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Relazione tra tiroidite di Hashimoto e sindrome dell'ovaio policistico: aspetti comuni, strategie nutrizionali e ruolo del mio-inositolo.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Farmacia

Corso di Laurea Magistrale in

Scienze della Nutrizione Umana

TESI DI LAUREA

RELAZIONE TRA TIROIDITE DI HASHIMOTO E SINDROME DELL’OVAIO

POLICISTICO: ASPETTI COMUNI, STRATEGIE NUTRIZIONALI E RUOLO

DEL MIO-INOSITOLO

Relatore:

Prof. Alessandro Antonelli

Correlatore:

Dott.ssa Silvia Martina Ferrari

Candidata:

Dott.ssa Valentina Caldart

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Alla mia famiglia; e al mio Imad.

(3)

INDICE

1. INTRODUZIONE

...

4

1.1. LA SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO ...4

1.2. LA TIROIDITE DI HASHIMOTO ...5

1.3. LA PREVALENZA CONGIUNTA ...6

2. CAUSE COMUNI

...

9

2.1. LA GENETICA ...9

2.1.1. Tiroidite di Hashimoto e genetica ...9

2.1.2. PCOS e genetica ...10

2.1.3. Geni in comune? ...12

2.2. RUOLO DEL SISTEMA IMMUNITARIO ...14

2.2.1. La tolleranza immunitaria ...15

2.2.2. Il paradigma Th1/Th2/Th17/Treg ...15

2.2.3. Tiroidite di Hashimoto e sistema immunitario ...17

2.2.4. PCOS, infiammazione e sistema immunitario ...18

2.2.5. Il ruolo del timo ...19

2.3 GLI ORMONI SESSUALI ...20

2.3.1. Autoimmunità e ormoni ...20

2.3.2. Effetti degli ormoni sessuali sul sistema immunitario ...22

2.3.3. Donne in età fertile, ormoni e sistema immunitario ...22

2.3.4. Ormoni e PCOS ...24

2.3.5. Tiroide e ciclo ovarico ...25

3. ASPETTI METABOLICI COMUNI

...

27

3.1. PESO CORPOREO ...27

3.1.1. Tiroidite di Hashimoto e peso corporeo ...27

3.1.2. PCOS e peso corporeo ...29

3.1.3. Tiroidite di Hashimoto, PCOS e peso corporeo ...32

3.2. INSULINO-RESISTENZA ...32

3.2.1. Tiroidite di Hashimoto e insulino-resistenza ...33

3.2.2. PCOS e insulino-resistenza ...35

(4)

3.3. PROFILO LIPIDICO ...40

3.3.1. Il profilo lipidico nella tiroidite di Hashimoto ...40

3.3.2. Il profilo lipidico nella PCOS ...43

3.3.3. Tiroidite di Hashimoto, PCOS e profilo lipidico ...45

3.4. IPERTENSIONE ...46

3.4.1. Tiroidite di Hashimoto e ipertensione ...47

3.4.2. PCOS e ipertensione ...48

3.4.3. Tiroidite di Hashimoto, PCOS e ipertensione ...49

3.5. TIROIDITE DI HASHIMOTO, PCOS E SINDROME METABOLICA ...50

4. STRATEGIE NUTRIZIONALI

...

52

4.1. IL RUOLO DELLA DIETA ...52

4.2. PERCHÈ È COSÌ DIFFICILE PERDERE PESO (E MANTENERLO)? ...53

4.3. PERDERE PESO IN MODO DURATURO ...56

4.4. SENSIBILITÀ INSULINICA E INFIAMMAZIONE ...60

4.5. MICRONUTRIENTI FONDAMENTALI ...64 4.5.1. Lo iodio ...64 4.5.1. Il selenio ...66 4.5.1. La vitamina D ...69 4.5.1. Il ferro ...70 4.5.1. Altri micronutrienti ...71

4.6. CIBI CON EFFETTO GOITROGENO ...73

4.7. CELIACHIA E INTOLLERANZE ALIMENTARI ...77

5. IL RUOLO DEL MIO-INOSITOLO

...

78

5.1. L’INOSITOLO ...78

5.2. MIO-INOSITOLO E TIROIDITE DI HASHIMOTO ...79

5.3. MIO-INOSITOLO, D-CHIRO-INOSITOLO E PCOS ...81

CONCLUSIONI

...

84

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1. INTRODUZIONE

1.1. LA SINDROME DELL’OVAIO POLICISTICO

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) fu descritta per la prima volta nel 1935 dai medici americani Stein e Leventhal, i quali riscontrarono la presenza di ovaie allargate e ricche di piccole cisti follicolari in donne afflitte da amenorrea o altri disturbi mestruali e, in alcuni casi, da irsutismo e/o altri segni di mascolinizzazione. Oggi, la prevalenza della PCOS tra le donne in età fertile varia ampiamente in base ai criteri diagnostici applicati. I più utilizzati sono attualmente i criteri di Rotterdam (Rotterdam ESHRE/ ASRM-Sponsored PCOS Consensus Workshop Group, 2004), in base ai quali la diagnosi va effettuata - previa esclusione di disturbi che possono determinare manifestazioni cliniche simili (iperplasia surrenale congenita, sindrome di Cushing, tumori secernenti androgeni) - in presenza di almeno due su tre delle seguenti caratteristiche:

• Oligo-ovulazione o anovulazione;

• Segni clinici o biochimici di iperandrogenismo; • Ovaie dall’aspetto policistico.

Dato che i criteri precedentemente applicati, risalenti a una conferenza sulla PCOS organizzata dal National Institutes of Health (NIH) nel 1990, erano più ristretti (la diagnosi era effettuata solo in presenza di iperandrogenismo/iperandrogenemia + anovulazione cronica), con l’introduzione dei criteri di Rotterdam il numero delle diagnosi è notevolmente aumentato e la prevalenza è passata dal 6-9% al 14-20% (Sirmans & Pate, 2014). La scelta di estendere la diagnosi di PCOS alle donne senza alcun segno di iperandrogenismo, però, è stata oggetto di dibattito, perché secondo le ipotesi più accreditate all’origine della sindrome ci sarebbe proprio una disregolazione nella produzione ovarica di androgeni. Per questa ragione, nel 2006 la Androgen Excess and PCOS Society ha elaborato dei nuovi criteri, stabilendo che per diagnosticare la PCOS la presenza di iperandrogenismo (clinico e/o biochimico) è assolutamente necessaria (insieme a ovaie policistiche e/o oligo-anovulazione) (Lizneva et al., 2016). Applicando tali criteri la prevalenza risulta compresa tra l’8 e il 15% (Sirmans & Pate, 2014). Per arginare la confusione creatasi sia nella ricerca epidemiologica che nella pratica clinica per via dell’utilizzo di criteri diagnostici

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discordanti, nel 2012 il NIH ha convocato un nuovo workshop di esperti, conclusosi con la raccomandazione di continuare ad applicare i criteri di Rotterdam ma abbinati a una descrizione fenotipica dettagliata (Lizneva et al., 2016). In particolare, a seconda delle problematiche riscontrate, è possibile delineare quattro fenotipi diversi:

A. Oligo-anovulazione + iperandrogenismo + ovaie policistiche (PCOS classica) B. Oligo-anovulazione + iperandrogenismo (Criteri NIH del 1990)

C. Iperandrogenismo + ovaie policistiche (PCOS ovulatoria)

D. Oligo-anovulazione + ovaie policistiche (PCOS non iperandrogenica).

Le donne affette da PCOS, rispetto alle coetanee sane, sono più frequentemente sovrappeso o obese e tendono ad accumulare grasso a livello addominale. Hanno inoltre un rischio aumentato di sviluppare insulino-resistenza, dislipidemie e altre componenti della sindrome metabolica (Anagnostis et al., 2018).

1.2. LA TIROIDITE DI HASHIMOTO

La tiroidite di Hashimoto deve il suo nome al medico giapponese Hakaru Hashimoto, che per primo, nel 1912, ne descrisse le caratteristiche istologiche. Hashimoto, analizzando il tessuto tiroideo di quattro pazienti sottoposte a tiroidectomia, aveva notato delle modificazioni fino ad allora mai riportate in letteratura, in particolare un’infiltrazione linfocitaria diffusa e la presenza di follicoli linfoidi con centri germinativi. Ciò lo portò a concludere di aver identificato una nuova patologia, la “struma linfomatosa”. La comunità scientifica però non era dello stesso parere e riteneva la “struma” nient’altro che la fase iniziale di una malattia già nota, la tiroidite di Riedel (Hiromatsu et al., 2013). Tale convinzione resistette fino al 1931, anno in cui i chirurghi Graham e McCullagh dimostrarono con ragionevole certezza che le due patologie erano entità ben distinte. Da quel momento in poi, la “struma linfomatosa” è diventata nota come “malattia di Hashimoto” o “tiroidite di Hashimoto”. Le prime ipotesi sulla patogenesi della malattia chiamavano in causa le infezioni microbiche, l’ansia e presunti macrofagi in grado di mangiare la colloide, ovvero la sostanza presente nei follicoli tiroidei; nel 1956, finalmente, ne è stata chiarita la natura auto-immune (Caturegli et al., 2013).

