Non di una singola emozione, non di un solo comportamento, né di un’isolata parola dettati da pura e semplice spontaneità, è testimone Guglielmo Speranza negli oltre cinquant’anni di vita che racconta in prima persona al pubblico in sala. Ossia: egli riceve sì del conforto, una qualche partecipe solidarietà, una vicinanza realmente disinteressata; ma ne riceve da coloro che meno ci aspetteremmo. Dall’amante, il cui amore lo ripaga della disistima che la moglie nutre nei suoi confronti, e dal veterinario, la cui onesta deontologia rende ancor più ridicoli i paroloni sfoggiati dai tre idolatrati luminari della scienza medica.
Eccezion fatta per queste tre figure – Guglielmo, Bonaria e Sampiero186 -, i
personaggi della pièce incarnano mirabilmente la quintessenza dei mali della nostra società.
186Anche un personaggio minore - appena una comparsa, per la verità - come il portiere di casa
Speranza Giacinto Chiarastella, potrebbe far parte di questa circoscritta oasi di positività. Egli dà infatti prova di un’autonomia di giudizio più unica che rara, in un contesto nel quale le maldicenze attecchiscono e si diffondono come erbacce difficili da sradicare. Il suo senno e la sua indipendenza intellettuale traspaiono dalle poche essenziali parole che egli proferisce, giacché gli è del tutto estranea la comune abitudine di sopperire alla mancanza di fatti con fiumi di superflue e maligne parole. Gli bastano due scarne battute per dimostrare appieno l’affettuosa fedeltà che lo lega a Guglielmo. Come quando, nel terzo atto, replica semplicemente alle velenose insinuazioni di Furio circa il peso dell’appoggio di Girolamo Fortezza nella riuscita professionale del di lui genero: «Parlate di don Guglielmo? Pover’ommo» [Gli esami non finiscono mai, op. cit., p. 72]. O come quando, sul finale dell’opera, commenta malinconico la scomparsa del padrone: «E si è chiuso un altro libro!» [Ivi, p. 93].
A proposito del suo mestiere e del rango sociale che gli appartiene, si può osservare con Gianmichele Cautillo: «portiere dunque, lo stesso lavoro che svolgeva la madre di Bonaria, la sua stessa estrazione sociale, e la sua stessa capacità di guardare al mondo dell’alta borghesia con un occhio estraneo alle convenzioni comuni». [G. Cautillo, Gli esami di Eduardo. Analisi della commedia “Gli esami non finiscono mai” di Eduardo De Filippo, Il Calamaio, Roma, 2007, p. 58].
Un’ultima puntualizzazione in merito alla netta contrapposizione di tale personaggio al clima generale che domina la commedia: la parca saggezza di Giacinto Chiarastella dovette essere lungamente ricercata da Eduardo, se nel testo pubblicato da Einaudi nel 1973 l’autore gli faceva pronunciare
101
A cominciare da Gigliola Fortezza, la moglie del protagonista che - contrariamente a quanto suggerisce il nome - forte si mostra unicamente quando si tratta di difendere il finto decoro della propria posizione, per la qual cosa è disposta e prontissima a sfoderare gli artigli; mentre per il resto appare altamente influenzabile - e di fatto influenzata - dall’opinione altrui, vale a dire dal giudizio di persone schiave come o più ancora di lei dell’etichetta borghese e delle vuote apparenze. Sia la madre, il padre e lo zio, sia le tre bisbetiche amiche venerano la convenienza sociale come l’unico e vero dio misericordiosamente rivelatosi al genere umano. Com’è prevedibile, costoro si prodigano in ogni modo per instillarne la fede in sempre nuovi adepti, a cominciare appunto da Gigliola. E Guglielmo, con la sua impopolare dottrina della sincerità, non può assolutamente competere con questi santoni del perbenismo, con una così folta schiera di apostoli del «pare brutto». Prode comandante meritevole di una – anzi mille! – medaglie al merito è la
beneamata contessa Maria delle Grazie Filippetti Ullèra187, savia voce della
battute ben più esplicite, in risposta alle cattiverie di Furio; battute che dovette però eliminare nelle edizioni successive, dal momento che non compaiono in quella più recente, da me posseduta. Si legge infatti nella princeps: «E volete mettere la cerevella di don Guglielmo con quella del suocero? Io, come guardaporte, con don Girolamo Fortezza ci ho avuto a che fare, e vi posso giurare che per farci capire una cosa ci volevano le martellate in testa. Povero don Girolamo, sempre sia lodato e possa stare nella schiera degli angeli e ci sarà arrivato certamente perché era veramente fesso, che poteva fare per don Guglielmo? Viato chi aiutava a isso... Se non fosse stato per l’eredità del padre, stava frisco!». E davanti all’ostinazione di La Spina nel voler sminuire i meriti del «compare», Giacinto replicava ancora, senza esitazione: «Io saccio ca, dopo la dipartita di don Girolamo Fortezza, don Guglielmo ha seguitato a fare carte lui e a dare conto della sua persona a professori e scienziati» [E. De Filippo, Gli esami non finiscono mai, Einaudi, Torino, 1973, p. 72].
