• Non ci sono risultati.

4. STRATEGIE NUTRIZIONALI

4.5. MICRONUTRIENTI FONDAMENTALI

Lo iodio è l’elemento chiave per la produzione degli ormoni tiroidei. I tireociti lo internalizzano grazie al simporto sodio/ioduro (NIS), un trasportatore attivo espresso a livello della membrana basolaterale; l’anione ioduro attraversa la membrana apicale raggiungendo il follicolo tiroideo, ricco di colloide e di tireoglobulina (Tg), una proteina sintetizzata dalle stesse cellule tiroidee. Nel follicolo tiroideo la TPO catalizza l’ossidazione dello ioduro, agevolando la iodazione dei residui di tirosina della Tg e il loro successivo accoppiamento, che porta alla formazione di T3 e T4 (Rousset et al., 2015).

A livello della crosta terrestre lo iodio è un minerale presente in traccia, che si concentra principalmente nelle zone costiere. I cibi che ne sono più ricchi sono quelli di origine marina (pesci, crostacei, molluschi e alghe), mentre le quantità contenute in altri alimenti di origine animale e vegetale dipendono in larga misura dalla concentrazione di iodio nel terreno, nell’acqua ed eventualmente nei mangimi (Leung & Braverman, 2014).

La dose giornaliera raccomandata per gli adulti è di 150 µg, che salgono a 200 nelle donne in gravidanza e allattamento. Dato che oltre il 90% dello iodio ingerito viene escreto per via renale nel giro di uno o due giorni, il marcatore comunemente utilizzato per valutarne l’apporto alimentare è la concentrazione urinaria di iodio (UIC), considerata ottimale nel range 100-200 µg/L. Vaste zone del mondo sono carenti di iodio, soprattutto se montuose e/o lontane dal mare. La carenza grave (UIC < 20 µg/L) può provocare danni cerebrali irreversibili, gozzo e ipotiroidismo, a causa della ridotta sintesi di ormoni tiroidei. Le carenze lievi e moderate (UIC = 50-99 µg/L) sono invece compensate, nella maggior parte dei soggetti, da una maggiore stimolazione della ghiandola, che consente di mantenere uno stato di eutireosi ma - allo stesso tempo - aumenta il rischio di gozzo multinodulare e ipertiroidismo (Eastman & Zimmerrman, 2018). Per ovviare a questi problemi, a partire dagli anni ’20 del Novecento i governi di vari Paesi hanno avviato programmi di iodoprofilassi, cominciando a fortificare il sale da cucina con iodati e ioduri.

La fortificazione del sale ha ridotto drasticamente le conseguenze negative legate al deficit di iodio, ma allo stesso tempo diversi studi hanno registrato un incremento dei casi di ipertiroidismo iodio-indotto e di tiroidite di Hashimoto (Duntas, 2015). L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sottolinea che nelle zone tradizionalmente carenti di iodio un improvviso aumento della disponibilità del minerale potrebbe determinare la comparsa di effetti avversi in una fetta consistente della popolazione, suggerendo di dosare la fortificazione in modo da mantenere il valore di UIC al di sotto dei 300 µg/g (World Health Organization, 2007). In realtà, studi condotti in varie parti del mondo sembrano indicare che il rischio di sviluppare la tiroidite di Hashimoto aumenta già a valori di UIC compresi tra i 200 e i 300 µg/L e che, nei soggetti affetti dalla patologia, un maggiore consumo di iodio è associato a valori significativamente più elevati di anticorpi anti-tiroidei, in particolare di quelli anti-Tg (Teng et al., 2011; Latrofa et al., 2013). La iodazione della Tg sembra esporre un epitopo precedentemente nascosto della proteina, aumentandone l’immugenicità e scatenando - nei soggetti geneticamente suscettibili - una risposta autoimmune (Latrofa et al., 2013).

