uno sguardo d’insieme. I moti antigiacobini di fine Settecento si opponevano alle riforme messe in atto dalla dinastia lorenese lungo tutta la seconda metà di quel secolo: di queste riforme è ora opportuno entrare nel merito. Nel delineare le dinamiche interne al Granducato, farò uso, laddove possibile, di una prospettiva privilegiata, ossia quella di frate Battini75.

Tutti gli stati della penisola conobbero nel Settecento uno sviluppo della politica regalistica, in particolare quelli sottoposti al governo degli Asburgo-Lorena. La linea di fondo comune fu quella di affermare il primato dell’autorità civile su quella ecclesiastica in campo secolare, rendendo il potere politico indipendente da quello religioso. Allo stesso modo, si cercò di assoggettare i vescovi alla giurisdizione del principe nelle questioni temporali, eliminare i privilegi e gli abusi perpetrati dal clero, colpire scandali e immoralità, ridurre le ricchezze e il numero degli ordini regolari e rafforzare il ruolo dei parroci nella cura delle anime. L’illuminismo fornì un sottofondo intellettuale forte a questa politica. Fu un indirizzo che procedette dall’alto e che trovò una decisa resistenza nelle masse popolari.

Come ho già accennato, il momento di maggior forza delle rivendicazioni giurisdizionalistiche iniziò con la cacciata dei gesuiti e culminò con la soppressione

75 Battini, essendo un ecclesiastico e vivendo a Firenze, attraversò da protagonista questi eventi. Nel 1785, a 28 anni, divenne reggente degli Studi della SS. Annunziata e compilatore della cronaca del convento. In queste vesti, scrisse una serie di

Ricordanze che sono state pubblicate in una raccolta di studi e documenti sulla chiesa e sul convento fiorentino nel 1978. In

questa cronaca il frate ripercorre i fatti di quegli anni (dal 1785 al 1797), le riforme leopoldine, i rapporti tra l’ordine servita e il granduca, e in generale descrive l’ambiente ecclesiastico toscano. Battini spiega chiaramente di aver voluto selezionare con criterio gli avvenimenti di cui tratta, consapevole del fatto che chi scrive [debba] attenersi alla più scrupolosa sincerità istorica e non a lodare e biasimare se non quel tanto che avrà lodato o biasimato il sentimento pubblico e generale, o che ragion vorrà che tale si giudichi, lungi da ogni privato interesse, o parzialità”. Cfr. P. Ircani (a cura di), I fatti del giansenismo toscano. Nelle

“Ricordanze” di P. Costantino Battini, O.S.M., in La SS. Annunziata di Firenze. Studi e documenti sulla chiesa e sul convento,

81 della Compagnia stessa per decreto papale nel 1773. La loro scomparsa rafforzò oggettivamente lo stato laico.

Nel 1765, Pietro Leopoldo I divenne Granduca76 e il suo avvento scosse la Toscana

con una vasta opera riformatrice, sebbene maggiormente moderata di quella dell’imperatore Giuseppe II, suo fratello, nei territori austriaci: tutti i settori ne vennero coinvolti, dall’agricoltura al commercio, dall’organizzazione amministrativa alla sfera giurisdizionale. Questa corrente riformatrice avrebbe dovuto essere recepita positivamente dalle masse contadine ed operaie, se queste fossero state mosse da rivendicazioni di carattere sociale. Le innovazioni del granduca invece vennero accolte solo dalla borghesia agraria.

I contadini ne furono i più tenaci oppositori, in quanto i ceti più umili erano di fatto esclusi dai benefici promessi da queste novità77. L’insieme delle riforme aveva

creato un diffuso stato di insofferenza, il quale esplose nel movimento controrivoluzionario, animato prevalentemente dall’attaccamento alla tradizione e alla religione. Inoltre, il rapporto tra i contadini e i loro padroni in Toscana era sostanzialmente buono, perché di tipo patriarcale, e costituiva il tessuto connettivo della società locale. Tutto questo smentisce i tentativi di leggere le insurrezioni del periodo 1790-1799 come l’espressione di rivolte basate su rivendicazioni sociali dei ceti più umili.

