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4. STRATEGIE NUTRIZIONALI

4.4. SENSIBILITÀ INSULINICA E INFIAMMAZIONE

Spesso le donne che soffrono di PCOS vengono spronate a seguire una dieta low- carb, in quanto la limitazione dei carboidrati viene ritenuta da molti la strategia più idonea a contrastare gli effetti negativi dell’insulino-resistenza. Studi condotti su soggetti intolleranti ai carboidrati o affetti da diabete di tipo 2 confermano che l’adozione di una dieta a basso contenuto di carboidrati determina nel giro di breve tempo una significativa perdita di peso, un aumento della sensibilità insulinica e una riduzione sia della glicemia a digiuno che del rischio cardio-vascolare. Se i risultati siano realmente imputabili alla limitazione dei carboidrati, però, non è ancora ben chiaro e molti ricercatori attribuiscono i benefici cardio-metabolici raggiunti alla perdita di peso, indotta dalla restrizione calorica che generalmente caratterizza tali diete (Brouns, 2018). In effetti, diverse revisioni sistematiche della letteratura indicano che a parità di calorie le diete low-carb e le diete a più alto contenuto di carboidrati hanno la stessa efficacia, sia in termini di perdita di peso sia in termini di incremento della sensibilità insulinica, sia a distanza di pochi mesi sia dopo due anni (Naude et al., 2014; Bradley et al., 2009). Sembra inoltre che i benefici delle diete low-carb siano da attribuire non tanto al minore apporto di carboidrati totali ma alla riduzione degli zuccheri aggiunti e dei cibi

amidacei raffinati, che tendono a indurre maggiori fluttuazioni della glicemia favorendo aumento di peso e insulino-resistenza (Dyson, 2015).

I pasti ad alto carico glicemico generano picchi glicemici elevati, stimolando un forte rilascio di insulina che a sua volta determina la comparsa di ipoglicemia di rimbalzo e il ritorno del senso di fame (Augustin et al., 2015). Allo stesso tempo, le cellule ricevono un sovraccarico di glucosio, che iperattiva il ciclo di Krebs generando un eccesso di NADH e un aumento della produzione di radicali liberi. Per proteggersi dallo stress ossidativo gli adipociti e le fibre muscolari sviluppano una resistenza nei confronti dell’insulina, in modo da prevenire l’ulteriore afflusso di nutrienti; le cellule-beta del pancreas, invece, non possono difendersi e l’esposizione prolungata all’iperglicemia finisce per danneggiarle, compromettendo il rilascio di insulina in risposta al pasto (Ceriello & Motz, 2004). La ridotta secrezione insulinica e l’insulino-resistenza periferica peggiorano ulteriormente la situazione, promuovendo un’iperglicemia cronica e la formazione dei cosiddetti prodotti finali della glicazione avanzata (AGE), composti altamente ossidanti in grado - tra le altre cose - di interferire con la maturazione degli oociti. Gli AGE derivano dalla reazione non enzimatica tra zuccheri e proteine, acidi nucleici o lipidi; oltre a essere prodotti in vivo si trovano pre-formati nel tabacco e in diversi alimenti, in particolare nei prodotti ricchi di grassi e nei cibi di origine animale. Burro, margarina, oli vegetali, noci, carne rossa, formaggi stagionati, pollame, pesce e uova ne contengono quantità considerevoli, specialmente se cotti ad alte temperature e in assenza di acqua. Cereali, legumi, frutta, verdura e latte scremato, al contrario, sono poveri di AGE, soprattutto se preparati senza aggiunta di grassi e cucinati al vapore o in abbondante acqua per un tempo limitato (Uribarri et al., 2010). Una volta assorbiti, gli AGE alimentari si aggiungono agli AGE endogeni e interagiscono con recettori di membrana posti a livello di numerosi tessuti, generando stress ossidativo e attivando il fattore di trascrizione pro-infiammatorio NF-κB (Garg & Merhi, 2015). Le pazienti affette da tiroidite di Hashimoto tendono ad avere concentrazioni plasmatiche di AGE superiori rispetto ai controlli e si ipotizza che l’accumulo di tali glucotossine nella ghiandola tiroidea possa interferire con la sintesi ormonale (Ruggeri et al., 2016; Ravichandran et al., 2019). Nella PCOS, alle concentrazioni elevate di AGE si aggiunge la marcata riduzione dell’enzima protettivo gliossalasi 1, probabilmente imputabile

all’iperandrogenismo. L’aumentata deposizione di AGE a livello ovarico interferisce con la follicologenesi, compromettendo l’ovulazione e riducendo la fertilità; l’infiammazione e lo stress ossidativo, inoltre, favoriscono lo sviluppo di insulino-resistenza. Una dieta a basso contenuto di AGE è in grado di indurre significativi miglioramenti della sensibilità insulinica nelle donne affette dalla sindrome, anche nell’arco di appena due mesi (Garg & Merhi, 2015).