Studi sui topi hanno recentemente rivelato che l’eccesso di iodio è in grado di inibire lo sviluppo dei linfociti Treg, aumentando allo stesso tempo l’infiltrazione intratiroidea dei Th17. Elevate quantità di iodio possono aumentare lo stress ossidativo e promuovere l’apoptosi, contribuendo anche in tal modo alla distruzione del parenchima tiroideo (Duntas, 2015).

In Italia il sale viene fortificato con 30 mg di ioduro o iodato di potassio per Kg; ciò significa che consumandone 5 g al giorno (la dose massima di sale raccomandata dall’OMS) se ne introducono esattamente 150 µg. Il consumo di sale nella popolazione italiana è di circa 10 mg al giorno, ma siccome oltre la metà deriva da prodotti confezionati e l’utilizzo del sale iodato da parte dell’industria alimentare è ancora molto scarso, l’introito giornaliero di sale fortificato è pari a meno di un quinto del totale (meno di 2 mg) e la UIC media risulta insufficiente (< 100 µg/L) (D’Argenio et al., 2014). Tenendo in considerazione i dati sui consumi alimentari, l’Istituto Superiore di Sanità ha calcolato che l’utilizzo di 5 g al giorno di sale fortificato porterebbe l’intake stimato di iodio a valori ottimali (100-200 µg/giorno), mentre la sua eliminazione risulterebbe in un apporto largamente insufficiente (60-70 µg di iodio al giorno) (Pastorelli et al., 2015). Se consumato nelle quantità consigliate dall’OMS, nel nostro Paese il sale iodato/iodurato non sembra dunque poter costituire un problema per le donne affette da tiroidite di Hashimoto.

Piuttosto, è necessario fare attenzione agli integratori alimentari, in particolare a quelli a base di alga Kelp, che spesso contengono quantità di iodio ben superiori a quelle riportate in etichetta (Leung & Braverman, 2014). È inoltre opportuno limitare il consumo di alghe marine: un grammo di alga nori (comunemente utilizzata per il sushi) apporta tra i 29 e i 46 µg di iodio, un grammo di alga wakame ne fornisce tra i 94 e i 185 µg e un grammo di alga kelp/kombu ne può contenere da 240 µg a 4,9 mg (Yeh et al., 2014).

4.5.1. Il selenio

Il selenio è un minerale con proprietà antinfiammatorie e antiossidanti, è fondamentale per l’attivazione degli ormoni tiroidei e sembra migliorare sia la sensibilità insulinica che il profilo lipidico. Per queste ragioni, potrebbe essere un

elemento particolarmente importante per le donne affette sia da tiroidite di Hashimoto che da PCOS.

La tiroide è in assoluto l’organo con la più elevata concentrazione di selenio. Ne contiene da 0,2 a 2 µg/g, incorporati in diversi tipi di selenoproteine (Ventura et al., 2017). Tra queste spiccano le deiodinasi, le diverse isoforme della glutatione perossidasi e la selenoproteina S. Le deiodinasi, presenti sia nella tiroide che in periferia, rimuovono un atomo di iodio dalla T4, convertendola nella più attiva T3; una loro ridotta attività (causata per esempio dalla carenza di selenio) si associa ad un aumento della concentrazione di T4 e ad un elevato rapporto T4/T3, mentre il TSH rimane invariato. La glutatione perossidasi 3 neutralizza la H2O2 in eccesso non utilizzata dalla TPO per l’ossidazione dello ioduro, mentre la glutatione perossidasi 1 agisce all’interno della cellula per prevenire eventuali danni causati dalla diffusione del perossido di idrogeno nel tireocita. La serenoproteina S, invece, riduce lo stress del reticolo endoplasmatico e la produzione di citochine pro-infiammatorie (Hu & Rayman, 2017).

Uno studio condotto in Cina ha rivelato che - a parità di caratteristiche genetiche, stile di vita e apporto di iodio - la prevalenza di patologie tiroidee è superiore nelle popolazioni con scarso intake di selenio e inferiore in quelle con intake adeguato (30,5 vs 18,5%). In particolare, elevate concentrazioni plasmatiche di selenio erano associate a un rischio quasi dimezzato di contrarre la tiroidite di Hashimoto (OR = 0,49). Dato che in entrambe le popolazioni l’intake di iodio era più che adeguato (UIC > 200 µg/L), si pensa che il selenio sia in grado di proteggere la tiroide dalle conseguenze negative dell’eccesso di iodio (o della sua aumentata disponibilità in zone precedentemente carenti), grazie soprattutto all’attività antiossidante e alla capacità di regolare le risposte immunitarie (Wu et al., 2015).