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Oggi la tiroidite di Hashimoto è la malattia autoimmune più diffusa al mondo (Fallahi et al., 2016), nonché la causa più frequente di ipotiroidismo nei Paesi dove non c’è carenza di iodio (Caturegli et al., 2013). Tra i caucasici la prevalenza si aggira intorno al 5% e le donne sono dalle 5 alle 10 volte più colpite rispetto agli uomini; l’incidenza maggiore si registra nella fascia d’età 45-65 anni (Pyzik et al., 2015). La diagnosi viene effettuata sulla base degli esami di laboratorio (positività agli anticorpi anti-tiroidei, in particolare agli anticorpi anti-tireoperossidasi o anti-TPO) e dell’ecografia alla tiroide, che nel caso della tiroidite di Hashimoto è caratterizzata da una ridotta ecogenicità. Le manifestazioni cliniche sono piuttosto variabili, in quanto al momento della diagnosi il soggetto può essere eutiroideo (come accade nella maggior parte dei casi), ipotiroideo o temporaneamente ipertiroideo (a causa del massiccio rilascio di ormoni preformati indotto dalla distruzione infiammatoria dei follicoli). Nel tempo, comunque, la tiroidite di Hashimoto evolve verso l’ipotiroidismo, determinando la comparsa dei segni e sintomi ad esso associati: tendenza ad ingrassare, pelle secca, unghie e capelli fragili, costipazione, colesterolo alto, anemia, disordini mestruali, bradicardia, ritenzione idrica, difficoltà di concentrazione, perdita di memoria, depressione ecc… (Caturegli et al., 2014).

1.3. LA

PREVALENZA CONGIUNTA

La prevalenza della tiroidite di Hashimoto è significativamente maggiore tra le pazienti affette da PCOS, così come la prevalenza della PCOS è significativamente maggiore tra le pazienti affette da tiroidite di Hashimoto. Da uno studio di Janssen e colleghi, ad esempio, emerge che le donne con PCOS hanno una probabilità tre volte maggiore di sviluppare la tiroidite di Hashimoto rispetto alle donne senza PCOS. In particolare, i ricercatori hanno riscontrato titoli elevati di anticorpi TPO o anti-tireoglobulina (anti-Tg) nel 26,9% delle donne con PCOS e nell’8,3% dei controlli, mentre l’esame ecografico del tessuto tiroideo rivelava caratteristiche tipiche della tiroidite di Hashimoto nel 42,3% delle pazienti con PCOS e nel 6,5% dei controlli. La presenza congiunta di anticorpi elevati e ecografia “tipica” ha permesso di diagnosticare la tiroidite di Hashimoto nel 20,6% delle pazienti con PCOS e nel 6,5% delle donne senza PCOS (Janssen et al., 2004). Nel 2013 Garelli e colleghi hanno

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pubblicato i risultati di uno studio molto simile condotto su 113 donne italiane affette da PCOS e 100 controlli sani. La prevalenza delle malattie autoimmuni tiroidee era del 27% nelle donne con PCOS e dell’8% (più di tre volte di meno) nei controlli. Delle donne con PCOS affette da malattie autoimmuni della tiroide, inoltre, ben il 43% soffriva di ipotiroidismo subclinico. Questo dato è coerente con quanto precedentemente riportato da Janssen e colleghi (2004), i quali avevano rilevato valori medi di ormone tireostimolante (TSH) più elevati nelle donne con PCOS. La maggiore prevalenza dei disturbi tiroidei nelle pazienti affette da PCOS è stata ulteriormente confermata da uno studio su giovani donne indiane, dal quale si evince che la tiroidite di Hashimoto è presente nel 22,5% dei casi e nell’1,25% dei controlli e l’ipotiroidismo subclinico nel 22,5% dei casi e nell’8,75% dei controlli (Sinha et al., 2013).

La maggior prevalenza di disturbi autoimmuni della tiroide nelle donne affette da PCOS potrebbe essere in parte legata alla presenza della sindrome metabolica e di alcune sue componenti. Uno studio brasiliano, ad esempio, riporta che dopo l’aggiustamento per peso e insulino-resistenza (due fattori di rischio indipendenti per la tiroidite di Hashimoto) le differenze in termini di prevalenza tra donne con e senza PCOS si annullavano (Novais et al., 2015). In un altro studio Anaforoglu e colleghi (2011) osservano che sebbene le malattie tiroidee siano più frequenti nelle donne con PCOS, i titoli anticorpali e il volume tiroideo risultano simili a quelli dei controlli. Differenze significative emergono quando si classificano le partecipanti in base alla presenza o meno di sindrome metabolica: gli anticorpi anti-TPO e anti-Tg sono significativamente più elevati nelle donne affette dalla sindrome e sia il volume tiroideo che i livelli di TSH correlano positivamente con diverse sue componenti: indice di massa corporea (BMI), peso, circonferenza vita, pressione sistolica ecc…

La prevalenza della PCOS nelle pazienti con tiroidite di Hashimoto è stata oggetto di minori investigazioni. Nel corso di un’indagine pubblicata nel 2010, un gruppo indiano ha ricercato segni e sintomi di PCOS in 175 adolescenti indiane affette da tiroidite di Hashimoto eutiroidee e in 46 ragazze sane che frequentavano la stessa scuola. La diagnosi di PCOS è stata possibile nel 46% dei casi e nel 4% dei controlli. La differenza rimaneva significativa anche in seguito agli aggiustamenti per BMI, oligomenorrea,

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livelli di testosterone e insulino-resistenza, ad indicare che la comparsa della PCOS non era esclusivamente legata a uno o più di questi fattori (Ganie et al., 2010).

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2. CAUSE COMUNI

2.1. LA GENETICA

2.1.1. Tiroidite di Hashimoto e genetica

La forte familiarità che caratterizza la tiroidite di Hashimoto è nota fin dagli anni Sessanta, quando uno studio condotto su 11 pazienti con malattie autoimmuni della tiroide e i loro 39 fratelli rivelò che ben il 56% di questi ultimi aveva auto-anticorpi tiroidei in circolo, contro il 25% della popolazione generale femminile e il 13% di quella maschile (Hall & Stanbury, 1967). In seguito, è stato calcolato che i fratelli dei pazienti affetti da tiroidite di Hashimoto hanno un rischio di sviluppare la malattia dalle 21 alle 28 volte maggiore rispetto alla popolazione generale, mentre i figli hanno un rischio 32 volte maggiore (Dittmar et al., 2011; Villanueva et al., 2004).

Brix e colleghi (2000) hanno studiato la distribuzione della tiroidite di Hashimoto in 2945 coppie di gemelle danesi nate tra il 1953 e il 1972, riportando un tasso di concordanza pari al 55% tra le gemelle monozigote e allo 0% tra quelle dizigote. Tra le gemelle sane delle pazienti con Hashimoto gli auto-anticorpi tiroidei erano positivi nell’80% delle monozigote e nel 40% delle dizigote. Grazie ad un altro studio sui gemelli lo stesso gruppo di ricerca ha calcolato che la suscettibilità a sviluppare auto-anticorpi tiroidei è attribuibile per il 73% a fattori genetici (Hansen et al., 2006).

Tra i principali geni coinvolti ci sarebbero i geni del sistema dell’antigene leucocitario umano (HLA) coinvolti nella presentazione antigenica e i geni che codificano per due recettori espressi sulla superficie dei linfociti T, l’antigene 4 associato ai linfociti T citotossici (CTLA4) e la protein-tirosin-fosfatasi non recettoriale 22 (PTPN22) (Panicker, 2011). Si pensa che a specifici alleli HLA possano corrispondere recettori con maggiore affinità per determinati peptidi tiroidei; ciò si tradurrebbe in un’incrementata presentazione di auto-antigeni ai linfociti T da parte delle cellule presentanti l’antigene (APC) e dunque in una maggiore propensione all’autoimmunità. A questo proposito, numerosi studi hanno riscontrato un’associazione tra alcuni alleli HLA e la tiroidite di Hashimoto in varie popolazioni. Nei soggetti affetti da malattie autoimmuni della tiroide i recettori HLA di classe II - normalmente espressi solo dalle APC – sono inoltre stati

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ritrovati anche sulla superficie dei tireociti (Zaletel & Gaberšček, 2011). Il CTLA4 interferisce con l’attivazione dei linfociti T legando la proteina B7 delle APC al posto del recettore CD28 espresso dai linfociti T stessi. Polimorfismi che ne riducono la funzione o l’espressione sembrano favorire lo sviluppo di patologie autoimmuni tiroidee e influenzarne la severità (Tomer & Davies, 2003). Il recettore PTPN22 svolge all’incirca la stessa funzione e un suo specifico polimorfismo è un fattore di rischio dimostrato per diverse malattie autoimmuni. Alcuni studi - ma non tutti - lo hanno associato anche alla tiroidite di Hashimoto.

Altri geni potenzialmente coinvolti nella patogenesi di Hashimoto sono quello della tireoglobulina, quello del recettore della vitamina D e i geni che regolano la produzione di citochine (Dong & Fu, 2014).