Quasi che, nella progressiva operazione di lima e revisione del testo, il nostro autore abbia voluto dimostrare l’efficacia della sintesi verbale. Una conclusione che sembra procedere nella stessa direzione del finale mutismo di Guglielmo.
187Quest’invitta campionessa d’ipocrisia, novella Donna Prassede che sempre ritiene di sapere ciò che
è meglio per gli altri – e di saperlo anzi, persino meglio dei diretti interessati – è contrassegnata da un nome assai gustoso, che - grazie al pomposo doppio cognome nobiliare e soprattutto alla dichiarata ironia contenuta nel nome proprio, Maria delle Grazie - la dileggia suscitando il riso negli spettatori. Difatti nel corso della rappresentazione, tenendo fede al suo mandato - prefigurato, come nel caso di Guglielmo, dal nome - ella non farà altro che elargire “grazie” ai membri della famiglia Speranza. Salvo poi non vederserne riconosciuto il merito dal protagonista che, replicando all’elogio rivolto alla contessa da Vittorina - la nuora, che ha definito la gentildonna un vero e proprio «angelo custode» - ribatte: «Ma un povero Dio come si può difendere da questi angeli custodi che ti escono dalle orecchie, dal naso, dagli occhi e che il bastone ce l’hanno non per affrontarti a viso aperto, ma per
102
coscienza di Gigliola che sa farsi più grossa e insistente allorché la giovane è sul punto di addentrarsi in acque perigliose. Per esempio quando, dopo averlo tradito, Gigliola vorrebbe infine sbarazzarsi di Guglielmo. Guai a lei! – interviene solerte la pia amica. Non pensa ella agli scandali che solleverebbe? Non pensa ai due figli che ha già avuto da quell’unione? Farli crescere senza un padre, giammai! Per dimostrare amore verso le creature, la donna – tale risulta implicitamente il consiglio della contessa – deve piuttosto crescerle in un ambiente che costituisce la negazione stessa dell’amore, la programmatica mancanza di una qualsiasi partecipazione emotiva alla
vita del coniuge188. Quale migliore esempio da dare ai propri figli? Perciò non sia
ingrato Guglielmo, non nutra antipatia per la nobildonna, giacché Maria delle Grazie si è sempre mossa nel suo interesse:
GIGLIOLA Sei ingiusto. Questa nobildonna ha sempre trovato il modo di parlare bene di te. GUGLIELMO Certo... Non c’era sistema migliore per rendere credibili le sue soffiate
velenose.
GIGLIOLA Non aveva nessun bisogno di «soffiare». Mi diceva continuamente: «Stai attenta, pensa a tuo marito: bene o male, tienitelo caro».
GUGLIELMO Bene o male?
GIGLIOLA Certo. Mi faceva riflettere che avevo due figli, che un passo falso mi poteva portare alla rovina, e che se c’era da sopportare, dovevo abbracciare la croce189.
Ma quello di Maria delle Grazie non è sempre un canto solitario, un a solo: quando è in discussione la salvezza spirituale dei figli di Gigliola, un vero e proprio
gettartelo continuamente tra le ruote...?» [E. De Filippo, Gli esami non finiscono mai, Einaudi, Torino, 2014, p. 64].
188
Al termine del secondo atto, ricordando colei che sola ha amato ed ha ormai perduto per sempre, afferma Guglielmo rivolgendosi ai figli Felice e Fortunato: «Troppo tardi, ho conosciuto la «profumiera». Se per miracolo, da studente, me ne fossi andato ad abitare sopra ai Miracoli [quartiere popolare in cui Bonaria risiedeva], e se miracolosamente la «profumiera» fosse venuta al mondo in tempo debito per incontrarsi con me, da coetanea, là sopra, voi oggi, invece di essere due figli nati da un gioco come quello delle parole incrociate, sareste stati due miracoli». [E. De Filippo, Gli esami non finiscono mai, op. cit., p. 66].