Dal 1751 al 1769 l’opera dei Lorena indebolì notevolmente l’istituto della manomorta ecclesiastica78 ed eliminò le immunità fiscali del clero. Pietro Leopoldo,

nella messa in atto del suo programma, si servì della collaborazione di valenti consiglieri. Le questioni di giurisdizionalismo ecclesiastico fecero capo alla segreteria del Regio Diritto. Il progetto di riforma era ambizioso, sorretto dalle teorie gianseniste

76 La dinastia medicea si era estinta nel 1737. 77 F. Leoni, Storia della controrivoluzione, cit., p. 72.

78 Consisteva nel privilegio, riservato ai beni appartenenti agli enti ecclesiastici, secondo cui questi erano inalienabili e non potevano essere trasmessi per successione ereditaria a terzi, così come non potevano essere assoggettati alle imposte di successione dello stato.

82 ed appoggiato dal vescovo di Prato e Pistoia, Scipione de’ Ricci. Esso aveva l’obiettivo di liberare la società dal controllo della gerarchia ecclesiastica. Il tutto era inglobato in un orizzonte di riforma democratica della Chiesa, in cui al centralismo romano si contrapponeva la sinodalità e la valorizzazione delle chiese locali, per non dire di quelle nazionali.

Il Battini, nelle sue Ricordanze, accenna solo brevemente alla figura del Ricci, sottolineando le sue “massime dannate”79. Insieme a questo vescovo, il granduca mise

in programma una serie di interventi fondamentali, tra cui spiccarono la soppressione della Compagnia di Gesù (per un breve periodo: 1773-1814) e di altri ordini religiosi, l’abolizione dei privilegi del foro, della censura sulla stampa e del tribunale del Sant’Uffizio, il rifiuto della superiorità dell’azione papale nell’amministrazione delle questioni secolari del clero (rispetto a cui difese l’autonomia dei vescovi), il tentativo di migliorare la preparazione culturale dei preti e tutta una serie di provvedimenti sui benefici ecclesiastici80. Sottrarre la Chiesa toscana al giogo romano era conditio sine

qua non per l’attuazione delle riforme.

Il sinodo di Pistoia del 1786 fu il momento più significativo di questo processo, naufragato però di fronte all’opposizione dei vescovi toscani e ai tumulti popolari contro il Ricci, come quello scoppiato a Prato nella notte tra il 19 e il 20 maggio 1787, ricordato dallo stesso Battini81. Nel 1790 vi fu una seconda insurrezione contro il Ricci,

questa volta di più vasta portata.

Le tensioni a lungo ignorate ed accumulate deflagrarono sotto l’influenza dei moti francesi. Le proteste scoppiarono in difesa della religione e dei valori tradizionali, e poi si allargarono fino a contestare tutta l’opera riformatrice del Granduca. Nel 1791 Pietro Leopoldo dovette lasciare il trono fiorentino, perché alla morte di Giuseppe II aveva

79 P. Ircani, I fatti del giansenismo toscano, cit., p. 322. 80 I. Biagianti, Riforme ecclesiastiche, cit., p. 114. 81 P. Ircani, I fatti del giansenismo toscano, cit., p. 340.

83 ereditato la corona imperiale. Lo sostituì il figlio, Ferdinando III (1790-1824), uomo mite che riuscì a recuperare consenso e fiducia tra la popolazione toscana.

I moti del 1790 misero di fatto alle strette il riformismo religioso, i cui provvedimenti furono aboliti nel 1791. All’orizzonte si prospettavano tempi ancora più duri, come notava lo stesso Battini nel 1793, allorché il re francese venne ghigliottinato: “In questo medesimo giorno si è divulgata la nuova purtroppo vera e funesta dell’empio e crudele attentato commesso alla persona di S.M. Cristianissima il Re di Francia Luigi Decimo Sesto […] simili intraprese […] mentre infanatiscono i cattivi, affliggono i buoni e fanno temere ovunque delle strane peripezie e rovine”82.

