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Il mondo e il sacro

4.1 Chiesa e mondo

Il concetto di «mondo» della Chiesa cattolica con cui lavora l’ecclesiologia legata al pensiero di Papa Benedetto XVI, è molto vicino alla nozione del Kosmos.Ma la valorizzazione del «mondo contemporaneo» viene operata dal Concilio Vaticano II

grazie soprattutto alla Gaudium et spes174. Anzi, questa ha operato un vero e proprio

«mutamento di paradigma».Per limitarci all’ultimo cinquantennio, la frase dell’immediato post-concilio è stata animata per lo più dal paradigma socio- umanitario e da quello democratico-pluralista; se il pontificato di Paolo VI ha visto soprattutto spandersi in Italia del paradigma intellettual-culturale, quello di Giovanni Paolo II sembra essere contrassegnato in gran parte dai paradigmi mistico-estetico e politico-integrista. Per contro, il pontificato di Benedetto XVI, con i connessi dibattiti sorti anche in Italia in seguito di alcuni suoi interventi pubblici, e vertenti soprattutto sulla poliforme nozione di «relativismo» e sul rapporto tra fede e ragione

(si pensi in maniera particolare alle reazioni suscitate dalla lezione di Regensburg175),

pare che per un verso richiamare in auge un paradigma intelletual-culturale, ma per ampio verso lascia ampio spazio anche all’espandersi del paradigma tradizionalista,

174 Cfr. L. Sartori, La chiesa nel mondo contemporaneo. Introduzione alla «Gaudium et spes», EMP,

Padova 1995.

175 Fornisce un interessante status quaestionis di tale dibattito L. Savarino (a cura di), Laicità della

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orientato soprattutto a sottolineare la valenza del cristianesimo come «religione

civile», ovvero come carattere pregnante della civiltà occidentale176.

Credo si sbaglierebbe a voler liquidare questo mutamento di paradigma tout court sotto la categoria del «neo-temporalismo». non esente da tentazione neo- temporalistiche e immanentistiche è stata forse, nel post-sessantotto (almeno a dar

credito alla provocante tesi di Pietro Piovani177), una certa radicalizzazione del

paradigma socio-umanitario, di sicuro non esente da tentazioni neo-temporalistiche e immanentistiche è stata l’interpretazione del paradigma integrista vigorosamente condotta in anni recenti dalla conferenza episcopale italiana sotto la gestione del card. Camillo Ruini. Il paradigma tradizionalistico del pontificato ratzingeriano è invece, come si è tentato di dimostrare, fortemente improntato in una visione immanentistica, ma escatologica. Per inverarsi esso ha però bisogno di scaturire in se stesso un nesso inscindibile tra la dimensione della chiesa invisibile intesa come corpo mistico (l’aura solitudo) e la dimensione della chiesa visibile intesa come corpo giuridico (il desiderabile coenobium). Da qui discende – quasi come analogon contemporaneo dell’antica teoria del «braccio secolare» – la ricerca di un’«azione di sponda» da parte dei teocon (rappresentati in Italia da Marcello Pera o Giuliano Ferrara), pur se ciò può costare il prezzo doloroso della sconcertata riproposta, da parte di molti fedeli, del medesimo rimprovero mosso da Margarethe a Faust: («Da tempo m’addolora vederti in tale compagnia…).

D’altronde, si tratta di una «strategia» ben evidenziabile anche a livello intra- ecclesiale, come ha testimoniato il discorso di Papa Benedetto XVI alla curia romana del 25 dicembre 2005. In esso, appare chiaro il tentativo papa Ratzinger di tradurre teologicamente il paradigma tradizionalistico in quella che egli stesso definisce «ermeneutica della continuità». Nella chiesa, è la sua tesi, non vi è un’alternanza di innovazione e restaurazione, ma – pur con tutte le oscillazioni storiche del caso – un

176 Il mondo peculiare in cui il concetto di «religione civile» è entrato a far parte del dibattito italiano è

ben esemplificato nel volume di M. Pera, J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo. Cristianesimo;

Islam, Mondadori, Milano 2004; si veda anche per un orizzonte più esteso del concetto, J. Ratzinger, J.

Habermas, Etica, religione e stato liberale, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2008.

177 Cfr. P. Piovani, Da un temporalismo all’altro, in Id. (a cura di), Un secolo da porta Pia, Guida,

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unico continuum: è questo continuum a consentire di tenere assieme aspetti che, dal punto di vista logico, sembrerebbero incompatibili, come fedeltà alla linea del Vaticano II e nel contempo fedeltà all’ecclesiologia piana (con il connesso processo di beatificazione di papa Pacelli), apertura ecumenica (si pensi alla recente visita alla sinagoga di Roma) e nel contempo riammissione dei lefebvriani, attenzione al mondo dell’intellettualità colta e «illuminata» e nel contempo via libera alla restaurazione di prassi liturgiche che si credevano sorpassate (il latino anziché la lingua autoctona, la celebrazione all’altare rivolto al muro anziché al popolo, la rimessa in auge di parametri e «accessori» solenni, ecc.). Ora, non è questa forse la sede per analizzare come sia sotto molti aspetti dubbio che questa «ermeneutica della comunità» possa in effetti rendere ragione del pneuma profetico che alitava nel principio dell’Identitas in

novitate, novitas in identitateimplicitamente attivo e operante nel Concilio Vaticano

II; resta piuttosto il timore che essa finisca invece inesorabilmente per tradursi in una nera e ossessiva ripetizione meccanizzata della novitas.