Degna di nota ci sembra, ancora una volta, la scelta dei nomi dei figli del protagonista, i quali, benché frutto di un matrimonio privo di amore, sono identificati per mezzo di attributi che rimandano a un’idea di gioioso appagamento e lieta spensieratezza. Come abbiamo osservato a proposito del nome della madre, anche in questo caso si registra quindi uno stridente contrasto con la natura cinica ed arrivista dei due giovani. O forse Eduardo intende così indicarci, con aspro sarcasmo, che proprio tali caratteristiche costituiscono, oggigiorno, il segreto della riuscita in società.
103
coro si leva all’unisono ad ammonire la madre inadempiente, rea di aver negato i legittimi, doverosi sacramenti ai suoi indifesi fanciulli:
GIGLIOLA [...] Un coro generale. Parenti e amici stretti, amici intimi, occasionali... una sola voce: «Ma non avete ancora battezzato questi due bambini? Neanche comunicati?» Quella gentildonna della contessa Maria delle Grazie Fillippetti Ullèra, quando seppe che Fortunato e Felice non erano nemmeno cresimati, diventò pallida. Tremava tutta, povera donna! «Ma lo sai che quei due ragazzi, se dovessero morire, non avrebbero diritto al Giudizio Universale e resterebbero eternamente sospesi nel Limbo?» Piangendo me lo diceva, povera Maria delle Grazie190!
I commuoventi sforzi della «povera» contessa saranno però ripagati, al pari di quelli degli altri crociati della bigotteria, visto che Gigliola mostra di aver perfettamente appreso la lezione: le passioni vanno e vengono, ma la nomea no: basta un solo passo falso per rovinarla una volta per tutte, per sancire la definitiva cacciata dalla rosa di coloro che contano, ovvero di coloro che tutto hanno sacrificato in nome di un’irreprensibile facciata.
La signora Speranza in questo senso sembra seguire le orme lasciate da altri personaggi eduardiani; da quelli che - prima di lei - si erano ricongiunti a mogli o mariti verso i quali non erano stati fedeli o da parte dei quali avevano subito il tradimento, non tanto per amore nei loro confronti, quanto per un sostanziale disinteresse per i coniugi che li portava a desiderare esclusivamente di non dare adito a pettegolezzi che li avrebbero portati sulla bocca di tutti.
Si pensi ad esempio al capostipite di tale genìa: il conte Carlo Tolentano di una spassosa commedia del 1922, Uomo e galantuomo. La moglie Bice lo ha tradito con un benestante impresario molto più giovane di lui, Alberto De Stefano, il quale - appurato che ella è rimasta incinta - vorrebbe assumersi le proprie responsabilità e sposarla, se non fosse che la donna si mostra evasiva e gli racconta valanghe di menzogne per bloccare sul nascere qualunque sua iniziativa. Ma ci vuole ben altro per placare l’ardire dell’amante: del tutto ignaro che Bice è già maritata, Alberto la fa seguire e - ottenuto l’indirizzo della donna - si presenta a casa sua e non perde
104
occasione per domandarne la mano a Matilde, la madre. Il suo tempismo non potrebbe essere migliore, visto che nel momento esatto in cui si scaglia contro l’incredulità della signora dichiarando che non si è sbagliato, che è proprio sua figlia la giovane con la quale ha concepito un bambino, fa il suo ingresso Carlo, l’altolocato marito di Bice. Compresa finalmente la ragione della reticenza dell’amata, in un estremo e nobilissimo tentativo di salvarne l’onore Alberto si finge pazzo. E la recita gli riesce così bene che tutti, sollevati, imputano le sconvenienti dichiarazioni dell’uomo alla sua malattia mentale. Scopriremo ben presto però che il conte ha solo finto di credere alla follia di Alberto: egli in cuor suo sa benissimo che il galantuomo ha detto il vero; nondimeno ha apprezzato talmente tanto il suo brillante stratagemma che adesso vorrebbe inchiodarlo a quella salvifica finzione:
CARLO [...] Grazie alla vostra geniale trovata, lo scandalo non è avvenuto. Ed era quello soprattutto che mi spaventava. Voi non troverete onesta questa mia soluzione... Potreste però comprenderne la necessità, occupando il posto che io occupo in società, e aggiungendo ai vostri altri vent’anni.