Certamente i riformisti non erano i soli a portare avanti il dibattito sulle questioni ecclesiologiche. Ad essi facevano da contraltare i conservatori e i papisti. Si stava infatti sempre più diffondendo il senso di una religione accerchiata, da difendere contro

philosophes ed eretici. Queste posizioni si rafforzarono di fronte alle notizie degli eventi

rivoluzionari francesi e ancor di più all’epoca dell’invasione. Le repubbliche formatesi nel così detto “triennio giacobino” furono percepite da clero e popolazione come il frutto del dilagare di una trasformazione radicale ed eversiva con effetti dirompenti. Vi era la percezione di una frattura che stava radicalizzando le divisioni già presenti83.

Il “triennio giacobino”, tra 1796 e 1799, segnò la conquista francese della penisola e la diffusione delle idee rivoluzionarie in Italia. L’occupazione militare e le usurpazioni francesi scatenarono una reazione molto forte a partire dal 1799, basata su tre parole ricorrenti: fame, paura e fede84. Questi tumulti ebbero una certa importanza, in quanto,

nonostante non provocassero conseguenze concrete sul piano politico, contribuirono a determinare una corrente intellettuale e sociale di non scarsa rilevanza.

Il periodo di dominazione napoleonica vide la popolazione italiana (tra cui quella di Firenze) attraversata da malumori. Movimenti di opposizione emersero un po’

82 Ivi, pp. 324-325.

83 Ivi, pp. 238-239.

84 dappertutto nella penisola. Tuttavia, si trattò di un periodo oggettivamente caratterizzato da maggiore stabilità e ordine.

L’ultima fase fu quella della Restaurazione, a partire dal 1814-1815. In Toscana la reazione ebbe caratteri legittimisti filo-lorenesi. Non germogliarono pensatori o attivisti. Col passare del tempo, e parallelamente all’affermarsi del movimento risorgimentale, la reazione assunse caratteri antiunitari e integralisti. Dopo la Restaurazione, gli episodi di rilievo furono rari e si legarono al sanfedismo della prima ora. Essi si verificarono nelle campagne, le quali non avevano dimenticato la lotta antifrancese, in forza della loro opposizione ai liberali e alle correnti patriottiche. Dinastia e religione, trono e altare, furono i criteri guida della reazione, unitamente all’opposizione per alcuni uomini liberal-moderati chiamati al potere dai Lorena.

Interessante è il caso specifico del Regno d’Etruria e in particolare della città di Pisa nell’età della Restaurazione85. Il Regno d’Etruria fu “il parto delle complesse

dinamiche della politica estera napoleonica. Dinamiche frutto di complicati calcoli diplomatici e di compensazioni territoriali, che portarono a Firenze la novità di una dinastia sotto molti profili estranea alla storia e alle tradizioni dell’ex Granducato”86.

Ludovico I di Borbone, primo figlio del duca di Parma Ferdinando e primo infante di Spagna, dopo aver accettato la cessione di Parma ai francesi e aver sposato la cugina Maria Luisa nel 1795, nata dal matrimonio tra Carlo IV di Spagna e Maria Luisa di Parma, si trovò improvvisamente a capo del nuovo Regno d’Etruria, sorto dopo il trattato di Lunéville. Il regno ebbe vita breve (marzo 1801 - ottobre 1807), ma uno sguardo alla cultura religiosa di questo periodo ci permette di comprendere meglio il contesto entro cui poi dovremo collocare l’Apologia e il suo autore, diviso tra Firenze e Pisa.

85 Cfr. M. Manfredi, Spagnoli a Palazzo Pitti: il Regno d’Etruria (1801-1807), Atti del convegno internazionale di studi (Firenze- Pisa, 29 novembre - 1 dicembre 2007), Consiglio regionale della Toscana, Firenze 2013, e Id., Devozione, carità e classicismo di

antico regime. Cultura della tradizione e forme della politica in una città della Restaurazione, Pacini, Pisa 2016.