2.1.2. PCOS e genetica

L’ipotesi che la genetica abbia un ruolo nello sviluppo della PCOS risale al 1968, anno in cui emerse che le parenti di primo grado delle pazienti affette dalla sindrome avevano un rischio maggiore di ammalarsi rispetto alla popolazione generale (Cooper et al., 1968). Uno studio più recente riporta che il 24% delle madri e il 32% delle sorelle delle pazienti con PCOS hanno a loro volta la PCOS, mentre la prevalenza nella popolazione di controllo è all’incirca del 4% (Kahsar-Miller et al., 2001). Tra i famigliari delle donne affette da PCOS, inoltre, si registrano più casi di iperandrogenemia, morfologia policistica delle ovaie e squilibri metabolici rispetto alla popolazione generale. Nel 1998 Legro e colleghi sottoposero ad analisi del sangue le sorelle di 80 pazienti con PCOS, scoprendo che il 46% di esse aveva in circolo livelli eccessivi di testosterone, contro il 14% dei controlli. Dei ricercatori cileni hanno diagnosticato l’irsutismo nel 40% delle figlie adolescenti delle pazienti con PCOS e in nessuna delle figlie controllo. Dallo stesso studio è emerso che le bambine con mamma affetta da PCOS avevano sin dal periodo prepuberale un volume ovarico e una risposta insulinica significativamente maggiori rispetto alle figlie delle donne non affette (Sir Petermann et al., 2009). Uno studio pubblicato nel 2008 attesta che il 70,5% delle sorelle di donne con PCOS ha ovaie dalla morfologia policistica, quando la prevalenza nella popolazione generale è del 20% (Franks et al., 2008). Infine, in Turchia, è emerso che il

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46% delle madri e il 58% dei padri delle pazienti con PCOS oggetto di analisi soffriva di diabete o aveva una ridotta tolleranza al glucosio, mentre nella popolazione di controllo la prevalenza era rispettivamente del 19 e del 17% (Yildiz et al., 2003).

Per capire se la ricorrenza della PCOS all’interno della stessa famiglia fosse legata principalmente a fattori genetici o ambientali, dei ricercatori hanno intervistato un ampio campione di gemelle olandesi, scoprendo che il tasso di concordanza per la PCOS è pressoché doppio nelle monozigoti rispetto alle dizigoti (71% vs 38%); il contribuito della genetica allo sviluppo della PCOS sarebbe pari al 79% (Vinket al., 2006) e basi genetiche importanti sono note anche per iperandrogenemia, acne, insulino-resistenza e altre componenti della sindrome metabolica (Harris et al., 1998; Bataille et al., 2002; Brown & Walker, 2016).

Informazioni importanti sui geni coinvolti nello sviluppo della PCOS sono emerse a partire dal 2011, grazie a una serie di studi di associazione genome-wide condotti su oltre 10 mila donne cinesi di etnia Han (Chen et al. 2011) i cui risultati sono stati in seguito confermati nella maggior parte delle altre popolazioni esaminate (Rosenfield & Ehrmann, 2016). Tali studi hanno portato all’identificazione di 11 loci di suscettibilità, in corrispondenza dei quali si trovano geni coinvolti in secrezione e sensibilità insulinica, secrezione e azione delle gonadotropine, funzionalità tiroidea, reazioni infiammatorie croniche, obesità e dislipidemie. La PCOS è una patologia eterogenea, dunque è probabile che i meccanismi coinvolti nella sua eziologia siano molteplici (Shaaba et al., 2019). Il difetto primario, comunque, consisterebbe nell’eccessiva secrezione di androgeni da parte delle ovaie, probabilmente legata all’aumentata espressione del gene che codifica per il citocromo P450c17, enzima che catalizza le due tappe limitanti nella sintesi degli androgeni (Crespo et al., 2018). In quest’aumentata trascrizione potrebbe avere un ruolo chiave il gene DENND1, che si ritiene conferisca una forte suscettibilità alla PCOS. Tale gene è soggetto a splicing alternativo e può dare origine a due diversi trascritti, la variante 1 e la variante 2, entrambe molto probabilmente implicate nel riciclo dei recettori di membrana. È stato notato che la variante 2, nelle donne con PCOS, è significativamente più abbondante del normale. La sua espressione forzata in cellule tecali sane stimola la trascrizione del citocromo P450c17 e la conseguente sintesi di androgeni, rendendo le cellule stesse fenotipicamente molto

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simili a quelle delle pazienti affette da PCOS. L’esatto meccanismo d’azione della variante 2 di DENND1 rimane sconosciuto, ma le ipotesi più accreditate suggeriscono una sua interazione con i recettori dell’ormone luteinizzante (LH) e dell’insulina, i cui geni sono anch’essi stati associati alla PCOS (McAllister et al., 2014).

2.1.3. Geni in comune?

Alcuni polimorfismi genetici sembrano giocare un ruolo sia nella PCOS che nella tiroidite di Hashimoto (Kowalczyk et al., 2017). Le fibrilline sono glicoproteine secrete nella matrice extracellulare; oltre ad avere un ruolo strutturale (si riuniscono in microfibrille) partecipano alla regolazione della biodisponibilità tessutale di svariate molecole, tra cui quella del fattore di crescita trasformante beta 1 (TGFß1). Il TGFß1 fa parte della superfamiglia del TGFß insieme a inibine, attivine, ormone anti-mulleriano, proteine morfogenetiche dell’osso, fattori di crescita e differenziazione, TGFß2 e TGFß3. Il TGFß1 viene secreto in forma inattiva e sequestrato dalle fibrilline, per poi essere rilasciato e attivato al momento opportuno da specifiche proteasi. Polimorfismi nel gene della fibrillina potrebbero alterare il processo di legame/rilascio del TGFß1, influenzandone il livello di attività a livello dei tessuti (Raja-Kahn et al., 2014). A questo proposito, l’espressione della fibrillina 3 nel tessuto ovarico risulta ridotta nelle donne con PCOS rispetto alle sane (Jordan et al., 2010); inoltre, nel Urbanek e colleghi (1999) hanno individuato un locus di suscettibilità per la sindrome proprio all’interno del gene FBN3 che la codifica. Gli studi di associazione genome-wide condotti sinora non hanno confermato il ruolo né di FBN3 né di altri geni coinvolti nella via di segnalazione del TGFß nella patogenesi della PCOS (Chen et al., 2011), ma nonostante ciò l’ipotesi che questa citochina sia in qualche modo coinvolta nello sviluppo della sindrome continua ad essere tenuta in seria considerazione (Raja-Khan et al., 2014). Le ovaie delle donne affette da PCOS, infatti, mostrano tutti i segni di un’aumentata attività del TGFß, che tra le altre cose promuove la produzione di fibre collagene da parte dei fibroblasti e la loro deposizione a livello tessutale (Hatzirodos et al., 2011). Hughedson (1982) ha confrontato le ovaie di 34 donne affette da PCOS con quelle di 30 donne sane, scoprendo che nelle prime la capsula era più spessa del 50% e conteneva più collagene, mentre lo stroma corticale era più spesso di 1/3 e quello subcorticale di 5

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volte. Dato che la maggior parte dello sviluppo ovarico avviene durante la vita fetale e che l’espressione della fibrillina 3 è massima durante il primo trimestre di vita intra-uterina e poi declina progressivamente, è stato ipotizzato che polimorfismi a singolo nucleotide (SNPs) a livello del gene FBN3 potrebbero giocare un ruolo fondamentale nella programmazione fetale della PCOS. In particolare, la presenza di varianti della fibrillina 3 altererebbe permanentemente lo stroma fetale; l’eccessivo spessore delle ovaie impedirebbe ai follicoli di espandersi e di diventare dominanti, interferendo dunque con l’ovulazione. Inoltre, i follicoli rimarrebbero immaturi, producendo così più androgeni del normale (Jordan et al., 2010).

Per quanto riguarda la tiroidite di Hashimoto, sappiamo che i pazienti colpiti tendono ad avere livelli di TGFß più bassi rispetto ai controlli e che questo non è legato all’ipotiroidismo ma alla patologia autoimmune di per sé (Akinci et al., 2008). Il TGFß è essenziale per la formazione dei linfociti T regolatori (Treg), i quali sono a loro volta fondamentali per la soppressione della risposta immunitaria e delle cellule T auto-reattive (Wan & Flavell, 2008). Gorelik e Flavell (2000) hanno scoperto che bloccando la via di segnalazione del TGFß nei linfociti T dei topi questi sviluppano una malattia autoimmune caratterizzata dall’infiltrazione infiammatoria di svariati organi e dalla secrezione di anticorpi contro il self. È assai probabile che anomalie a carico di TGFß e Treg possano dunque contribuire allo sviluppo di malattie autoimmuni, comprese le tiroiditi (Rydzewska et al., 2018).