ALBERTO Anche trenta...
CARLO Signor Alberto, convincetevi: io riuscirei a spezzarvi in due... Ma non lo faccio. Crepo, prima di provocare uno scandalo.
ALBERTO E crepate!
CARLO Ora, per evitarlo del tutto, c’è un unico mezzo che vi impongo: dovete rimanere pazzo, dovete farvi rinchiudere in manicomio senza ribellarvi, e senza cercare di giustificarvi, come tentaste di fare ieri, in casa mia, e per fortuna nessuno vi ha creduto.
ALBERTO Sicché, secondo voi, io dovrei rimanere pazzo per tutto il resto della mia vita? CARLO Ma chi vi ha detto questo! Perché esagerate? Per qualche tempo, finché il fatto non
sbiadisce191.
191
E. De Filippo, Uomo e galantuomo, in Cantata dei giorni pari, op. cit., pp. 79-80.
La medesima miscela di infedeltà e catartica follia era già alla base di una pièce assai cara ai fratelli De Filippo, che la interpretarono nel febbraio del 1936 riscuotendo un enorme successo. Mi riferisco al Berretto a sonagli di Luigi Pirandello, scritto nel 1916. Anche lì un marito tradito e pubblicamente disonorato esigeva, a titolo di risarcimento, che il responsabile di cotanto scandalo si fingesse pazzo, lavando così l’ignominia portata a galla. Tuttavia, nei due atti pirandelliani, a dover scontare la “pena” non era il cavalier Fiorìca - l’amante di Nina, l’adultera moglie di Ciampa - bensì la consorte del cavaliere, la Signora Beatrice Fiorìca che, certa dell’infedeltà del coniuge, aveva voluto vendicarsi di lui facendolo cogliere in flagrante con Nina ed arrestare. Agendo così però ella aveva compromesso anche l’immagine di Ciampa, il quale adesso, non volendo essere schernito da tutto il paese col nome di becco, pretende che Beatrice si finga folle: «Si dice: «È pazza!» e non se ne parla più! Si spiega tutto! Pazza, pazza da chiudere e da legare! E solo così io non ho più niente da vendicare! Mi disarma. Dico: «È pazza! Posso più farmene d’una pazza?». E basta così! Il cavaliere non avrà più da mortificarsi, domani, comparendo tra i suoi amici; e la signora va a farsi tre mesi di villeggiatura! Via,
105
Qui non si tratta di una succosa vendetta ai danni dell’amante che gli ha sottratto la moglie: in gioco – per il conte – c’è soltanto la sua azzimata reputazione di medico e aristocratico da proteggere; poco importa se Bice non lo ama e lo tradisce, purché ella non ne infanghi il nome. Tanto più che la sua condotta non è stata certo migliore di quella della coniuge - come ella rivela finalmente al commissario di polizia Lampetti, riuscendo così ad appianare i conti col marito e a restituire ad Alberto la propria dignità. Carlo infine sarà costretto ad ammettere di aver avuto anch’egli una relazione illecita, testimoniata del resto dal rapporto epistolare da lui intrattenuto con
un’altra donna - ciò che il commissario definisce «una corrispondenza galante»192
, causando il colorito disappunto di Gennaro, l’attore guitto che, facendo tanto di corna da sotto il cappello, non può esimersi dall’osservare che «corrispondenza equivoca» sarebbe espressione ben più calzante.
Degni discepoli del Signor Tolentano sono Olga e Benedetto, i coniugi Cigolella nelle Bugie con le gambe lunghe, una pièce del 1947. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad una coppia mal assortita, ma adesso interviene lo scoppio della guerra ad ingarbugliare una situazione già di per sé tesa: il secondo conflitto mondiale e l’occupazione tedesca separano bruscamente marito e moglie e ne favoriscono la reciproca infedeltà. Benedetto può dunque colmare la propria solitudine con la cameriera incaricata della manutenzione della sua dimora grossetana; mentre Olga, a Napoli, può consolarsi della lontananza del marito tra le braccia di un valoroso capitano americano. Naturalmente entrambe le unioni lasciano traccia nello stato interessante delle donne; e le due gravidanze genererebbero immediato clamore se i Cigolella non intervenissero prontamente a placare le acque, unendo le forze davanti alla terribile minaccia di uno scandalo.
via, sbrighiamoci, che meglio di così non si potrebbe fare! Ma deve partire assolutamente questa sera stessa!» [L. Pirandello, Il berretto a sonagli, BUR, Milano, 2012, p. 90].