85 La politica di questa fase vide il tentativo di smantellare le riforme leopoldine e in generale tutta la tradizione giurisdizionalista. Il quadro entro cui si inserì questo tentativo è fluido e difficile da schematizzare. In quegli anni, in Toscana, ripararono alcuni tra i più acerrimi nemici della Rivoluzione, tra i quali Cesare Taparelli d’Azeglio, il cardinale Fabrizio Ruffo e Giovanni Marchetti87. In precedenza, erano stati altri

territori italiani a conoscere una tale trama di relazioni, come il Piemonte88.

La situazione politico-istituzionale toscana si configurava come contesto di copertura più che come motore di queste istanze, le quali fino a quel momento le erano rimaste abbastanza estranee. Le spinte nascevano altrove. Queste relazioni erano facilitate indubbiamente dalla vicinanza con lo Stato della Chiesa. La dinastia borbonica era essa stessa estranea al contesto toscano, nel quale il riformismo leopoldino aveva lasciato tracce importanti. Anche due arcivescovi come Antonio Martini e Angiolo Franceschi, che erano di impostazione moderata (né ricciani né curialisti convinti), tridentina e non giansenista, si mostrarono freddi verso la politica ecclesiastica della nuova corte89. Sembravano piuttosto voler tutelare le posizioni di

compromesso raggiunte negli anni Novanta dal granduca Ferdinando III. L’impegno tridentino di costoro si traduceva in un’opera pastorale che investiva la devozione e la pietà, marcando una distanza e una diffidenza verso gli eccessi della religiosità dal basso, e mostrando di privilegiare le forme della regolata devozione di muratoriana memoria.

Maria Luisa, invece, si fece portatrice di una religiosità bigotta e poco profonda, teologicamente inquieta, lontana dall’equilibrio delle istanze settecentesche. Erano incentivate manifestazioni di fede in forme superficiali e superstiziose, unite ad un marcato filopapismo e ad una morale lassista e indulgente. Le concessioni di Ferdinando erano state mosse dalla paura dei tumulti e dei fatti dell’89, dirette a

87 Ivi, p. 342.

88 Cfr. supra.

86 stemperare le tensioni, cercando di conservare i tratti meno ideologici dell’impianto leopoldino.

A cercare di dare un’ossatura ideologico-culturale alle manifestazioni esteriori promosse dalla corte furono altre figure, provenienti da circoli diversi, che poterono contare sul già citato contesto di copertura offerto dai regnanti. L’Ape, che ho richiamato in precedenza, emerse in questo ambiente culturale, dando per prima voce al pensiero controrivoluzionario francese e presentandosi, di fatto, come il primo giornale cattolico italiano. Lo stesso si può dire per l’Accademia fiorentina di Religione

Cattolica90, nata nel 1806 per filiazione da quella romana del 1800. Queste esperienze

sorsero ben prima di riviste poi più famose ed ebbero un ruolo importante, seppur ancora frammentario, nel configurare la corrente del tradizionalismo italiano.

La Toscana, in effetti, all’inizio del secolo divenne “uno dei principali centri di elaborazione e diffusione delle tendenze intransigenti e ultramontane”91. L’Accademia

fiorentina raccolse aspetti e influenze del gesuitismo, come la sua obbedienza

filoromana e la fiducia nell’infallibilità del pontefice, elementi che la resero con L’Ape una “milizia di difesa attiva della religione e del Papa”92. Uno dei suoi redattori più

importanti fu proprio il già citato Cesare Taparelli d’Azeglio, presente nella capitale toscana dagli inizi dell’Ottocento, il quale si firmò sempre con lo pseudonimo di Ottavio Ponzoni93.