Secondo uno studio pubblicato nel 2010 le donne affette da PCOS tendono ad avere livelli di TGFß significativamente aumentati rispetto alle donne sane, a meno che non posseggano uno specifico allele (l’allele 8, A8) a livello del locus di suscettibilità D19S884 situato nel gene della fibrillina 3. Le donne con PCOS A8+ analizzate, infatti, avevano livelli di TGFß circolanti significativamente ridotti rispetto alle donne con PCOS A8- (Raja-Khan et al., 2010). Sulla base di ciò, alcuni autori hanno ipotizzato che le pazienti affette da PCOS portatrici dell’allele 8 potrebbero avere un rischio maggiore di sviluppare la tiroidite di Hashimoto rispetto alle pazienti A8-, ma l’ipotesi è ancora da verificare (Gaberšček et al., 2015).

Un altro gene potenzialmente coinvolto in entrambe le patologie è quello che codifica per il recettore del fattore di rilascio delle gonadotropine (GnRHR). Sembra che

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il fattore di rilascio delle gonadotropine (GnRH), oltre a modulare il rilascio di LH e ormone follicolo-stimolante (FSH), possa anche stimolare la secrezione di TSH, come osservato sia negli anfibi sia in culture cellulari di adenoma tiroideo umano. Inoltre, il GnRH tende a ridurre la sensibilità insulinica. Nel 2011 dei ricercatori cinesi hanno analizzato il genoma di 261 pazienti affette da PCOS, per scoprire eventuali correlazioni tra determinati SNPs e tratti metabolici. Ne è emerso che le donne con genotipo GG a livello dello SNP rs1038426 avevano livelli più alti di TSH, una maggiore risposta insulinica post-prandiale e un grado maggiore di insulino-resistenza rispetto alle donne con genotipo TT o TG. Polimorfismi nel gene che codifica per il GnRHR potrebbero dunque influenzare l’espressione fenotipica della PCOS (Li et al., 2011).

Il gene CYP1B1 codifica per una monossigenasi che si occupa di ossidare il 17ß-estradiolo a 4-idrossi-17ß-estradiolo e nelle ovaie delle donne affette da PCOS risulta down-regolato. Si sa che gli ormoni tiroidei possono triplicare l’espressione di CYP1B1 nei testicoli e che lo iodio ne aumenta l’espressione in colture cellulari di cancro al seno. Il 17ß-estradiolo, a sua volta, influenza direttamente la crescita delle cellule tiroidee, modula l’espressione del TGFß a livello della tiroide e potenzia significativamente l’uptake di iodio. Da uno studio pubblicato nel 2013 è emerso che le donne affette da PCOS con almeno un allele C a livello del polimorfismo L432V esprimono maggiormente il gene CYP1B1 rispetto alle donne con genotipo GG. Queste donne hanno livelli più bassi di tiroxina (T4), tiroxina libera (fT4) e triiodotironina libera (fT3) e, si ipotizza, un aumentato rischio di sviluppare ipotiroidismo e/o tiroiditi autoimmuni (Zou et al., 2013).

Diversi polimorfismi del gene che codifica per il recettore della vitamina D sono infine stati associati sia alla PCOS che alla tiroidite di Hashimoto, specie negli asiatici. Stando alle meta-analisi più recenti, però, gli SNPs coinvolti nelle due patologie non sarebbero gli stessi (Niu et al., 2019; Wang et al., 2017).

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2.2.1. La tolleranza immunitaria

Lo sviluppo di patologie autoimmuni è legato ad una perdita di tolleranza verso il self, che porta il sistema immunitario ad attaccare molecole e/o cellule normalmente presenti nell’organismo come se fossero estranee. I meccanismi che garantiscono la tolleranza immunitaria verso il self operano a livello sia centrale (timo e midollo osseo) sia periferico (organi linfoidi secondari) e coinvolgono sia i linfociti T che i linfociti B.

Nel timo, le cellule epiteliali midollari presentano ai linfociti T in via di maturazione un’ampia gamma di antigeni self normalmente espressi dai tessuti periferici, per verificare che i loro recettori, generati casualmente mediante ricombinazione genica, non leghino gli autoantigeni con eccessiva affinità. I linfociti fortemente auto-reattivi vengono indirizzati verso l’apoptosi (selezione negativa), mentre quelli non reattivi o debolmente reattivi migrano verso gli organi linfoidi secondari sotto forma di linfociti T maturi “naïve”. I linfociti che legano gli antigeni self con affinità intermedia, invece, vengono selezionati per diventare natural Treg (nTreg). Un processo molto simile avviene nel midollo osseo per i linfociti B (Romagnani, 2006). Dato che la tolleranza centrale non è infallibile e qualche linfocita auto-reattivo che sfugge ai controlli c’è sempre, sono previsti anche meccanismi di “tolleranza periferica”. Le cellule dendritiche immature, per esempio, sono in grado di migrare tra i tessuti ed acquisire antigeni self, che poi presentano ai linfociti T maturi “naïve” a livello degli organi linfoidi secondari; i linfociti che riconoscono l’autoantigene vengono eliminati per apoptosi oppure convertiti in Treg indotti (iTreg) (Jones et al., 2016). Sia gli iTreg che gli nTreg possono a loro volta sopprimere i linfociti T autoreattivi mediante la secrezione di apposite citochine (Sakaguchi et al., 2008).

2.2.2. Il paradigma Th1/Th2/Th17/Treg

I linfociti T si distinguono principalmente in due categorie: linfociti T citotossici e linfociti T helper. I linfociti T citotossici riconoscono gli antigeni intracellulari legati alle molecole HLA di classe I, che sono presenti sulla superficie di tutte le cellule nucleate; il loro compito è quello di eliminare le cellule infettate da patogeni intracellulari e le cellule tumorali inducendole all’apoptosi. I linfociti T helper, invece, riconoscono gli antigeni di provenienza extracellulare legati alle molecole HLA di classe II, espresse (in

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condizioni normali) solo dalle APC. La loro funzione principale è quella di “aiutare” l’attivazione di altre cellule immunitarie mediante il rilascio di citochine (Rydzewska et al., 2018). In seguito all’interazione con le APC, i linfociti T helper cominciano a rilasciare la citochina IL-2, che agisce in modo autocrino/paracrino promuovendo l’espansione del clone linfocitario. A questo punto, a seconda delle citochine presenti nell’ambiente, i linfociti si differenzieranno o in T helper 1 (Th1) o in T helper 2 (Th2). I linfociti Th1, la cui differenziazione è indotta principalmente da IL-12 e interferone gamma (IFN-𝛾), stimolano le risposte immunitarie cellulo-mediate, potenziando l’attività fagocitica dei macrofagi e favorendo la proliferazione dei linfociti T citotossici. I linfociti Th2, indotti principalmente da IL-4, promuovono invece le risposte immunitarie di tipo umorale, attivando i linfociti B e aumentando la produzione di anticorpi; inoltre, attivano mastociti, eosinofili e basofili, mediando le reazioni dirette contro gli elminti. I fattori che promuovono la differenziazione dei linfociti Th2 inibiscono quella dei Th1 e viceversa (Singh et al., 1999).

Se fino a qualche anno fa i fenomeni immunologici venivano descritti come “Th1 dominant” o “Th2 dominant” a seconda della risposta prevalente (paradigma Th1/Th2), con la scoperta dei T helper 17 (Th17) - avvenuta nel 2003 - la situazione si è dimostrata assai più complessa (Miossec et al., 2009). I Th17 mediano la risposta immunitaria contro batteri e funghi extracellulari, principalmente secernendo la citochina IL-17, che stimola cellule epiteliali, fibroblasti e macrofagi a rilasciare mediatori pro-infiammatori quali le chemochine (che richiamano neutrofili e monociti nel sito di infezione) e altri tipi di citochine (Guglani & Khader, 2010). La loro differenziazione iniziale a partire dai linfociti T naïve richiede la presenza del TGFß, lo stesso segnale richiesto per la differenziazione iniziale dei Treg, che sopprimono le risposte immunitarie e quindi hanno una funzione diametralmente opposta. A spingere la differenziazione finale verso il fenotipo Th17 è la presenza, insieme al TGFß, della citochina pro-infiammatoria IL-6 (Miossec et al., 2009).

Come evidenziato dal “paradigma Th1/Th2/Th17/Treg”, l’omeostasi immunitaria dipende in buona parte dall’equilibrio tra i diversi sottotipi di linfociti T helper. Un aumento dei linfociti T “effettori” (Th1, Th2 e Th17) non adeguatamente controbilanciato

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da un aumento dei linfociti T regolatori può favorire lo sviluppo di diverse patologie autoimmuni, tra le quali - come vedremo - la tiroidite di Hashimoto (Safdari et al., 2017).

2.2.3. Tiroidite di Hashimoto e sistema immunitario

La tiroidite di Hashimoto viene classicamente considerata una malattia autoimmune di tipo Th1, in cui a prevalere sono le risposte immunitarie cellulo-mediate. In realtà, sebbene i danni maggiori siano determinati dalla distruzione delle cellule follicolari tiroidee da parte di macrofagi e linfociti T citotossici, alla patogenesi della malattia contribuiscono anche linfociti Th2 e Th17 (Rydzewska et al., 2018).