Nei modelli murini di tiroidite autoimmune il selenio promuove la differenziazione dei linfociti Treg (Xue et al., 2010), mentre in vitro inibisce l’espressione aberrante dei recettori HLA-DR sulla superficie dei tireociti (Balázs & Kaczur, 2012). L’assunzione di integratori a base di seleniometionina da parte di pazienti con tiroidite di Hashimoto sembra ridurre il livello di anticorpi anti-TPO, in particolare in associazione con la LT4,

anche se per trarre conclusioni definitive sono necessari più studi (Liontiris & Mazokopakis, 2017).

Da approfondire sono anche i possibili effetti benefici del selenio sulla PCOS. Diversi studi hanno evidenziato che l’integrazione con selenio può ridurre lo stress ossidativo e l’infiammazione nelle donne affette dalla sindrome, migliorando in alcuni casi anche la sensibilità insulinica, il profilo lipidico, le probabilità di gravidanza e le manifestazioni cliniche dell’iperandrogenismo (acne e/o irsutismo). I risultati dei vari studi, però, non sono coerenti e non è possibile affermare con certezza che il selenio abbia effetti protettivi nei confronti della PCOS (Hajizadeh-Sharafabad et al., 2019).

In ogni caso, sia la tiroidite di Hashimoto che la PCOS potrebbero a loro volta favorire la comparsa di un deficit di selenio, quindi potrebbe comunque rendersi necessaria un’integrazione (Duntas, 2015; Hajizadeh-Sharafabad et al., 2019). Nel mondo, l’apporto alimentare di selenio è altamente variabile e dipende principalmente dalla concentrazione di selenio nel terreno. L’intake medio è pari a 40 µg al giorno in Europa (e in Italia) e a 93-134 µg al giorno negli Stati Uniti, a fronte di una dose giornaliera raccomandata pari a 55-60 µg (Hu & Rayman, 2017). Si stima che da 500 milioni a un miliardo di persone nel mondo ne siano carenti, in particolare in aree come la Cina, la Siberia e la Nuova Zelanda (Shreenath & Dooley, 2019). Le noci del Brasile ne sono particolarmente ricche, perché l’albero che le produce è particolarmente efficace nell’assimilare il selenio dal terreno e nell’accumularlo in foglie e semi. La quantità di selenio presente nelle noci brasiliane, però, dipende anche in questo caso dalla concentrazione di selenio nel suolo, che nella foresta Amazzonica è altamente variabile; esse possono contenerne dagli 0,03 ai 512 µg/g (Rayman, 2008).

L’assunzione cronica di 400 µg di selenio al giorno può aumentare il rischio di sviluppare sintomi associati alla selenosi, quali anoressia, perdita di unghie e capelli, diarrea, nausea, depressione, dermatite, irritabilità e alito cattivo (con caratteristico odore di aglio); l’assunzione di oltre 1200 µg di selenio può invece provocare intossicazioni acute. In caso di carenza è bene affidarsi ad un integratore di selenio, senza superare i 200 µg al giorno e verificando prima che non ci sia una concomitante carenza di iodio; in tal caso, infatti, l’integrazione potrebbe risultare inefficace o addirittura dannosa. Nelle pazienti affette da tiroidite di Hashimoto, gli integratori più

efficaci sembrano essere quelli a base di selenometionina (Liontiris & Mazokopakis, 2017).