106
Di nuovo, a prevalere non sono l’amore e il perdono, ma un interesse comune; la strenua volontà di non offirsi in pasto alla spietata opinione pubblica, di conservare intatti patrimonio e status sociale.
Al pari di Libero Incoronato – il malcapitato vicino di casa alla cui porta bussano a turni alterni Olga e Benedetto per sfogarsi, recriminare l’uno le colpe dell’altra, cercare di vincere il protagonista alla propria causa e persuaderlo ad intervenire in loro favore – lo spettatore resta basito nel constatare con quanta lucida freddezza essi apprendono il reciproco tradimento. Difatti scopriamo ben presto che l’imprenditore aveva parlato chiaro: se la moglie non si fosse affrettata a raggiungerlo in Toscana, era avvisata: lui non ci avrebbe messo molto ad affogare il dispiacere trovandosi anche solo temporaneamente un’altra donna. Lo svenimento che Olga inscena quando il marito le confessa l’adulterio appare quindi fin da subito stonato, sopra le righe, considerato il clima di distacco che aveva già avuto modo di trapelare tra i due. Il pubblico riceverà la conferma dei propri sospetti - ovverosia la prova della falsità della Cigolella - quando poco dopo, non appena uscito il marito, ella confiderà a Libero e alla di lui sorella Costanza:
OLGA Già, si fa presto a dire. Andavo a Grosseto? ... e qua? LIBERO Qua, che?
OLGA (come per dire: «Fate gli innocenti») Non sapete niente? [...]
COSTANZA (ammettendo in parte) Qualche indiscrezione della portiera...
OLGA (esaltandosi si alza e si avvicina al tavolo sedendo) Un uomo straordinario! Innamorato di me come un pazzo. [...] È stato in America ed è tornato. È tornato come aveva promesso, e dice che mi vuole sposare. Mi fa divorziare e mi sposa. Voi capite che, se andavo a Grosseto, perdevo il capitano. E a me, francamente, mi fa piacere di andare in America193.
Dopo aver fatto riconoscere il figlio ad un suo sottoposto, Benedetto sorride nell’abbracciare la creatura messa al mondo dalla moglie e che egli sa benissimo non essere sangue del suo sangue. Per di più nessuno sembra ricordare la verità, ora che
193
E. De Filippo, Le bugie con le gambe lunghe,in Cantata dei giorni dispari, volume I, op. cit., p. 276.
107
la menzogna ha potuto consolidarsi grazie al connivente silenzio generale. Ecco allora che all’ingresso del neonato
Tutti [...] formano un semicerchio, curando ognuno di scegliersi il posto che, per anzianità ed importanza morale, gli spetta, dando, con gesti di falsa modestia, l’impressione di non volerlo accettare. [...]
La levatrice, pratica del rito e dei suoi diritti, avvicinandosi alla balia, allunga sapientemente gli avambracci, affinché quella possa adagiarvi sopra il neonato, il quale è tutto adornato di merletti e fiocchi, e disteso in ricco e immacolato port-enfant. Abbozzando uno stereotipato sorriso di occasione, inizia il giro da sinistra a destra. Ad uno ad uno i presenti baciano il bimbo e mettono convenientemente dei biglietti di banca sul port-enfant ai piedi del neonato. La levatrice, falsamente disinteressata, accentua il sorriso: «Grazie... Grazie...» Compiuto il giro, la balia riprende tra le braccia il bambino, mentre la levatrice esce per la prima a sinistra. Tutti ormai si affollano intorno alla balia per vedere meglio il neonato e prodigargli complimenti194.
L’insulsa convenzionalità della pioggia di complimenti che gli invitati si prodigano a rivolgere alla creatura e ai suoi genitori – senza tuttavia rinunciare a qualche maliziosa allusione alla dubbia paternità del bimbo – già presagisce la vacuità dei commenti che si spenderanno in occasione della nascita dei due figli di Guglielmo. E se d’altronde identica è la tenacia con cui Olga e Gigliola, le protagoniste femminili delle due commedie, proteggono ciò che per loro è una priorità assoluta, vale a dire