La tiroide dei pazienti con Hashimoto è caratterizzata da un infiltrato infiammatorio cronico, costituito principalmente da linfociti T e B (Pearce et al., 2003). I fattori di trascrizione implicati nella differenziazione di linfociti Th1 e Th2 risultano significativamente up-regolati rispetto ai controlli sani, mentre l’espressione del fattore forkhead box P3 (FoxP3) (essenziale per la differenziazione dei Treg) è significativamente ridotta (Safdari et al., 2017). La concentrazione dei Th17 e delle citochine pro-infiammatorie ad essi associate, inoltre, è insolitamente elevata sia nel tessuto tiroideo sia nel circolo periferico (González-Amaro & Marazuela, 2016). I linfociti Th1, come detto, attivano macrofagi e linfociti T citotossici, capaci (attraverso vari meccanismi) di danneggiare e/o spingere all’apoptosi le cellule follicolari tiroidee (Rydzewska et al., 2018). La citochina IL-1ß rilasciata dai macrofagi, ad esempio, può indurre i tireociti ad esprimere il recettore di membrana Fas, che interagendo con il suo ligando FasL (una proteina transmembrana già costitutivamente espressa da tutti i tireociti) è in grado avviare la cellula alla morte programmata. La conseguenza di ciò è che i tireociti dei pazienti con Hashimoto sono in grado di distruggersi a vicenda per semplice contatto (Giordano et al., 1997). I linfociti Th17 amplificano ulteriormente i danni mediante la secrezione di citochine pro-infiammatorie, mentre i linfociti Th2 stimolano i linfociti B presenti nella ghiandola tiroidea a produrre e rilasciare autoanticorpi anti-tiroidei, principalmente diretti contro la tireoperossidasi e la tireoglobulina (Rydzewska et al., 2018).

Gli anticorpi anti-TPO, presenti nel 90-95% dei pazienti, sono in grado di attivare il complemento, indurre stress ossidativo, distruggere i tireociti e inibire l’attività

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enzimatica della tireoperossidasi, enzima responsabile dell’ossidazione dello iodio e della iodazione della tireoglobulina. Gli anticorpi anti-Tg, presenti nel 60-80% dei pazienti, sono invece incapaci di attivare il complemento e non partecipano alla distruzione delle cellule follicolari tiroidee; il loro significato funzionale è ancora incerto (Fröhlich & Wahl, 2017).

L’aumento delle risposte Th1, Th2 e Th17 si accompagna ad una riduzione del numero dei linfociti Treg, i quali probabilmente (una volta giunti nel tessuto tiroideo infiammato) cambiano fenotipo, convertendosi in linfociti Th1 o Th17 in base alle citochine presenti nell’ambiente (Rydzewska et al., 2018). I Treg rimasti, per giunta, appaiono disfunzionali: la loro attività immunosoppressoria, nei pazienti con Hashimoto, è significativamente ridotta (Hu et al., 2019).

2.2.4. PCOS, infiammazione e sistema immunitario

Alla patogenesi della PCOS sembrano contribuire, tra le altre cose, l’infiammazione cronica di basso grado e l’aumentata proporzione di linfociti Th1 e Th17. A parità di BMI, le donne con PCOS hanno livelli significativamente più elevati di diversi marker dell’infiammazione, come ad esempio la proteina C reattiva, il fattore di necrosi tumorale alfa (TNFα) e le citochine IL-6, IL-1ß e IL-17 (Shorakae et al., 2015). A livelli fisiologici, l’infiammazione gioca un ruolo fondamentale sia nella follicologenesi che nell’ovulazione. L’IL-1ß e il TNFα, per esempio, sono essenziali per la crescita del follicolo e per la maturazione dell’oocita, mentre le prostaglandine e gli altri eicosanoidi rilasciati in risposta all’LH attivano gli enzimi proteolitici responsabili della rottura del follicolo e della conseguente espulsione della cellula uovo matura. Se in eccesso, però, l’infiammazione può alterare questi processi, compromettendo l’ovulazione e dunque la fertilità (Boots & Jungheim, 2015). Per quanto riguarda i linfociti T, uno studio iraniano ha recentemente documentato un aumento significativo dei rapporti Th1/Th2 e Th17/ Th2 nelle donne con PCOS, accompagnato da una riduzione significativa dei linfociti Treg. Tali squilibri sono associati ad infertilità anche nelle donne non affette da PCOS (Nasri et al., 2018).

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2.2.5. Il ruolo del timo

Nei topi, la rimozione del timo in un periodo critico - corrispondente all’incirca al terzo giorno di vita - determina lo sviluppo di malattie autoimmuni a livello di diversi organi, come ad esempio la tiroide, lo stomaco, le ovaie e i testicoli (Sakaguchi et al., 2008). In particolare, le ovaie vanno incontro ad una vera e propria disgenesi, con degenerazione dei follicoli, mancata formazione del corpo luteo e iperplasia delle cellule interstiziali (Hattori & Brandon, 1979). Dato che lo sviluppo dell’autoimmunità può essere prevenuto somministrando ai topi piccole quantità di linfociti Treg provenienti da animali non timectomizzati, è stato ipotizzato che alla base della disgenesi ovarica e dello sviluppo di patologie autoimmuni multiple ci sia proprio la carenza di questi linfociti dall’attività immunosoppressoria (Sakaguchi et al., 2008). In effetti, il timo comincia a produrre linfociti Treg solamente dopo un periodo di adattamento immunitario, che nei topi oggetto dell’esperimento corrisponde alla prima settimana di vita. Se il timo viene rimosso al giorno tre, i Treg non vengono prodotti. In compenso, il timo immaturo produce una vasta quota di linfociti T auto-reattivi, che se non adeguatamente controbilanciati dai Treg finiscono per danneggiare numerosi organi e tessuti.

Diversi esperimenti hanno dimostrato che le femmine di topo che ricevono iniezioni di estradiolo o di testosterone durante il periodo di adattamento immunitario diventano sterili e sviluppano cisti follicolari di grandi dimensioni. Uno studio ha però dimostrato che se l’iniezione di testosterone viene fatta precedere dall’inoculazione di timociti prelevati da femmine di topo adulte, che hanno passato il periodo di adattamento immunitario, l’infertilità può essere prevenuta. Se invece i timociti provengono da femmine di topo non ancora abbastanza mature per produrre Treg, l’infertilità si manifesta (Chapman et al., 2001). Un altro studio ha dimostrato che se il timo viene rimosso prima dell’iniezione degli estrogeni e successivamente “rimpiazzato” dall’inoculazione di timociti adulti le femmine di topo ovulano normalmente e non sviluppano cisti follicolari. Se gli ormoni sessuali non hanno modo di interagire con il timo, la funzionalità ovarica viene preservata (Chapman et al., 2009).

A differenza dei topi, nei primati il timo completa la sua maturazione nel periodo prenatale: per determinare la comparsa di anomalie ovariche l’esposizione agli steroidi

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deve quindi avvenire durante la vita intra-uterina (Chapman et al., 2009). Le scimmie rhesus le cui mamme hanno ricevuto iniezioni di testosterone per almeno due settimane a partire dal quarantesimo giorno di gravidanza sviluppano, da adulte, disturbi endocrini e riproduttivi tipici della PCOS, tra i quali ipersecrezione di LH, iperandrogenismo, iperinsulinemia e anovulazione. Coerentemente, la prevalenza della PCOS risulta aumentata nelle donne affette da iperplasia surrenale congenita, anche quando la conseguente iperandrogenemia viene corretta alla nascita dall’uso di glucocorticoidi (Eisner et al., 2002).

Il “programming fetale” della PCOS sembra essere legato, almeno nelle scimmie, a modifiche dell’epigenoma, in particolare all’alterata metilazione di numerosi geni coinvolti nelle vie di segnalazione del TGFß1 e della sua superfamiglia (Xu et al., 2011).

Le donne esposte in utero al dietilsilbestrolo, un farmaco ad azione estrogeno-simile utilizzato a partire dagli anni ‘40 per prevenire l’aborto e vietato nel 1971 a causa dei pesanti effetti collaterali, tendono a sviluppare malformazioni all’utero, alla cervice e alle tube di falloppio, hanno problemi di fertilità e presentano un rischio aumentato di aborto, gravidanza ectopica e parto pre-termine. Inoltre, hanno livelli aumentati di androstenedione e testosterone e un aumentato rapporto LH/FSH, che determinano la comparsa di cisti ovariche e irsutismo facciale. Gli effetti maggiori si registrano quando l’esposizione avviene tra la nona e la dodicesima settimana, un periodo che corrisponde alla fase finale della maturazione timica (Chapman et al., 2009).

2.3 GLI ORMONI SESSUALI

2.3.1. Autoimmunità e ormoni

È noto da tempo come la prevalenza di malattie autoimmuni sia significativamente maggiore nelle donne rispetto agli uomini (McCarthy, 2000). Negli Stati Uniti, per esempio, le oltre ottanta malattie autoimmuni ad oggi conosciute colpiscono approssimativamente il 5-8% della popolazione, e il 78% dei pazienti è donna (Desai & Diaz Brinton, 2019). Tra le patologie autoimmuni nelle quali questo “gender gap” è più evidente troviamo il lupus eritematoso sistemico, la sindrome di Sjogren, la

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sclerodermia e le malattie autoimmuni tiroidee, che sono dalle 7 alle 10 volte più comuni tra le donne (Ortona et al., 2016).