90 Un documento stampato a Firenze nel 1806, intitolato “Accademia fiorentina di religione cattolica istituita sotto gli auspicj di sua maestà Maria Luisa infanta di Spagna regina reggente del regno d’Etruria”, testimonia la sua istituzione. Seguiva un messaggio di “Domenico Coppola, arcivescovo di Mira presidente dell’Accademia di religione cattolica”, che in data 10 dicembre 1805 si rivolgeva “alli chiarissimi signori della nuova società sotto il medesimo titolo eretta in Firenze […] fatto il rapporto dell’erezione […] di una dotta società, sul medesimo piano, e colle medesime leggi, e istituzioni di questa romana, ed essendosi esposta la domanda della nascente società fiorentina di essere aggregata all’Accademia romana per cospirare concordemente al medesimo importantissimo oggetto d’illustrare, e difendere la nostra SS. Religione […]. La società eretta nella reale città di Firenze […] è aggregata all’Accademia […] istituita nell’alma Città di Roma, sotto gli auspici dei Sua Santità il regnante Sommo Pontefice Pio Settimo […]”. Seguivano le leggi dell’Accademia, di cui riporto solo l’articolo I: “L’Oggetto di questa Accademia sarà di promovere lo studio della Religione Cattolica per far argine agli errori correnti, e preservarne la gioventù anche secolare”. Seguono l’elenco degli accademici per ordine alfabetico, la “cantata dell’illustrissimo e reverendissimo Sig. Canonico Giuseppe Mancini”, il discorso introduttivo del sig. dottore Lorenzo Cantini e, infine, l’elenco degli argomenti da trattarsi nelle adunanze dell’anno 1806. Cfr. anche M. Manfredi, Spagnoli a Palazzo Pitti, cit., pp. 372 e seg.

91 Ivi, p. 372. 92 Ibidem.

93 C. Bona, Le Amicizie. Società segrete e rinascita religiosa (1770-1830), Deputazione subalpina di storia patria, Torino 1962, p. 249.

87 Da alcune testimonianze del tempo94, si evince che l’Accademia sarebbe stata

istituita tramite i membri dell’Amicizia fiorentina (e sempre tramite questi sarebbe nata L’Ape). Essa sarebbe stata cioè il frutto della collaborazione tra questi stessi membri e avrebbe perseguito i medesimi scopi. Ora, se guardiamo l’elenco dei suoi aderenti, notiamo che in uno Stato ancora parzialmente libero dal dominio diretto della Francia quest’esperienza attecchì tra canonici, abati e regolari degli ordini maggiormente colpiti dalle riforme, i quali furono più numerosi dei secolari, rivelando in questo modo il loro maggior integralismo. I notabili locali restarono su posizioni meno oltranziste, prevalentemente fedeli al sovrano lorenese. Oltranzisti erano anche alcuni alti patrizi, qualche ecclesiastico di antico lignaggio e alcuni vescovi filoromani per formazione e convinzioni95. Tra costoro, tutti disposti ad unirsi ad una crociata

ultracattolica, troviamo padre Costantino Battini96 e l’anziano georgofilo Luigi

Tramontani, accademico romano e membro con Battini della Società Colombaria97.

Proprio Battini tenne, nel 1806, ad una conferenza d’apertura presso l’Accademia

fiorentina, una dissertazione sul tema del rapporto necessario tra natura e divinità98.

Con un tale programma oltranzista, l’Accademia fiorentina si dimostrò troppo radicale. Essa mandò su tutte le furie i rappresentanti napoleonici, così venne rapidamente sospesa e poi soppressa ancor prima che i francesi a Roma mettessero a tacere l’Accademia madre. Lo stesso si può dire per L’Ape, che cessò la sua attività nel 1806.

In sostanza, in questo periodo, venne formandosi in Toscana un clima culturale rivolto al passato. La direzione verso cui la corte borbonica orientò la politica

94 Ibidem.

95 M. Manfredi, Spagnoli a Palazzo Pitti, p. 375.

96 Battini compare nel documento (riportato alla nota 86) tra i “direttori de’ dialoghi” e come relatore sia dell’argomento dell’adunanza del 16 gennaio 1806, dal titolo “La contemplazione della Natura conduce necessariamente l’uomo a riconoscere una divinità. Ordine dell’universo relativamente alla conservazione degli Esseri”, sia di quello dell’adunanza del 31 luglio successivo, dal titolo “L’idea di Dio non è originata dalle confuse nozioni di spiriti deboli”.

