• Non ci sono risultati.

4. La Chiesa contro L’ideologia di cristianità

4.1. Fermenti prerivoluzionari

Dal punto di vista semantico, il termine cristianità non sembra aver assunto prima dell’Ottantanove un’accezione di carattere civile che concepisse una società subordinata al cristianesimo. Aveva semmai un carattere descrittivo, indicante la condizione religiosa di una parte dell’umanità43. Eppure, prima della Rivoluzione, si erano già

avviati dei processi capaci di far emergere elementi che poi sarebbero confluiti nel mito della cristianità elaborato nell’età romantica.

Sicuramente un loro peso nell’elaborazione intellettuale lo ebbero le Idee di Herder, ma in realtà fermenti culturali che andavano in quella direzione erano presenti già da prima in seno alla Chiesa. Si trattava di istanze di carattere teologico-politico riguardanti il rapporto tra Chiesa e società che erano emerse in ordine sparso, prive dell’organicità di un progetto che si sarebbe profilato più tardi.

42 Per una prospettiva maggiormente politica sul mito della cristianità, cfr. M. Battini, L’ordine della gerarchia, cit., pp. 66 e seg. 43 D. Menozzi, La chiesa cattolica e la secolarizzazione, Einaudi, Torino 1993, p. 15.

112 Un primo elemento era dato dalla convinzione che il papato dovesse essere l’organo supremo per redimere controversie e conflitti. Alla Santa Sede era cioè attribuito un notevole potere giurisdizionale, che veniva ribadito nonostante fosse tramontato il fondamento di tale istanza, ossia il consenso dei popoli. Troviamo traccia di questa idea negli scritti di Müller e, cosa assai importante, nell’antologia dei testi di Leibniz sulla religione, pubblicati nel 1772 dal sacerdote J. A. Emery, opera che riservava ampio spazio alle idee del filosofo tedesco in cui era espressa una valutazione positiva del papato, in quanto capace di assicurare la pace alla respublica christiana44.

Un ulteriore elemento emerse dalla riflessione degli apologeti contro la cultura dei Lumi. Nel momento in cui si fondava la costituzione della società civile e del governo su di un patto, erano scalzate dalle fondamenta la dimensione religiosa e l’istituzione che la incarnava. La replica non tardò ad arrivare: non si dava società civile senza religione. Il cristianesimo dette forma nella storia alle virtù sociali che consentirono la sopravvivenza della comunità erosa dalle istanze individualistiche della cultura illuminista. Alcuni si spinsero a reclamare la guida papale ed ecclesiastica del consorzio civile al fine di superare la disgregazione.

Non si trattava solo di antigiurisdizionalismo, con cui si reclamava il controllo sullo Stato da parte del pontefice, in quanto si poneva l’accento sul fatto che solo nella Chiesa cattolica, in virtù della sua struttura gerarchica, potesse trovarsi una forza capace di imporre ordine alla società. Pio VI aveva fatto suo questo orientamento, assorbito e rilanciato tramite l’enciclica Inscrutabile divinae sapientiae del 1775. I sovrani, nell’ottica del pontefice, non sembravano percepire il pericolo. Erano quindi i vescovi a doversi mobilitare per condurre frontalmente la lotta, rafforzando le istituzioni di derivazione tridentina. Molti vescovi, in questo modo, fecero propri i moniti papali. Il già ricordato Giornale ecclesiastico di Roma si orientò in questa direzione.

44 Ivi, p. 17.

113 Altri settori della Chiesa, non rivolti allo scontro con la modernità, cercarono invece di ricomprendere entro gli schemi della teologia politica cattolica alcuni argomenti della cultura dei Lumi. In questa direzione si mosse Nicola Spedalieri, che nel 1779 lesse all’Arcadia romana il Ragionamento sull’influenza della società civile. C’erano però anche altre correnti appartenenti all’illuminismo cattolico che si muovevano in direzione ben diversa, come abbiamo già avuto modo di osservare.

Un altro elemento da prendere in considerazione nel processo generativo di quello che sarebbe divenuto il paradigma della cristianità medievale è la saldatura tra due concezioni rimaste fin ad allora disgiunte: da una parte, la polemica antilluministica, dall’altra la controversia antiprotestante che aveva condotto ad un giudizio drastico sulla Riforma. Già Nikolaus Diessbach nel 1771, nell’opera Il cristiano cattolico, sostenne la filiazione della cultura dei Lumi dall’iniziale satanica rottura della Riforma, colpevole di rifiutare l’autorità della Chiesa45.

Ancora non c’era una risposta a questa degenerazione moderna nelle forme dell’elaborazione di uno schema che prevedesse il ritorno alla cristianità medievale. Eppure, entro una tale riflessione, l’abate veneziano G. M. Ortes, nel trattato Della

religione e del governo dei popoli del 1780, poteva sostenere che il sistema messo in

atto da Carlo Magno e Leone III, e poi restaurato dal Gregorio VII, avesse costituito l’inveramento dei principi politici e sociali del cristianesimo. Nonostante molti dei caratteri passatisti si perdessero nel seguito del trattato sopra citato, era ormai delineata una preferenza verso quella forma di cristianità che aveva preso corpo nel Medioevo.

Un ultimo elemento era costituito dalla revisione della convinzione che i mali che affliggevano la Chiesa nella modernità fossero il frutto dei castighi inviati da Dio. Era un’idea già diffusa nel corso del XVIII secolo, che negli anni precedenti la Rivoluzione tese a connotarsi diversamente. Il peccato sociale era quindi individuato nell’autonomia

114 rivendicata dal giurisdizionalismo rispetto alle direttive della Chiesa. Parimenti, la via per evitare ulteriori flagelli divini veniva individuata nella promozione di culti e devozioni riparatori.

È evidente che queste riflessioni investissero il rapporto tra Chiesa e società. Iniziavano a configurarsi elementi che solo il catalizzatore costituito dalla Rivoluzione avrebbe condotto ad una sistemazione. Mancava ancora questa organicità, mancava la concezione della cristianità medievale come paradigma capace di rispondere alle trasformazioni in atto e di spiegarle. Si trattava ancora di elementi sparsi; gli atteggiamenti medievalisti emergenti a macchia di leopardo anche in seno alla curia romana non erano altro che atteggiamenti forse nostalgici di un rapporto tra Chiesa e Stato che non c’era più.

Nell’Europa prerivoluzionaria, stati e società cristiane dopo tutto esistevano. Inoltre, nel mondo cattolico nessuno, pur nelle diversità (finanche nelle antitesi) di visioni legate al ruolo del sovrano, ai fondamenti dell’autorità politica e alle forme della presenza ecclesiastica nella società, aveva messo in discussione la centralità della Chiesa nella vita collettiva46. Mancava ancora, inoltre, il radicalismo dello scontro totale

tra bene e male, schema proprio dell’intransigentismo ottocentesco. Sarebbe stata la Rivoluzione a sconvolgere le carte in tavola e a creare le condizioni per la confluenza di questi elementi entro uno schema organico.