Le ragioni di questo divario sono riconducibili a vari fattori, comprese le differenze cromosomiche (i cromosomi sessuali ospitano geni coinvolti direttamente o indirettamente nella risposta immunitaria) e il diverso rapporto tra i vari ormoni sessuali (Quintero et al., 2012). Finora, tra i due fattori, quello più indagato è sicuramente quest’ultimo. Diversi studi, infatti, hanno dimostrato che il “gender gap” diventa evidente solamente a partire dalla pubertà, ovvero dal momento in cui la produzione di ormoni sessuali si fa genere-specifica. Nel 2009, un gruppo di ricercatori italiani ha sottoposto ad indagine un campione di 133 adulti e 113 bambini/adolescenti affetti da tiroidite cronica autoimmune, riportando un rapporto femmine:maschi pari a 1,6 nei bambini in fase prepuberale, 6,7 negli adolescenti e 10,3 negli adulti (Mariotti et al., 2009). Inoltre, è stato osservato che nelle donne la sintomatologia di diverse malattie autoimmuni è fortemente influenzata dalle periodiche fluttuazioni ormonali che caratterizzano il ciclo mestruale, così come dalle alterazioni più durature indotte dalla gravidanza, dall’uso di contraccettivi orali e dalla menopausa. In uno studio condotto da Zorgdrager e De Keyser (1997), il 43% delle donne affette da sclerosi multipla in forma recidivante-remittente riferisce un peggioramento dei sintomi nel periodo immediatamente precedente alle mestruazioni o all’inizio di esse. Le pazienti che non notano particolari influenze del ciclo mestruale sui propri sintomi sono quelle che assumono la pillola anti-concezionale. Protettiva è anche la gravidanza, il cui assetto ormonale caratteristico determina un miglioramento dei sintomi particolarmente evidente nell’ultimo trimestre (Confavreux et al., 1998). Al contrario, nelle donne in peri- e post-menopausa, il rischio di incorrere in malattie autoimmuni aumenta, in gran parte per via delle modificazioni ormonali che caratterizzano questa fase della vita (Desai et al., 2006). Gli influssi ormonali sembrano non risparmiare neppure il sesso maschile. Chen e colleghi (2017) riportano infatti che la prevalenza della positività agli anticorpi anti-TPO e anti-Tg negli uomini aumenta proporzionalmente al rapporto estradiolo/ testosterone.

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2.3.2. Effetti degli ormoni sessuali sul sistema immunitario

Gli ormoni sessuali sono in grado di modulare le funzioni immunitarie, come dimostra l’espressione di recettori per estrogeni, progesterone ed androgeni da parte di cellule del sistema immunitario come linfociti, granulociti e monociti (Ghosh & Klein, 2017).

Gli estrogeni riducono l’attività dei linfociti T citotossici e dei T-helper, in particolare dei Th1 (che si occupano prevalentemente di immunità cellulare). I Th2, essendo meno sensibili alla soppressione, tendono a predominare sui Th1, stimolando i linfociti B e la produzione anticorpale. Per questi motivi, le donne hanno tipicamente più anticorpi in circolo rispetto agli uomini, migliori risposte anticorpali e una maggiore resistenza a infezioni virali, batteriche e parassitiche. Allo stesso tempo però hanno anche una maggiore tendenza a rigettare i trapianti e a sviluppare anticorpi contro il self.

Il progesterone sembra inibire direttamente o indirettamente le cellule NK, i linfociti T citotossici e i macrofagi. Inoltre, favorirebbe la differenziazione dei linfociti Th2 e dei Treg, a discapito rispettivamente dei Th1 e dei Th17. Questa immuno-modulazione ha lo scopo di preparare la donna per un’ipotetica gravidanza e, nello specifico, di proteggere l’eventuale prodotto del concepimento dai possibili attacchi del sistema immunitario materno. Gli effetti finali del progesterone sulle funzioni immunitarie, comunque, dipendono dalla sua concentrazione e dal tipo di recettori reclutati (Hughes, 2012; Lee et al., 2011).

Gli androgeni hanno effetti immuno-soppressori. Infatti, inibiscono la maggior parte delle cellule immunitarie, promuovendo allo stesso tempo la differenziazione dei Treg. In aggiunta, indirizzano il sistema immunitario verso una risposta di tipo Th1, che a differenza delle risposte di tipo Th2 non contempla la produzione di anticorpi (Gaberšček et al., 2015).

2.3.3. Donne in età fertile, ormoni e sistema immunitario

Nelle donne in età fertile la produzione degli ormoni sessuali varia in funzione del ciclo ovarico. Quest’ultimo può essere distinto in due fasi, la fase follicolare o pre-ovulatoria e la fase luteinica o post-pre-ovulatoria. Nei primi giorni della fase follicolare l’ipofisi secerne un’aumentata quantità di FSH, che avvia la maturazione di un gruppetto

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di follicoli (giorni 1-4) e la successiva selezione del follicolo dominante (giorni 5-7), l’unico che completerà la maturazione e andrà incontro, se le condizioni lo permetteranno, all’ovulazione. La crescita dei follicoli è accompagnata da un’aumentata produzione di estrogeni, legata all’espansione delle cellule della granulosa e alla stimolazione dell’enzima aromatasi (che converte gli androgeni in estrogeni) indotte dall’FSH. L’aumento degli estrogeni induce l’ipofisi ad intensificare la secrezione di LH, che a sua volta aumenta la sintesi di estrogeni che stimolano le cellule della teca a produrre androstenedione, il quale verrà poi convertito dalle cellule della granulosa in 17ß-estradiolo. L’LH raggiunge il picco circa 34-36 ore prima dell’ovulazione e, stimolando la produzione di prostaglandine ed enzimi proteolitici, agevola l’espulsione dell’oocita. Immediatamente prima del picco dell’LH i livelli di estrogeni precipitano, probabilmente a causa della downregolazione dei recettori dell’LH da parte dell’LH stesso o dell’inibizione esercitata dal progesterone (la cui sintesi è indotta sempre dall’LH). Durante la fase luteinica le cellule della granulosa rimaste nel follicolo dopo l’espulsione della cellula uovo aumentano di dimensioni e assumono una colorazione giallina (dovuta al carotenoide luteina), trasformandosi in un organo endocrino transitorio denominato corpo luteo. La funzione principale del corpo luteo è quella di produrre grandi quantità di progesterone, necessario per preparare l’endometrio ad un eventuale impianto, e quantità minori di estrogeni. Se la fecondazione va a buon fine l’embrione secerne la gonadotropina corionica e il corpo luteo viene mantenuto, altrimenti degenera rapidamente dopo circa 14 giorni, interrompendo la secrezione di ormoni sessuali e lasciando una cicatrice nota come corpus albicans (Reed & Carr, 2018).

In uno studio del 2000, Faas e colleghi riportano che durante la fase luteinica - caratterizzata da livelli sostenuti sia di estrogeni che di progesterone - si assiste ad un aumento del numero dei leucociti e ad un significativo incremento dei livelli di IL-4, una citochina di tipo Th2. Questo potrebbe spiegare come mai i sintomi delle malattie autoimmuni caratterizzate dalla predominanza di linfociti Th1 (es. artrite reumatoide, sclerosi multipla, tiroidite di Hashimoto) tendano a migliorare durante la fase luteinica mentre quelli delle malattie autoimmuni Th2 (es. lupus eritematoso sistemico) tendono a peggiorare.

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2.3.4. Ormoni e PCOS

L’assetto ormonale delle donne affette da PCOS è in genere caratterizzato da livelli più elevati di testosterone, LH ed estrogeni e da livelli più bassi di progesterone (Janssen et al., 2004). Il rapporto LH/FSH, che di solito è pari a 1:2, risulta invertito (2-3:1) in circa due terzi delle pazienti (Nath et al., 2019) e il rapporto estradiolo/ progesterone è fortemente sbilanciato in favore del primo. I meccanismi all’origine di questi squilibri non sono del tutto chiari, ma le ipotesi più accreditate indicano come difetto primario un’alterata steroidogenesi a livello delle cellule della teca. Queste ultime, nelle donne con PCOS, sarebbero caratterizzate da un’aumentata espressione di diversi enzimi coinvolti nella sintesi degli ormoni sessuali (in particolare del citocromo P450c17) e da un maggior numero di recettori per l’LH, a cui sono dunque più responsive. L’eccesso di androgeni porta ad un’aumentata follicologenesi (ovvero al reclutamento di un numero maggiore di follicoli all’inizio della fase follicolare) e alla luteinizzazione precoce delle cellule tecali e della granulosa, che diventano iper-responsive alle gonadotropine. In particolare, le cellule della granulosa producono più estrogeni e progesterone in risposta all’FSH ed esprimono precocemente recettori per l’LH, fenomeno che normalmente, nella fase follicolare, è limitato al follicolo dominante. Molto probabilmente, la precoce luteinizzazione induce una prematura differenziazione terminale nelle cellule della granulosa, che risulta nell’arresto della crescita follicolare. Gli elevati livelli di estrogeni prodotti dai follicoli prematuramente luteinizzati eserciterebbero inoltre un feedback negativo sulla produzione di FSH, interferendo con la maturazione dei follicoli “sani” (ovvero non precocemente luteinizzati) e compromettendo definitivamente l’ovulazione (Franks et al., 2008).