4.5.1. La vitamina D

La vitamina D è un ormone steoideo, capace di regolare l’espressione di centinaia di geni grazie al legame con il suo recettore (VDR), che è praticamente ubiquitario (Bikle, 2014). La maggior parte della vitamina D viene sintetizzata a partire del 7- deidrocolesterolo cutaneo, in seguito all’esposizione ai raggi UVB del sole; le fonti alimentari sono invece piuttosto scarse (pesci grassi, tuorli d’uovo, funghi esposti al sole, cibi fortificati) e il loro contribuito totale ai livelli plasmatici di vitamina D è minimo (Pilz et al., 2018). La sua carenza - che riguarda circa un miliardo di persone in tutto mondo - è stata associata a numerose patologie, tra cui anche la tiroidite di Hashimoto e la PCOS (Palacios & Gonzalez, 2014; Kowalczyk et al., 2017).

Le cellule del sistema immunitario, le ovaie e altri tessuti riproduttivi femminili esprimono sia il VDR sia la 1-alfa-idrossilasi, l’enzima che converte il metabolita 25-OH- colecalficerolo in 1,25-OH-colecalciferolo, la forma attiva della vitamina D (Nettore et al., 2017; Xu et al., 2018). Dal punto di vista immunitario, la vitamina D promuove le risposte innate e modula quelle adattative in senso anti-infiammatorio, favorendo la differenziazione dei linfociti Th2 e Treg a discapito di quella dei Th1 e dei Th17. Inoltre, inibisce il rilascio di citochine pro-infiammatorie come IL1, IL6 e TNFα da parte dei monociti e la maturazione delle cellule dendritiche, conferendo a queste ultime proprietà tollerogeniche (Altieri et al., 2017). Polimorfismi a livello del VDR e dell’alfa-1- idrossilasi sono stati associati alla tiroidite di Hashimoto e numerosi studi hanno evidenziato livelli inferiori di vitamina D e una maggiore prevalenza del suo deficit nelle pazienti con la malattia; in alcuni studi, ma non in tutti, sono emerse correlazioni anche con la durata della patologia, il volume tiroideo, il livello di autoanticorpi e la funzionalità della ghiandola. Non è ancora del tutto chiaro se il deficit di vitamina D sia una causa o piuttosto una conseguenza della tiroidite, ma sembra che l’integrazione sia associata ad una riduzione significativa degli anticorpi anti-tiroidei, in particolare degli anti-TPO (Kim, 2017).

La vitamina D up-regola il recettore solubile per gli AGE, che legandosi agli AGE circolanti ne previene gli effetti pro-infiammatori e pro-ossidanti a livello follicolare (Irani & Merhi, 2014). Bassi livelli di vitamina D nel fluido follicolare delle donne con PCOS sono associati a concentrazioni inferiori di estrogeni e progesterone e a concentrazioni più elevate di testosterone (Masjedi et al., 2019). L’integrazione sembra favorire la regolarità mestruale e la maturazione del follicolo, aumentando le probabilità di gravidanza (Irani & Merhi, 2014). Diversi studi hanno notato una correlazione negativa tra i valori di vitamina D e le caratteristiche associate alla sindrome metabolica nelle donne con PCOS sovrappeso e obese, ma non in quelle normopeso (Kowalczyk et al., 2017). Anche in questo caso l’ipovitaminosi D potrebbe essere una conseguenza della patologia e, nello specifico, dell’obesità ad essa associata; un tessuto adiposo particolarmente espanso, infatti, può sequestrare quantità considerevoli di vitamine liposolubili, tra cui appunto la vitamina D (Renzaho et al., 2011).

Le donne affette da tiroidite di Hashimoto e PCOS dovrebbero tenere sotto controllo il proprio livello di vitamina D e, in caso di carenza, valutare l’assunzione di un integratore. In generale, valori plasmatici di 25-OH-colecalciferolo compresi tra i 30 e i 100 ng/ml sono considerati adeguati e il livello massimo tollerabile di assunzione per gli adulti è posto a 100 µg al giorno (4000 U.I.) (Pilz et al., 2019).