97 Ivi, p. 376. La Colombaria nasce a Firenze nel 1735, fondata da Giovanni Girolamo de’ Pazzi. Essa nacque con l’intenzione di riunire un gruppo di persone colte appassionate alla storia e all’antichità, alla filologia e alle scienze. Ne fu membro anche Ludovico Antonio Muratori.

88 ecclesiastica fu quella di una ri-evangelizzazione della società. Emblematici ne sono anche i soggetti con cui vennero coperte le sedi vescovili vacanti, tutti orientati ad una spiritualità di segno anti-giansensita.

Con la soppressione dell’Accademia fiorentina, i francesi presero direttamente le redini del governo, sperando di cancellare di colpo le istanze gesuitiche, le quali, tuttavia, non sarebbero più scomparse, andando a costituire una corrente di pensiero animata da ecclesiastici, polemisti, editori e patrizi conservatori, così come da giornali, per esempio il Giornale degli apologisti della religione cattolica di Firenze e Il

Commercio, instancabile traduttore e propagatore, per tutta la Restaurazione, di testi

della controrivoluzione e di autori ultraconservatori francesi99.

Ulteriori elementi per chiarire il contesto sociale e culturale del tempo ce li fornisce l’analisi della città di Pisa, a partire dal lavoro di Marco Manfredi100. Pisa infatti può

essere considerata un “caso emblematico degli umori e dei gusti dominanti in tanta provincia italiana della Restaurazione”101. In questo caso lo studio di tale contesto

specifico può, con tutte le cautele del caso, essere generalizzabile, svelando un fenomeno più vasto che attraversa trasversalmente la società italiana. Chiaramente lo stesso Manfredi nota che servirebbero “studi adeguati”102 per poter effettuare questa

operazione in modo legittimo.

La cultura dominante, per quanto riguarda le élites a Pisa, per tutto il periodo della Restaurazione, fu caratterizzata da tendenze antiromantiche riconducibili ad un classicismo tardoarcadico fortemente radicato nella tradizione italiana. Il notabilato locale, a cui appartenevano coloro che occupavano cariche pubbliche, si dimostrò maggiormente legato ai riti, ai miti e alle pratiche tradizionali quotidiane. Tra coloro che godevano di maggiore prestigio sociale non c’erano figure del campo moderato. I

99 Ivi, pp. 399-400.

100 M. Manfredi, Devozione, carità e classicismo di antico regime. Cultura della tradizione e forme della politica in una città della

restaurazione (Pisa 1799-1861), Pacini, Pisa 2016.

101 Ivi, p. 22. 102 Ibidem.

89 movimenti della Firenze moderata interessavano a Pisa altre figure: docenti forestieri dell’ateneo, qualche impiegato, più in generale esponenti della borghesia medio- piccola. Su questi cardini si sarebbe poi innestato l’entusiasmo politico del 1848.

Il ceto dirigente pisano invece aderiva ad un marcato conservatorismo sul piano intellettuale, che si legava ad un orgoglioso classicismo di Antico Regime, antiromantico e nemico delle innovazioni del secolo103. Tale filone conservatore,

tuttavia, non coincideva in toto con la corrente più propriamente controrivoluzionaria e reazionaria della Restaurazione104. Quest’ultima non esprimeva infatti l’intento di

tornare all’Antico Regime, ma tendeva a superarlo, richiamandosi al mito della cristianità medievale e ad un ordine fondato su dottrine antiche.

Il conservatorismo cui tendeva il ceto dirigente pisano era invece legato alle posizioni del Settecento. Esso si collocava in un orizzonte dialogico sia con gli esponenti