Le diete low-carb, necessariamente ricche di grassi e proteine (molto spesso di origine animale), potrebbero dunque non essere la soluzione ottimale. Gli effetti a lungo temine di tali regimi alimentari non sono ancora stati sufficientemente studiati e non è possibile escludere con certezza conseguenze negative sulla salute indotte dalla loro applicazione prolungata. Le diete che limitano i carboidrati, inoltre, divergono nettamente dall’alimentazione tradizionale della maggior parte delle popolazioni del mondo, e risultano quindi particolarmente difficili da adottare e da seguire, soprattutto nel lungo periodo. Ridurre la quota di calorie provenienti dai carboidrati, per altro, sembra non essere affatto necessario. A differenza dei carboidrati raffinati e dei prodotti ad alto indice glicemico, infatti, i cereali integrali, i legumi, la frutta e la verdura - ricchi di fibre e antiossidanti - contribuiscono a migliorare la gestione della glicemia, favorendo la perdita di peso e aumentando la sensibilità insulinica (Dyson, 2015). Barnard e colleghi (2006), per esempio, hanno ottenuto eccellenti risultati nella gestione del diabete di tipo 2 somministrando ai pazienti una dieta vegana a basso contenuto di grassi, in cui ben il 75% dell’energia proveniva da carboidrati non processati a basso indice glicemico. Similmente, un gruppo di ricerca canadese ha recentemente assegnato una dieta normocalorica a basso indice glicemico incentrata sui legumi a un gruppo di donne con PCOS, riscontrando importanti miglioramenti in termini di sensibilità insulinica, profilo lipidico e pressione diastolica nonostante l’aumento della quota calorica proveniente dai carboidrati (passati dal 47,6 al 57,2%) (Kazemi et al., 2018).

Così come gli zuccheri e i carboidrati raffinati, anche i grassi - se consumati in eccesso - possono provocare stress ossidativo, infiammazione e insulino-resistenza. Le diete ad alto contenuto di grassi sono in grado di alterare la composizione del microbiota intestinale nel giro di poche settimane, riducendo la diversità complessiva,

aumentando il rapporto gram negativi/gram positivi e inibendo la proliferazione dei Bifidobatteri. La membrana cellulare esterna dei batteri gram negativi contiene il lipopolisaccaride (LPS), un’endotossina capace di innescare reazioni immunitarie innate. In seguito alla morte del microrganismo l’LPS viene rilasciato nel lume intestinale, che secondo le stime ne contiene più di un grammo; una piccola quota di LPS viene assorbita e finisce nel circolo sanguigno, in particolare durante i pasti. L’endotossemia fisiologica non rappresenta un problema per la salute, ma quando è in concentrazioni eccessive (endotossemia metabolica) l’LPS può legare il recettore Toll-like 4 (TLR-4) presente sugli adipociti e sulle cellule del sistema immunitario innato scatenando una risposta pro-infiammatoria (Netto Candido et al., 2018). In particolare, l’LPS stimola il rilascio di citochine e promuove il passaggio dei macrofagi residenti nel tessuto adiposo da un fenotipo anti-infiammatorio ad uno pro-infiammatorio, favorendo la deposizione ectopica di grasso e l’insulino-resistenza e aggravando patologie infiammatorie e autoimmuni come la tiroidite di Hashimoto (Hersoug et al., 2018; Mu et al., 2017).

Le diete ricche di grassi sono quelle che innalzano maggiormente l’endotossemia, sia perché aumentano la proporzione di gram negativi (più resistenti agli acidi biliari) sia perché amplificano la permeabilità intestinale all’LPS. Questo è vero, in particolare, per gli acidi grassi saturi, che promuovono la proliferazione dei batteri solfato-riduttori e di conseguenza elevano la concentrazione intraluminale di acido solfidrico, un gas che ad alte concentrazioni favorisce l’infiammazione e downregola le proteine delle giunzioni occludenti aumentando la permeabilità intestinale (Wisniewski et al.,2019). Allo stesso tempo, gli acidi grassi saturi inibiscono la crescita dei Bifidobatteri, che preservano l’integrità della barriera epiteliale grazie soprattutto alla fermentazione delle fibre solubili e alla produzione di SCFA. Un abbondante apporto di fibre può aumentare la quota di Bifidobatteri, riducendo gli effetti negativi delle diete ricche di grassi saturi (Cani et al., 2008). Le diete high-fat, in aggiunta, possono indurre un’eccessiva formazione di chilomicroni, che incorporano l’LPS e lo trasportano in circolo favorendo l’endotossemia metabolica post-prandiale (Ghoshal et al.,2009).

L’eccessivo afflusso di grassi saturi nelle cellule può compromettere il funzionamento degli enzimi mitocondriali e del reticolo endoplasmatico, favorendo lo stress ossidativo,

l’infiammazione e la formazione di intermedi lipidici tossici capaci di interferire con la via di segnalazione dell’insulina (Sobczak et al., 2019). Al contrario, gli acidi grassi mono e polinsaturi contrastano la lipotossicità, perché attivando i fattori di trascrizione PPAR promuovono l’ossidazione degli acidi grassi saturi in eccesso o la loro incorporazione nei trigliceridi, prevenendo la formazione di ceramidi e DAG (Tumova et al., 2016). Gli acidi grassi omega 3 sono inoltre in grado di ridurre la permeabilità intestinale e l’assorbimento di LPS, perché selezionano batteri protettivi come i Lattobacilli e attenuano l’infiammazione (Costantini et al., 2017); in aggiunta inibiscono la via di segnalazione del TLR-4, che può essere attivata dall’LPS ma anche dagli acidi grassi saturi. Infine, gli acidi grassi polinsaturi mantengono fluida la membrana plasmatica aumentando la sensibilità all’insulina; gli acidi grassi saturi, invece, se incorporati in eccesso nelle membrane cellulari, le rendono rigide e meno funzionali (Soczak et al., 2019).

4.5. MICRONUTRIENTI FONDAMENTALI