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4. STRATEGIE NUTRIZIONALI

4.6. CIBI CON EFFETTO GOITROGENO

Alcune piante utilizzate a scopo alimentare contengono i cosiddetti goitrogeni, delle sostanze che interferiscono con l’uptake tiroideo dello iodio e/o inibiscono la sintesi degli ormoni tiroidei favorendo la comparsa del gozzo. La scoperta dei goitrogeni risale al 1928, quando Chesney e colleghi scoprirono che la tiroide dei conigli alimentati con grandi quantità di cavoli aumentava significativamente di volume (Eastman & Zimmerrman, 2018). Le cellule dei cavoli, così come quelle di altre crocifere o brassicacee (broccoli, cavolfiori, cavoletti di Bruxelles, rape, ravanelli, rucola, senape, rafano, colza...), contengono dei composti glucosidici solforati noti come glucosinolati, conservati nel vacuolo a scopo essenzialmente protettivo.

Quando i tessuti vegetali vengono danneggiati, per esempio dal morso di un erbivoro, i glucosinolati entrano in contatto con l’enzima citosolico mirosinasi, che idrolizza il legame glicosidico liberando sostanze amare e pungenti come i tiocianati e gli isotiocianati (Chandra, 2015). L’idrolisi di alcuni glucosinolati, in particolare dei glucosinolati indolici come la glucobrassicina e i suoi derivati, produce isotiocianati instabili che si decompongono spontaneamente in indolo-3-carbinolo (studiato per le sue proprietà antitumorali) e anione tiocianato (SNC-) (Felker et al., 2016). Avendo una carica e una dimensione molto simili a quelle dello ioduro, l’anione tiocianato può competere con quest’ultimo per l’accesso al NIS, riducendone l’uptake da parte della tiroide; in aggiunta, ne aumenta l’efflusso e può inibire la iodazione della tireoglobulina (Chandra, 2015). L’idrolisi del glucosinolato progoitrina, invece, genera un isotiocianato instabile che ciclizza spontaneamente in goitrina, una molecola in grado di interferire con il metabolismo dello iodio e con l’attività della TPO (Felker et al., 2016).

Le crocifere con la maggior concentrazione di glucosinolati indolici, in grado di generare anioni tiocianato, sono il cavolo riccio o “kale” (840 µmol/100 g), il cavolo siberiano (465 µmol/100 g) e i cavoletti di Bruxelles (392 µmol/100 g), mentre le cime di rapa, il cavolo cinese e i broccoli ne contengono meno di 100 µmol/100 g. Diversi studi riportano che la concentrazione fisiologica di anione tiocianato nel plasma può variare tra i 40 e i 120 µM senza effetti negativi sulla funzionalità tiroidea e si stima che una porzione di crocifere contenente 200 µmol di glucosinolati indolici possa aumentare i livelli di tiocianato nel plasma di 10 µM al massimo.

La goitrina si trova in concentrazioni superiori a 100 µmol/100 g nel cavolo siberiano e in alcune varietà di cavoletti di Bruxelles e in concentrazioni comprese tra le 10 e le 100 µmol/100 g in altre varietà di cavoletti di Bruxelles e nel cavolo cinese; il cavolo riccio, i broccoli e le cime di rapa, invece, ne contengono meno di 10 µg/100 g. Uno studio riporta che 194 µmol di goitrina riducono l’uptake tiroideo del radioiodio negli esseri umani, mentre 77 µg no (Felker et al., 2016); inoltre, un esperimento condotto su 10 volontari ha dimostrato che il consumo giornaliero di 150 g di cavoletti di Bruxelles per 4 settimane non influenza la funzionalità tiroidea (McMillan et al., 1986).

Cucinare le brassicacee ne riduce significativamente il potenziale goitrogeno, in quanto le alte temperature inattivano la mirosinasi e i glucosinolati si disperdono

nell’acqua di cottura (Ciska & Kozlowska, 2001). Sconsigliarne del tutto l’utilizzo alle pazienti con tiroidite di Hashimoto non sembra avere giustificazioni logiche, soprattutto se si considerano le proprietà antiossidanti, antiinfiammatorie e immunomodulatorie conferite loro dai glucosinolati stessi (Wagner et al., 2013). Le crocifere sembrano rappresentare un problema per la funzionalità tiroidea solamente quando consumate in eccesso per un periodo di tempo prolungato e/o in presenza di una concomitante carenza di iodio (Eastman & Zimmerrman, 2018). Nel 2010, per esempio, una donna cinese di 88 anni è finita in coma mixedematoso (la forma più grave di ipotiroidismo) dopo aver consumato per diversi mesi 1-1,5 kg di bok choy (cavolo cinese) crudo al giorno (Chu & Seltzer, 2010). Studi svolti in Zaire suggeriscono che il rischio di sviluppare il gozzo dipende dal bilancio tra ioduro e tiocianati ed è particolarmente elevato quando il rapporto tra le concentrazioni urinarie dei due anioni (normalmente superiore a 7) raggiunge livelli pari o inferiori a 3.