4.5.1. Il ferro

La TPO è un enzima contenente il gruppo eme e si attiva in seguito al legame con il ferro. Una carenza di ferro, dunque, potrebbe influenzare negativamente la sintesi degli ormoni tiroidei. Le donne anemiche, in effetti, sembrano avere livelli di T3 e T4 inferiori e livelli di TSH superiori rispetto alle donne non anemiche e l’integrazione con il ferro tenderebbe a normalizzare la situazione. In aggiunta, un recente studio finlandese suggerisce che, anche in assenza di anemia, bassi livelli di ferritina (<60 mg/L) potrebbero contribuire alla persistenza dei sintomi durante la terapia con LT4. Nelle donne affette da tiroidite di Hashimoto l’assorbimento del ferro a livello gastrointestinale potrebbe essere ridotto, a causa della presenza di comorbidità comuni come la celiachia e la gastrite autoimmune o dell’ipotiroidismo stesso (Hu & Rayman, 2017).

Al contrario, la PCOS è spesso associata a maggiori scorte di ferro, probabilmente a causa delle ridotte perdite (nelle pazienti con oligo/amenorrea), dell’aumentato stress ossidativo (che up-regola la sintesi di ferritina) e/o dell’iperinsulinemia (che promuove l’assorbimento del ferro a livello intestinale riducendo i livelli di epcidina) (Al-Hakeim, 2012). Dato che un sovraccarico di ferro può interferire con la funzione di diverse ghiandole endocrine e aggravare l’insulino-resistenza (Al-Hakeim, 2012), prima di valutare un’eventuale integrazione è bene sottoporsi ad un esame del sangue completo, cercando - in caso di carenza non grave - di ottimizzarne l’apporto con la dieta. Eventuali integratori vanno assunti ad almeno 4 ore di distanza dalla LT4, perché potrebbero interferire con l’assorbimento del farmaco (Skelin et al., 2017).

4.5.1. Altri micronutrienti

Le donne affette da tiroidite di Hashimoto e PCOS dovrebbero tenere sotto controllo anche i livelli plasmatici di zinco, calcio e vitamine del gruppo B (in particolare B6, B9 e B12); inoltre, dovrebbero seguire un’alimentazione ricca di sostanze antiossidanti e antiinfiammatorie, come carotenoidi, flavonoidi, vitamina C, vitamina E ed acidi grassi omega-3.

Lo zinco è un minerale essenziale per il funzionamento di oltre 300 enzimi, tra cui molti enzimi antiossidanti. Partecipa inoltre alla sintesi, all’immagazzinamento e alla secrezione dell’insulina, facilitandone l’azione a livello dei tessuti bersaglio (Günalan et al., 2018). Una sua carenza favorisce il rischio di sviluppare obesità, intolleranza glucidica e dislipidemia e una recente meta-analisi ha concluso che le donne con PCOS, rispetto ai controlli sani, tendono ad averne livelli circolanti significativamente ridotti (Abedini et al., 2019). La ridotta funzionalità tiroidea, a sua volta, potrebbe ridurre l’assorbimento intestinale del minerale e aumentarne l’escrezione renale (Chen et al., 2005). In uno studio iraniano, l’integrazione con 50 mg di zinco per 8 settimane ha migliorato il profilo metabolico delle donne con PCOS, riducendo glicemia a digiuno, insulinemia, insulino-resistenza e trigliceridemia (Foroozanfard et al., 2015). In un altro studio, la stessa quantità di zinco somministrata per 8 settimane ha dimostrato effetti benefici su alopecia e irsutismo in un gruppo di donne affette dalla sindrome (Jamilian et al., 2016). L’integrazione con zinco sembra influenzare positivamente anche la

funzionalità tiroidea, probabilmente perché sia le deiodinasi che il recettore degli ormoni tiroidei sono proteine contenenti zinco (Mahmoodianfard et al., 2015).

Il calcio è coinvolto nella via di segnalazione dell’insulina, nello sviluppo follicolare e nella maturazione degli oociti. I suoi livelli plasmatici potrebbero essere ridotti nelle donne con PCOS e tiroidite di Hashimoto a causa della concomitante carenza di vitamina D, che ne regola il metabolismo (Günalan et al., 2018; Mackawy et al., 2013). In caso di carenza, eventuali integratori vanno assunti ad almeno 4 ore di distanza dalla LT4, per non interferire con l’assorbimento del farmaco (Mazokopakis et al., 2008).