Se l’ovulazione non avviene il corpo luteo non si forma e i livelli di progesterone nella fase luteale restano bassi, compromettendo il meccanismo di feedback negativo che normalmente riduce la frequenza di pulsazione del GnRH e, dunque, dell’LH. L’eccesso di androgeni, che interferisce con l’azione degli ormoni femminili a livello ipotalamico, aggrava la situazione, favorendo l’ipersecrezione di LH e un deficit relativo di FSH (Abbott et al., 2018).

La “dominanza estrogenica” (ovvero lo sbilanciamento del rapporto estrogeni/ progesterone in favore dei primi) rende le donne più propense a produrre

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auto-anticorpi, e quindi a sviluppare patologie autoimmuni come - per esempio - la tiroidite di Hashimoto. A questo proposito, Arduc e colleghi (2015) riportano che nelle donne affette da PCOS il rapporto estrogeni/progesterone sembra essere direttamente correlato alla concentrazione degli anticorpi anti-TPO.

Va comunque notato che la PCOS non si manifesta nello stesso modo in tutte le pazienti: alcune donne, pur essendo affette dalla sindrome, ovulano normalmente, mentre altre hanno cicli anovulatori ma livelli di androgeni nella norma. Il rischio di sviluppare patologie autoimmuni, quindi, potrebbe variare a seconda del fenotipo, con le pazienti con cicli anovulatori e senza iperandrogenismo che sarebbero le più a rischio e quelle con cicli ovulatori e iperandrogenismo che, in virtù della natura immunosoppressoria degli androgeni, sarebbero le più protette (Kowalczyk et al., 2017).

2.3.5. Tiroide e ciclo ovarico

Gli ormoni tiroidei contribuiscono alla regolazione delle funzioni riproduttive femminili, come dimostrato dalla presenza di fT3 e fT4 nel fluido follicolare umano e dall’espressione del loro recettore da parte delle cellule della granulosa. Nello specifico, l’effetto degli ormoni tiroidei sarebbe quello di potenziare la secrezione di estradiolo e progesterone indotta dalle gonadotropine (Wakim et al., 1995).

Si sa che, rispetto alle donne con normale funzionalità tiroidea, le pazienti che soffrono di ipo- e ipertiroidismo riportano maggiori disturbi mestruali (Jacobson et al., 2018); inoltre, l’ipotiroidismo può determinare la comparsa di ovaie dall’aspetto policistico. Gli alti livelli dell’ormone di rilascio della tireotropina (TRH) tipici dell’ipotiroidismo stimolano la secrezione della prolattina; quest’ultima rallenta la frequenza di pulsazione del GnRH, riducendo la secrezione delle gonadotropine e variandone il rapporto in favore dell’FSH (Singla et al., 2015). A potenziare quest’effetto contribuiscono i bassi livelli di ormoni tiroidei, a cui corrisponde un’aumentata espressione del fattore inibente le gonadotropine (GnIH) (Kiyohara et al., 2017). Il TSH, anch’esso elevato in caso di ipotiroidismo, è in grado di agire sulle cellule della granulosa aumentando l’espressione dei recettori per l’FSH (che sono strutturalmente omologhi ai suoi), nonché di aumentare la deposizione di collagene a livello ovarico.

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Tutti questi fattori, a cui può aggiungersi l’aumentata sintesi surrenalica di deidroepiandrosterone (DHEA) indotta dalla stessa prolattina, possono interferire con la corretta maturazione dei follicoli e compromettere l’ovulazione (Singla et al., 2015).

Alti livelli di TSH, anche nel range della normalità, sono inoltre associati ad un maggior rischio di sviluppare insulino-resistenza a livello di muscoli e tessuto adiposo (Chang et al., 2019). L’iperinsulinemia compensatoria è in grado di aumentare l’espressione dei recettori dell’LH e del citocromo P450c17 nelle cellule della teca, potenziando la steroidogenesi (Rosenfield & Ehrmann, 2016). Infine, Medenica e colleghi (2018) riportano che il fluido follicolare delle pazienti affette da tiroidite autoimmune contiene livelli di anticorpi anti-TPO e anti-TG proporzionali a quelli sierici e ipotizzano che questi anticorpi possano determinare fenomeni di citotossicità in grado di danneggiare l’oocita in fase di maturazione e di comprometterne lo sviluppo.

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3. ASPETTI METABOLICI COMUNI

3.1. PESO CORPOREO

3.1.1. Tiroidite di Hashimoto e peso corporeo

Nel 2010 dei ricercatori italiani hanno pubblicato i risultati di uno studio condotto su 104 donne sovrappeso o obese eutiroidee, riportando una prevalenza della tiroidite di Hashimoto pari al 28,8% (Ciccone et al., 2010). Precedentemente, in uno studio indiano, sia la prevalenza di ipotiroidismo tra i soggetti con BMI superiore a 25 sia, viceversa, la prevalenza dell’eccesso di peso nei soggetti con ipotiroidismo primario erano risultate pari al 44% (Verma et al., 2008). Un’indagine danese che ha coinvolto più di 4000 persone ha rivelato che piccole variazioni della funzionalità tiroidea, anche all’interno del range di riferimento, sono associate a variazioni significative del peso corporeo. In particolare, sono emerse un’associazione positiva tra TSH plasmatico e BMI e un’associazione negativa tra fT4 e BMI. Le donne con TSH superiore a 3,6 mU/L ma senza ipotiroidismo conclamato avevano un BMI superiore di 1,9 Kg/m2 rispetto alle donne con TSH inferiore a 0,4 mU/L, corrispondente - se si considera l’altezza media di 1,66 m - a 5,5 kg in più (Knudsen et al., 2005).

Il ruolo chiave degli ormoni tiroidei nella regolazione del metabolismo energetico è noto fin dal 1895, anno in cui Magnus Levy scoprì che l’assunzione di estratti di T3 e T4 induceva un aumento del consumo di ossigeno negli umani. Con il tempo è emerso che i pazienti ipertiroidei tendono ad avere un metabolismo accelerato e a perdere peso nonostante l’aumento dell’intake energetico, mentre gli ipotiroidei hanno un metabolismo più lento, aumentano di peso e sono particolarmente sensibili al freddo. Oggi sappiamo che T3 e T4 riducono l’efficienza metabolica e aumentano la produzione di calore, modulando la spesa energetica attraverso vari meccanismi (Yehuda-Shnaidman et al., 2014). A livello mitocondriale essi promuovono il disaccoppiamento tra la catena di trasporto degli elettroni e la fosforilazione ossidativa, interferendo con la produzione di adenosina-trifosfato (ATP). In particolare, la T3 stimola la trascrizione di proteine disaccoppianti (UCP), che si inseriscono nella membrana mitocondriale interna rendendola più permeabile ai protoni. In questo

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modo, il gradiente protonico sfruttato dall’ATP sintasi per generare ATP a partire da adenosina difosfato (ADP) e fosfato inorganico viene in gran parte dissipato sotto forma di calore e l’efficienza metabolica diminuisce (a parità di substrati energetici viene prodotta meno ATP). Oltre alle UCP, hanno un effetto disaccoppiante anche il poro di transizione della permeabilità mitocondriale e l’ATP-ADP traslocasi, anch’essi up-regolati dalla T3 (Vaitkus et al., 2015).

A livello extra-mitocondriale, gli ormoni tiroidei stimolano i cosiddetti “cicli futili”, ovvero la simultanea attivazione di due reazioni e/o vie metaboliche opposte che consumano ATP e che hanno come unico risultato netto la produzione di calore. Nello specifico, il ciclo di Cori (glucosio/lattato/glucosio) e i cicli futili glucosio/glucosio-6-fosfato e fruttosio-6-glucosio/glucosio-6-fosfato/fruttosio 1,6 diglucosio/glucosio-6-fosfato vengono up-regolati; la sintesi degli acidi grassi e la ß-ossidazione sono entrambe incentivate, così come la lipolisi e la ri-esterificazione degli acidi grassi; l’incremento della sintesi proteica, inoltre, si accompagna a un’aumentata degradazione delle proteine muscolari. Altri cicli futili vengono generati sfruttando i gradienti ionici. La T3 aumenta la permeabilità della membrana plasmatica agli ioni sodio e potassio e, allo stesso tempo, l’espressione e l’attività della pompa Na+/K+, che sfrutta l’energia generata dall’idrolisi dell’ATP per ripristinare il gradiente fisiologico. Allo stesso modo, gli ormoni tiroidei up-regolano contemporaneamente i recettori della rianoidina che promuovono l’efflusso del calcio dal reticolo endoplasmatico al citosol e le Ca2+ ATPasi del reticolo sarco/ endoplasmatico, che risequestrano lo ione nel reticolo.