In realtà, in Zaire la principale fonte di tiocianato non sono le crocifere ma la cassava (manioca), che costituisce uno degli elementi basilari della dieta del Paese. La cassava contiene il glucoside cianogenetico linamarina, che una volta idrolizzato dalla linamarasi rilascia l’anione cianuro (CN-), metabolizzato a livello epatico nel meno tossico SCN- (Chandra, 2015). La linamarina è più concentrata nelle varietà amare di cassava, mentre quelle dolci ne contengono una quantità ridotta; le giuste tecniche di lavorazione (ammollo, essiccazione al sole, fermentazione e tostatura) ne rimuovono comunque circa il 98% (Montagnac, et al., 2009).

In alcune parti dell’Asia, la persistenza del gozzo endemico nonostante il raggiungimento di adeguati livelli di iodio sembra imputabile al regolare consumo di germogli di bambù, che contengono elevate concentrazioni del glucoside cianogenetico taxifillina (Chandra et al., 2013). Bollire i germogli in acqua salata ne riduce considerevolmente il potenziale goitrogeno (Pande& Oiha, 2014).

Un altro cibo che sembra interferire con il funzionamento della tiroide è il miglio perlato, un cereale che è alla base dell’alimentazione di molti popoli africani e in diverse parti dell’India. In questo caso l’effetto goitrogeno è imputabile ad alcuni flavonoidi, in particolare alla vitexina e all’orientina, capaci di inibire l’attività della TPO e

delle deiodinasi periferiche. Dato che i flavonoidi si concentrano negli strati esterni del chicco, la decorticazione ne abbassa significativamente il livello (Gaitan et al., 1989).

Un discorso a parte merita la soia, che grazie all’elevato contenuto di isoflavoni (fitoestrogeni) sembra avere effetti molto positivi nelle donne affette da PCOS. In uno studio iraniano, la somministrazione di 50 mg di isoflavoni di soia per 12 settimane ha prodotto un significativo miglioramento della sensibilità insulinica e una riduzione della trigliceridemia e dello stress ossidativo nelle donne affette dalla sindrome; inoltre, ha ridotto significativamente i livelli di testosterone totale e amplificato la sintesi epatica di SHBG, attenuando l’iperandrogenemia (Jamilian & Asemi, 2016). I principali isoflavoni della soia, genisteina e daidzeina, sembrano però avere effetti goitrogeni. In vitro, ad esempio, inibiscono irreversibilmente l’attività della TPO, anche se questo - nei ratti - non sembra avere conseguenze né sui livelli di ormoni tiroidei né sul TSH. In aggiunta, genisteina e daidzeina possono interferire con il funzionamento del recettore degli ormoni tiroidei e con l’assorbimento intestinale della LT4 (EFSA Panel on Food Additives and Nutrient Sources added to Food, 2015). Nel 2011, uno studio ha evidenziato che la somministrazione giornaliera di 2 mg di isoflavoni di soia - rappresentativi del tipico consumo occidentale – per 8 settimane non altera la funzionalità tiroidea nei pazienti con ipotiroidismo subclinico, mentre la somministrazione di 16 mg di isoflavoni - rappresentativi di una dieta vegetariana - favorisce la progressione verso l’ipotiroidismo conclamato nel 10% dei pazienti (Sathyapalan et al., 2011). Una recente meta-analisi, condotta su un totale di 18 studi, ha concluso che l’utilizzo di integratori a base di isoflavoni di soia è associato ad un modesto ma significativo aumento del TSH (+10%). L’incremento, molto probabilmente innocuo per la popolazione generale, potrebbe avere un significato clinico rilevante nei soggetti con funzioni tiroidee già compromesse (Otun et al., 2019).

Per quanto riguarda la tiroidite di Hashimoto, un’indagine retrospettiva pubblicata nel 1990 ha evidenziato un’associazione tra intake di latte di soia in formula e prevalenza della malattia nei bambini; un documento cinese più recente riporta il caso di una donna sana che ha sviluppato la tiroidite autoimmune dopo aver bevuto un litro latte di soia al giorno per oltre un anno (Fort et al., 1990; Ma & Li, 2015). Al contrario, uno studio pubblicato nel 2017 ha riscontrato un significativo miglioramento della

funzionalità tiroidea e una riduzione dei titoli anticorpali in un gruppo di 218 pazienti eutiroidee affette da tiroidite di Hashimoto dopo la somministrazione di genisteina; gli effetti, secondo gli autori, sarebbero dovuti alle proprietà immunomodulatorie dell’isoflavone, in particolare a livello dei linfociti Th1 (Zhang et al., 2017). In attesa di ulteriori studi è consigliabile che le donne con tiroidite di Hashimoto e PCOS consumino la soia e i prodotti a base di soia in modo saltuario, così da prevenire eventuali influenze negative sulla funzionalità tiroidea.