Le vitamine del gruppo B sono importanti per il metabolismo energetico e per il buon funzionamento del sistema nervoso; la vitamina B6, l’acido folico e la vitamina B12, inoltre, regolano il metabolismo dell’omocisteina, un amminoacido solforato derivante dalla metionina che - se in eccesso - aumenta il rischio cardiovascolare e interferisce con le funzioni riproduttive (Günalan et al., 2018). L’ipotiroidismo è associato ad aumentati livelli di omocisteina e la terapia con LT4 ne riduce la concentrazione nelle pazienti con tiroidite di Hashimoto (Owecki et al., 2014). Comorbidità come l’anemia perniciosa e la gastrite atrofica autoimmune potrebbero inoltre ridurre l’assorbimento di vitamina B12 e acido folico (Collins & Pawlak, 2016). La PCOS è anch’essa associata a iperomocisteinemia e ridotti livelli di B12 e acido folico (Maleedhu et al., 2014). Per giunta, per migliorare la sensibilità insulinica, molte donne affette dalla sindrome assumono la metformina, un farmaco che può inibire il legame della vitamina B12 al fattore intrinseco impedendone l’assorbimento; oltre ai livelli di vitamina B12 la metformina riduce anche quelli di acido folico, aumentando di conseguenza la concentrazione di omocisteina (Günalan et al., 2018). L’integrazione con acido folico e/o vitamine del gruppo B abbinata alla terapia con metformina ha un effetto protettivo e, anzi, tende a ridurre i valori di omocisteina rispetto al baseline (Kilicdag et al., 2005). Data l’importanza sia dell’acido folico che della vitamina B12 per le funzioni nervose, riproduttive ed emopoietiche, in caso di carenza è assolutamente necessario integrarle entrambe.

Altre molecole potenzialmente benefiche per le donne con tiroidite di Hashimoto e PCOS sono l’acido alfa-lipoico (ALA), il cromo e la N-acetilcisteina (NAC). L’ALA è una piccola molecola anfipatica con due atomi di zolfo, che agisce come cofattore di diversi

enzimi coinvolti nella decarbossilazione del piruvato e nel ciclo di Krebs; è inoltre un potente antiossidante, può modulare le funzioni immunitarie e stimolare l’uptake del glucosio nelle cellule sensibili all’insulina (Liu et al., 2019). Il cromo 3+ amplifica l’azione dell’insulina e attenua lo stress ossidativo e diversi studi dimostrano che può ridurre l’insulino-resistenza nelle donne con PCOS, migliorando al contempo anche il profilo lipidico; va assunto ad almeno 4 ore di distanza dalla LT4 (John-Kalarickal et al., 2007). La NAC è un precursore del glutatione, che è un potente antiossidante intracellulare. La sua assunzione è associata ad un significativo miglioramento dell’iperandrogenismo e della regolarità mestruale nelle donne con PCOS, nonché ad una riduzione della resistenza insulinica e del colesterolo totale ed LDL (Günalan et al., 2018).

L’assunzione di integratori a base di carnitina, un amminoacido non proteico che trasporta gli acidi grassi all’interno del mitocondrio per la ß-ossidazione, va invece attentamente valutata. La carnitina può favorire la perdita di peso, migliorare la sensibilità insulinica, ridurre le LDL, aumentare le HDL e attenuare irregolarità mestruali e l’irsutismo associati alla PCOS (Salehpouret al., 2019); inoltre, sembra poter ridurre la spossatezza nelle pazienti con tiroidite autoimmune in trattamento con LT4 (An et al., 2016). Allo stesso tempo, però, diversi studi indicano che può interferire con l’azione periferica degli ormoni tiroidei, inibendo l’ingresso di T3 e T4 nel nucleo cellulare (Benvenga, et al., 2004).