L’eccesso di peso, a sua volta, potrebbe interferire con la funzionalità tiroidea. In bambini, adolescenti e adulti obesi il TSH è spesso ai limiti della normalità, mentre la fT4 è bassa e la fT3 moderatamente aumentata. Ciò potrebbe essere dovuto a vari fattori, per esempio all’azione della leptina (che stimola la produzione di TRH a livello ipotalamico e aumenta l’attività delle deiodinasi periferiche) e/o alle citochine pro-infiammatorie rilasciate dal grasso viscerale, capaci di inibire l’uptake tiroideo di iodio (Yehuda-Shnaidman et al., 2014). Nella maggior parte dei casi, comunque, sembra che siano le disfunzioni tiroidee a precedere l’aumento di peso e non viceversa (Knudsen et al., 2005).

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Va aggiunto che l’incremento ponderale tipico dell’ipotiroidismo riflette in parte anche l’aumento dei liquidi corporei. Il calo degli ormoni tiroidei, infatti, aumenta la velocità di sintesi - e quindi l’accumulo - dei glicosaminoglicani, molecole in grado di trattenere a livello della pelle e di altri tessuti notevoli quantità di acqua e, nei casi più severi, di indurre la comparsa del cosiddetto “mixedema”, un edema sottocutaneo diffuso (Joshi, 2018). Analizzando la composizione corporea delle pazienti ipotiroidee prima e dopo l’assunzione di levotiroxina (LT4) diversi gruppi di ricerca hanno scoperto che la perdita di peso indotta dalla terapia era dovuta quasi esclusivamente alla riduzione della ritenzione idrica (Laurberg et al., 2012).

3.1.2. PCOS e peso corporeo

Nel 2006 uno studio spagnolo ha diagnosticato la PCOS nel 28,3% delle donne con BMI superiore a 25, una prevalenza più di 5 volte superiore a quella registrata nella popolazione generale (Alvarez-Blasco et al., 2006). Secondo una meta-analisi del 2012, che prende in considerazione 35 studi condotti su oltre 15 mila donne, le pazienti affette da PCOS hanno un rischio di sovrappeso due volte maggiore e un rischio obesità tre volte maggiore rispetto alle donne senza PCOS (Lim et al., 2012). La prevalenza di pazienti con PCOS sovrappeso o obese dipende in gran parte dall’area geografica di provenienza e negli Stati Uniti può raggiungere l’80% (Sam, 2007). Il peso in eccesso influenza negativamente le caratteristiche della PCOS sia dal punto di vista metabolico che da quello riproduttivo, aumentando il rischio di sviluppare intolleranza glucidica, dislipidemia e sindrome metabolica e riducendo le probabilità di successo dei trattamenti di fertilizzazione in vitro. Tali effetti sono mediati principalmente dall’insulino-resistenza, la cui prevalenza aumenta all’aumentare del BMI (Legro, 2012).

Per insulino-resistenza si intende la ridotta capacità, da parte di tessuti normalmente sensibili all’insulina (muscolo scheletrico, tessuto adiposo, miocardio, fegato) di trasdurre i segnali mediati dall’ormone, in particolare quelli relativi al metabolismo del glucosio (Diamanti-Kandarakis & Dunaif, 2012). Allo sviluppo dell’insulino-resistenza possono contribuire diversi fattori, tra i quali spiccano la produzione di citochine pro-infiammatorie da parte del tessuto adiposo ipertrofico e l’accumulo ectopico dei lipidi.

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Il tessuto adiposo è l’unico organo del corpo umano specificamente disegnato per immagazzinare i grassi. In presenza di ripetuti eccessi alimentari può espandersi drasticamente, dapprima per ipertrofia (aumento del volume degli adipociti) e poi anche per iperplasia (genesi di nuove cellule adipose) (Rosen & Spiegelman, 2014). Raggiunta una determinata “dimensione critica” gli adipociti ipertrofici cominciano a soffrire di ipossia, perché il limite di diffusibilità dell’ossigeno all’interno delle cellule (pari a circa 100 µm) viene superato (Bambace et al., 2011). In aggiunta, l’abnorme afflusso intracellulare di grassi mette sotto stress il reticolo endoplasmatico e i mitocondri, i due organelli responsabili del metabolismo lipidico. Il sovraccarico di lavoro a cui il reticolo endoplasmatico è costretto si ripercuote negativamente sul ripiegamento delle proteine, determinando la formazione di aggregati proteici citosolici in grado di interferire con i normali processi cellulari. Il reticolo, per contenere il problema, attiva la risposta alle proteine non ripiegate (UPR), riducendo la sintesi proteica e aumentando la clearance delle proteine anomale; se ciò non è sufficiente, la cellula viene spinta verso l’apoptosi (De Ferranti & Mozaffarian, 2008). Durante la UPR vengono attivate diverse serina chinasi, che fosforilano e inattivano il substrato 1 del recettore dell’insulina (IRS-1) riducendo la sensibilità del tessuto adiposo all’ormone (Zeyda & Stulnig, 2009). Inoltre, la serina chinasi IKK promuove la degradazione dell’inibitore di NF-κB, permettendo al fattore di trascrizione di migrare nel nucleo e regolare numerosi geni coinvolti nella risposta infiammatoria (Tam et al., 2012). Le chemochine rilasciate dagli adipociti ipertrofici richiamano nel tessuto adiposo macrofagi, mastociti, neutrofili, linfociti B, cellule NK e linfociti Th1, che insieme alle cellule immunitarie residenti e agli adipociti stessi producono citochine pro-infiammatorie come il TNFα e l’IL-6, che compromettono la sensibilità insulinica a livello sia locale che sistemico (Rosen & Spiegelman, 2014). Il TNFα, in particolare, attiva le serina chinasi IKK, JNK e aPKC, che fosforilano IRS-1 inibendone le funzioni (Lauterbach & Wunderlich, 2017). In aggiunta, insieme ad altre citochine, riduce la capacità di storage del tessuto adiposo, sia inibendo la differenziazione dei pre-adipociti sia stimolando l’espressione delle lipasi. Ciò si traduce in un aumento della concentrazione ematica di trigliceridi e acidi grassi liberi, i quali si dirigono verso altri organi e tessuti, i quali (per effetto dell’infiammazione cronica di basso grado) li captano e li accumulano

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in misura significativamente superiore al normale. Nel fegato le citochine pro-infiammatorie up-regolano l’espressione dei trasportatori degli acidi grassi e degli enzimi coinvolti nella lipogenesi (Liu et al., 2014). Le elevate concentrazioni intracellulari di acidi grassi, trigliceridi e metaboliti ad essi associati (acil-CoA, diacilgliceroli (DAG) e ceramidi) possono interferire con le normali funzioni degli epatociti, un fenomeno noto come “lipotossicità”.

La lipotossicità, che può interessare qualsiasi tessuto diverso da quello adiposo in cui si depositino quantità anomale di grassi, può dare luogo a due diversi tipi di danno, che si verificano in modo indipendente l’uno dall’altro. Da una parte si assiste al danneggiamento di reticolo endoplasmatico, mitocondri e lisosomi e alla conseguente induzione dell’apoptosi, dall’altra alla compromissione della via di segnalazione dell’insulina e, dunque, alla perturbazione del metabolismo glucidico (Li et al., 2010). Mentre nelle cellule ß, nei cardiomiociti e negli oociti prevale l’apoptosi, nel fegato l’effetto lipotossico principale è l’aumento dell’insulino-resistenza, imputabile all’inattivazione dell’IRS-1 da parte di serina chinasi attivate dal DAG e altri metaboliti lipidici (Li et al., 2010; Silvestris et al., 2018; Nagle et al., 2009).

Allo stesso modo, il contenuto intramiocellulare di lipidi correla negativamente con la sensibilità insulinica muscolare, ma i meccanismi con cui l’insulino-resistenza si sviluppa sono, in questo caso, meno chiari (Daemen et al., 2018).

L’obesità, comunque, sembra poter aggravare le caratteristiche metabolico-riproduttive della PCOS anche tramite meccanismi diversi dall’insulino-resistenza. Le citochine pro-infiammatorie prodotte dal tessuto adiposo possono infatti sopprimere il rilascio di gonadotropine, prevenendo il picco pre-ovulatorio di estrogeni e LH e interferendo con l’ovulazione. A conferma di ciò, diversi studi riportano che nelle pazienti affette da PCOS il BMI è inversamente correlato ai livelli di LH, con le donne estremamente obese (BMI > 40) che ne hanno in circolo quantità normali o addirittura ridotte (mentre la PCOS in sé è caratterizzata, nella maggior parte dei casi, da un’ipersecrezione dell’ormone). Infine, la frazione stromale-vascolare del tessuto adiposo (pre-adipociti, fibroblasti, cellule endoteliali, cellule immunitarie) esprime diversi enzimi implicati nel metabolismo degli ormoni sessuali. L’enzima 17ß-idrossisteroide deidrogenasi (la cui espressione è up-regolata dall’insulina e correla con

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