Ancora oggi, a trentaquattro anni di distanza, vale dunque la pena di rileggere e meditare a questo riguardo le parole con cui il filosofo Alberto Caracciolo interpretava in tentativo del Vaticano II di unire in feconda sintesi l’esperienza religiosa individuale e soggettiva con il linguaggio deputato a comunicare e trasmettere pubblicamente quell’esperienza:

Il Vaticano II nasce sul piano istituzionale cattolico, con forza pastorale più intensa (e ciò forse, non malgrado, ma proprio anche grazie a quella meditazione istituzionale), da un problema assai vicini a quello da cui, il campo protestante, una ventina d’anni prima, era nato, su piano non istituzionale, il dibattito sulla demitizzazione. La chiesa conosce se stessa come annunciatrice di un messaggio di verità salvifica universale, avverte che il suo annunciare non trova l’eco che l’intrinseca natura e destinazione di questo comporterebbero: il suo annunciare, “cristiano”, si afferma già distinto, anzi in confronto di quelle chiese che pure predicano il Cristo; il suo annunciare, “religioso”, si arresta conflittualmente di fronte a quello di religioni che, in quanto tali, pur nella diversità del motivo e della formulazione teologica, dovrebbero avere comune il fatto di riguardare la stessa dimensione dell’esistere e il fatto di alludere in qualche modo allo stesso termine intenzionale… Perché il parlare della chiesa non trova ascolto? Perché – per usare una distinzione heideggeriana – parla e non dice? Si tratta di annunciare la parola che salva parlando in modo che attraverso la Parola annunciata quella Parola dica se

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stessa. La Parola che salva è evidentemente nella concezione cristiana cattolica non una semplice dottrina che si predica, ma una grazia che, manifestandosi, si

compie178.

Perché, dunque, la «Parola non dice?» Un’altra filosofa in tempi più recenti, Roberta De Monticelli, in una sua Lettera ai cristiani, ragionando sul noto dictum del dostoevskijano Ivan Karamazov: «se Dio non c’è, tutto è lecito», ha avanzato l’ipotesi che questo «non dire» della parola sia il frutto di un’indebita lettura «volontaristica» dell’etica e della questione della verità, in base alla quale il Bene e la verità sarebbero tali perché voluti da Dio. A questa visione si contrappone quella per cui Dio vuole la verità e il bene in quanto appunto verità e bene in sé (il che implica che si, per la loro legittimazione, non devono ricorrere al postulato

dell’esistenza di Dio, sono cioè validi etsi Deusnon daretur)179. Si tratta di un tema

come ricorda la stessa De Monticelli, classicamente fissato nell’Eutifrone di Platone in questo celebre dilemma «Il Santo viene amato dagli Dei in quanto è santo, oppure

in quanto viene amato è santo?»180, e che poi – come sottolinea Roberto Celada

Ballanti in un denso e articolato volume sul «pensiero religioso liberale» – ha trovato la sua formulazione decisiva e definitiva, in età moderna, nella più celebre e capitale delle «antitesi» di Gotthold Ephraim Lessing ai Frammenti di Hermann Samuel

Reimarus181.

Si hanno fondati motivi per ritenere che sia proprio dal ripensamento della nozione basilare su cui essa fa perno, ossia la distinzione tra la «lettera» e lo «spirito» che possa provenire un qualche sviluppo promettente, anche per il dibattito italiano, in ordine alla meditazione del rapporto tra la religione come fatto privato e la religione come momento di una dimensione pubblica: la lettera non è lo spirito e la Bibbia non è la religione… la religione non è vera, perché gli evangelisti e gli

178 A. Caracciolo, Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli 1976, pp. 152-153.

179 Cfr. R. de Monticelli, Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani, Baldini Castoldi Dalai, Milano

2007.

180 Platone, Eutifrone, 6b (versione di G. reale).

181 Cfr. R. Celada Ballanti, Pensiero religioso liberale. Lineamenti, figure, prospettive,

Morcelliana,Brescia 2009, pp. 56-64. La centralità dell’antitesi di Lessing per il «pensiero religioso liberale» era già stata evidenziata, dallo stesso, nel saggio Liberalità e Modernità. Contributo a una

determinazione storica e teorica del pensiero religioso liberale, in F. Ghia (a cura di), Pensiero religioso liberale, in Humanitas 5-6 2006, pp. 797-837.

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apostoli la insegnano; ma essi la insegnarono perché è vera. Le tradizioni scritte devono essere spiegate muovendo dalla verità interna della religione, e tutte le

tradizioni scritte non possono darle alcuna verità interna, se quella ne è priva182.